A Vilnius la presidente del Consiglio (finalmente in conferenza stampa dopo mesi di silenzio) sulle ultime questioni interne ha cercato di essere alquanto assertiva. Non ha alzato più di tanto la tensione con la magistratura, ma alla fine si è contraddetta ribadendo che le Procure fanno opposizione. E allo stesso tempo ha criticato il presidente del Senato, Ignazio La Russa, assumendosi però possibili rischi politici interni. Alla fine, ha parlato. Dando la fotografia di una Giorgia Meloni alla dottor Jekyll e Missis Hyde, da una parte mette la sordina alle polemiche e dall’altra rivendica l’assalto alla magistratura espresso con la nota anonima di Palazzo Chigi di qualche giorno fa, «la magistratura fa opposizione». Qual è la vera Meloni? Sì, alla fine ha parlato, la presidente del Consiglio. Facendo capire di ritenere insostenibile la pesantezza dello scontro con le toghe («Non c’è nessuno scontro da parte mia») ritirando così la manina dalle unghie smaltate di rosso: a spegnere i falò non si sbaglia mai. Certo, quella nota l’ha rivendicata: come avrebbe potuto sconfessarla? Meloni una e bina, dice subito il Partito democratico. Può darsi però che nella sostanza il partito della trattativa stia prevalendo su quello dello scontro di tipo berlusconiano: d’altronde è un partito molto forte nell’entourage della presidente del Consiglio, annoverando personalità di governo come Guido Crosetto e Alfredo Mantovano, due personaggi sui quali certamente il Quirinale, che tra l’altro ha sul tavolo la legge Nordio sulla quale pare esserci qualche problema, conta per evitare un prolungamento lacerante della guerra dei trent’anni dipietrista-berlusconiano. Con viso non corrucciato a beneficio di telecamere, persino sorridente e come riposata (questi viaggi all’estero la salvano da uno stress insopportabile), da quel di Vilnius Meloni ha dato un mezzo segnale di voler tirare i remi in barca più che per intima convinzione, perché resta sospettosa sul fatto che in qualche modo vi sia un complotto di ambienti contro il governo, per opportunità politica, oberata com’è da un’improvvisa preoccupazione sui conti pubblici, complice anche il pasticcio sul Pnrr, dall’evidente crisi di Forza Italia e dal permanente e istrionico fare e disfare di Matteo Salvini, aggiungiamoci le gaffe quotidiane dei suoi e il gioco è fatto, nel senso che in questo quadro politico più che complicato è chiaro che alla presidente del Consiglio non dovrebbe convenire l’apertura di un nuovo fronte. Ma il messaggio di fondo è stato inviato: chi pensa che si torni alla stagione berlusconiana si sbaglia. Dopodiché, nel merito della triplice vicenda “nera” la presidente del Consiglio non ha attaccato la prima, anzi l’ha salvata (per ora) perché «un avviso di garanzia non comporta automaticamente le dimissioni»; ha abbastanza difeso il secondo perché «il giudice non dovrebbe sostituirsi al pubblico ministero» (anche se non pare proprio ci sia nulla di irregolare nel pronunciamento del Giudice per le indagini preliminari di Roma che ha ordinato l’imputazione coatta per il sottosegretario alla Giustizia). Ma a sorpresa ha abbastanza mollato Ignazio La Russa, la luce di Giorgia. La Russa non doveva intervenire: è già questa è una bacchettata sulle nocche come quelle che le maestre di un tempo rifilavano agli scolari. Ma non basta, ecco la solidarietà di Meloni alla denunciante il presunto stupro che avrebbe come responsabile Leonardo Apache La Russa, il figlio del presidente del Senato. Questa è grossa. Alla seconda carica dello Stato non avrà fatto piacere. Uno come lui queste cose se le ricorda. La storia non è destinata a finire a Vilnius. Perché se Giorgia è un po’ Dr Jekyll e un po’ Missis Hyde, Ignazio La Russa invece, è Mister Hyde e basta. E lei lo sa. Ma tutto ciò “c’azzecca poco” diceva un noto magistrato di Mani pulite, rispetto all’orizzonte che l’Italia dovrà affrontare nel prossimo anno e mezzo. Infatti, a giugno 2024, si insedierà il nuovo Parlamento europeo e pochi mesi dopo gli americani sceglieranno il loro nuovo presidente. Sono gli appuntamenti che plasmeranno le nostre vite negli anni a venire e sono molto più vicini di quanto si possa pensare. Si formeranno nuove alleanze politiche continentali e si eleggerà il nuovo presidente della Commissione di Bruxelles. E, come accennato, qualche mese dopo, a novembre, gli americani sceglieranno il loro nuovo presidente. Saranno momenti decisivi per il nostro futuro, probabilmente le elezioni più importanti della nostra epoca (lo so, si dice ogni volta così, ma viviamo in tempi difficili e di sfide sempre più pericolose), con effetti rilevanti sulla guerra in Ucraina, sui diritti civili in Occidente e sull’economia globale. Mancano un anno e un anno e mezzo a questi appuntamenti, ma sono molto più vicini di quanto si possa pensare guardando semplicemente il calendario. Quel che più conta è che sembrerebbe vi stiamo arrivando del tutto impreparati, specialmente noi italiani. In Europa è in corso un nuovo riequilibrio tra le tradizionali famiglie politiche europee. I popolari e i socialdemocratici non sono più avversari come una volta e insieme formano una maggioranza non estremista. I liberal-democratici sono sempre lontani dal guidare le istituzioni europee, anche adesso che hanno un leader globale come Emmanuel Macron. Il punto è che le prossime elezioni potrebbero far saltare il patto tra popolari, socialdemocratici e liberali con cui è stata governata (bene) l’Europa durante la crisi causata dal Covid e la guerra di aggressione russa all’Ucraina che vuole essere europea. La minaccia dei sovranisti e dei nazionalisti, alimentata anche dalla propaganda russa, ma anche la crescita dei conservatori meno estremisti, con ogni probabilità non consentirà alle tradizionali famiglie europee di continuare l’attuale alleanza di governo e quindi già adesso si prospetta una nuova maggioranza politica costituita dai popolari e dai conservatori, tra cui i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e i nazionalisti polacchi. Lo scenario più probabile, dunque, è quello di un deciso spostamento a destra delle istituzioni europee che potrebbe sfaldare l’Unione e fomentare ulteriormente le istanze nazionaliste e populiste dei demagoghi di destra. Sui diritti civili saranno guai seri per tutti, mentre le istanze sovraniste rischieranno di minare le fondamenta dell’Unione. Restando all’Italia, ricordiamoci le posizioni di Giorgia Meloni prima che diventasse presidente del Consiglio sul primato del diritto interno rispetto a quello europeo, ovvero una via legislativa per giungere all’Italexit proprio mentre gli inglesi cominciano a capire in che pasticci si sono messi con la Brexit. L’altro tema preoccupante è quello della sicurezza europea messa a rischio da Vladimir Putin e dai suoi sgherri. I popolari europei sono stati tra i maggiori sostenitori della resistenza ucraina, come hanno più volte dimostrato le presidenti Roberta Metsola e Ursula Von der Layen, ma che cosa succederà una volta che il Ppe governerà l’Europa con i più scettici conservatori? È vero che, per ragioni storiche e geografiche, i nazionalisti polacchi sono innanzitutto antirussi e difficilmente cambieranno idea, ma il solido e serio atlantismo dimostrato da Giorgia Meloni da quando è al governo dovrà comunque superare la prova dei crescenti mugugni dei suoi alleati interni filo russi e, soprattutto, il risultato delle elezioni americane, perché una cosa è doversi accreditare in una Washington a salda guida atlantica, un’altra è fare sponda con il più affine Donald Trump o con un altro nazionalista disinteressato alle sorti dell’Europa, figuriamoci dell’Ucraina. E così arriviamo alla sfida americana di novembre del prossimo anno tra un presidente come Joe Biden, che ha guidato in modo favoloso il mondo libero dopo la débâcle afghana decisa dal suo predecessore, ma che è anche anziano e visibilmente stanco, e un quasi golpista devoto a Putin come Donald Trump. L’alternativa a Trump al momento è Ron Desantis, il negazionista del Covid che governa la Florida. Desantis sull’Ucraina ha le posizioni più filorusse e antieuropee possibili, mentre sul fronte interno promuove politiche reazionarie sui diritti civili e si presenta agli elettori come un Trump intelligente, un Trump capace, un Trump efficiente, uno che se decidesse di organizzare un golpe, come aveva tentato Trump tra il novembre del 2020 e il gennaio 2021, sarebbe in grado di portarlo a compimento. Trump o Desantis alla Casa Bianca sono entrambi uno scenario da tregedia per l’America, per l’Ucraina, per l’Europa e per il mondo libero. E finalmente una vittoria, dopo tante sconfitte in Ucraina, per le cosche mafiose al potere in Russia. L’Italia è una piccola rotella dell’ingranaggio e al momento è senza alcun ruolo nel quadrante globale, perché l’attuale leadership neo, ex, post-fascista non ha la credibilità internazionale, nessuna esperienza e nemmeno precedenti di affidabilità, basti pensare che senza alcun motivo il governo Meloni, unico Paese dell’Ue, ha bloccato per mesi la nascita del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità messo in piedi per evitare che le crisi nazionali possano impattare letalmente sull’Unione. L’alternativa alla Meloni al momento non c’è. Il Pd di Elly Schlein è ancora tutto da misurare per contenuti e azione politica di una opposizione efficace; invece, è evidente che il partito è ancora nel caos creato da una micidiale miscela di principianti, di reduci e di dirigenti uniti soltanto da una forte vocazione minoritaria. I populisti di Giuseppe Conte sono un fenomeno da avanspettacolo buono per la Duma, per Mar-a-lago e per Elly Schlein, più che per Bruxelles. I così detti liberal-democratici o se preferite “riformisti” hanno sprecato l’occasione della vita di creare un’alternativa credibile al bipopulismo facendo fallire il progetto di partito unitario (terzo polo). Alcuni sognano di fare la gamba liberale della destra, e sperano che altrettanto faccia Macron, altri si girano dall’altra parte e tentano di tenere alta la bandiera riformista mentre la calca populista e radicale li schiaccia inesorabilmente. Manca meno di un anno alle elezioni. Ma in meno di un anno si possono fare molte cose, o almeno si può provare a farle. Restare inerti a guardare l’avanzata dei nazionalisti e dei populisti perché tanto non c’è niente da fare non è una soluzione politica rischia d’essere vera complicità…
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