«Incerto: così è per gli italiani il presente e così è il futuro percepito. Pensando al domani, il 69% dei cittadini dichiara di provare incertezza, il 17,2% pessimismo e il 13,8% ottimismo, con i pesi relativi di questi ultimi due stati d’animo quasi equivalenti, che finiscono per neutralizzarsi» (dati Censis del 53esimo Rapporto). Cos’è che provoca l’incertezza in tanti italiani? Sicuramente: la doppia drammatica crisi degli ultimi mesi, dove siamo stati di fronte a una inaspettata (e terrorizzante) crisi sanitaria insieme alla prospettiva di una radicale (e drammatica) crisi economica. La compenetrazione e la contemporaneità di queste due crisi hanno creato un po’ più di un’obbligata confusione (di idee e di prospettive), provocando una diffusa incertezza individuale che allo stesso tempo è anche collettiva. Si sono affermati alcuni grandi stati d’animo: il primo è stato quello di una paura diffusa ed indistinta, spesso emotivamente eccitata; il secondo è stato quello di un rallentamento di massa, frutto certo del lungo lockdown, ma in fondo accettato (e ben vissuto in ordine e compostezza) dall’insieme della popolazione; il terzo è stato quello dell’inatteso risveglio di una determinazione quasi elitaria (scandalizzatevi pure) di pensare al futuro, al superamento vitale della crisi, alla immaginazione di un futuro diverso dalla dinamica degli ultimi decenni. Mai così in tanti a dire: “Dobbiamo progettare l’Italia che verrà” perché “non saremo e non potremo più essere quelli di prima”. E pensare che l’esigenza di riprogettare “l’italia del domani” era una necessità già presente da tempo nella società politica, economica e sociale italiana. Ma prima d’ora mai era stato così naturale che in questa prospettiva, si producessero una valanga di documenti di previsione o di programma che abbiamo ormai un po’ tutti sui nostri tavoli di lavoro. Non c’è stanza di governo o di ente locale, di associazione culturale o di rappresentanza sociale, di azienda o di centrale finanziaria, in cui non ci si sia messi al lavoro per pensare come superare la doppia crisi attuale e per disegnare il nostro possibile futuro. E la parola “piano”, che era stata messa in soffitta negli anni ’50 e ’60 (dal Piano Vanoni al Piano quinquennale approvato dal Parlamento nel ’66-’67, a quello Generale dei Trasporti, ecc.), è tornata di fiammeggiante attualità, con il contributo di piccole e grandi task force (quella Colao, per tutte). Aiutandomi con la lettura della relazione del Prof. De Rita al Convegno: «… un’iniziativa di metà anno per discutere e approfondire i temi della società italiana. I soggetti dell’Italia che c’è e il loro fronteggiamento della crisi», tenutosi a Roma, lo scorso 2 luglio. Mi pare di poter dire che: non c’è modo di non rimanere perplessi di fronte a questa vera e propria esplosione di volontà che nei vari ambiti in cui si articola la nostra società li vede lanciarsi in avanti, rendendo palesi un’ampia gamma di idee e proposte di vario tipo. Aggiungo che è un fatto solo apparentemente positivo. Di fatti, più si approfondisce si vede crescere immediatamente in molti, una già presente e comune perplessità, che proviene dalla semplice constatazione di ottenere degl’esiti concreti. Cos’è che solleva questo dubbio profondo sulle possibilità reali di mettere a terra e in partenza di marcia tale esiti? Il fatto che nell’ultimo quarto di secolo nel nostro Paese, (e ormai in molti, l’hanno capito) l’immobilismo e l’incertezze sono cresciute soprattutto per la mancanza di politica… di quella che come si diceva un tempo è scritta con la P maiuscola. Già la crisi italiana (cosa mai ammessa dalla nostra politica) è proprio la crisi di questa e delle forme della sua rappresentanza, Partiti in testa. La constatazione credetemi è facile. Partiamo inanzi tutto dal fatto che serve una classe dirigente complessivamente intesa. Che Destra e Sinistra si sono alternate al potere per non brevi stagioni. Ma oggi, lo ricordo per primo a me stesso, sempre meno persone hanno voglia di impegnarsi in politica. Cosa in parte comprensibile, considerato che ormai molti cittadini – sicuramente sbagliando e cavalcando un odio che è in gran parte alimentato dagli stessi politici – considerano la politica quanto di peggio ci sia nel Paese. Quando poi si trova qualcuno che ha voglia di impegnarsi, di solito vuole “arrivare subito”, saltando tutte le tappe intermedie – sempre indispensabili per formare invece una classe dirigente degna di questo nome – e andando ad occupare un posto di potere (e possibilmente ben pagato) in meno di una manciata di secondi. C’è poi, è vero, il tema del personalismo, del leaderismo, del singolo che prevale su tutto, dell’individualismo. Ma è un tema tipico di questa società, di cui la politica altro non è che uno specchio. Tant’è che tutte le idee e le proposte contenute nei documenti che in questi ultimi decenni pensavano e tracciavano il futuro del nostro Paese, sono finite nelle mani di politici privi delle competenze necessarie a realizzarle… tutto è stato infilato nell’imbuto di una deputata responsabilità attuativa dello Stato o di una qualsiasi altra struttura di intervento pubblico. Un fatto si potrebbe dire abituale e qualche volta solo ideologicamente connotata – il ritorno dello Stato imprenditore o il primato del capitalismo politico. Ma va dato conto di due incontrollabili dati di fatto: che la macchina pubblica italiana è oggi in così grave crisi di gestione politica e di azione amministrativa da ritenere improbabile, se non impossibile, darle la responsabilità di un processo complesso e delicato quale quello di costruire una meravigliosa “Italia che verrà”; l’altro dato di fatto è che il fronteggiamento della recente crisi sanitaria e dei suoi immediati effetti economici, ha spinto la macchina pubblica ad operare su tanti campi di specifica difficoltà, con una politica di interventi a pioggia e di sovvenzioni ad personam, con una filosofia di azione che è esattamente il contrario di quel che richiederebbe una pianificazione strategicamente articolata. “Nelle varie crisi susseguitesi in questi ultimi due decenni, la politica ha sempre più configurato lo Stato italiano come “addetto alle contingenze emergenziali”, lontano quindi da quelle responsabilità di “soggetto generale dello sviluppo” implicitamente evocato da ogni progetto o piano complessivo di evoluzione della società”. Scrive De Rita. E fatto grave da sottolineare: alquanto lontano dai dettami etico morali della nostra Carta costituzionale. Tutto è diventata semplice propaganda elettorale piena di promesse destinate a non essere mantenute. Oggi, riemerge una antica e giusta convinzione, che lo sviluppo non lo fanno i piani e i vari poteri statuali, ma lo fanno i soggetti reali, quotidiani, della società e dell’economia. Convinzione non molto di moda, ma che è sperabile si diffonda in futuro sempre più, proprio man mano che dovremo affrontare difficoltà diffuse, cui soltanto una diffusa presenza di soggetti (economici, sociali, istituzionali) che imboccano insieme una comune via, potranno dare una adeguata soluzione. Questa convinzione sta andando, a parere del Prof. De Rita: “…confermandosi sui primi incauti passi della ripresa dopo il lockdown. Se non ripartono i vari soggetti: le grandi imprese, le piccole imprese, le aziende di rete fisica, le aziende di rete digitale, gli enti locali, le autorità regionali, le strutture scolastiche, il sistema sanitario, il mondo del terzo settore, i Sindacati ecc. ecc., non saranno certo i documenti di piano a creare una nuova dinamica di sistema”. Credo di poter dire che però confidare solo nei soggetti comunque non basta. Occorre che essi siano aiutati nella loro dinamica specifica su di un piano generale per compiere complessivamente un movimento in avanti nei prossimi mesi e direi nei prossimi anni. Occorre una politica che ricostruisca un “sistema Italia”. E il primo aiuto indispensabile è quello di chiedere ai vari soggetti di fare un esame di coscienza (una sorta di “stress test”, per usare un termine non troppo spirituale) su come hanno vissuto la crisi negli anni scorsi e soprattutto negli ultimi mesi e quali sono le complessive risultanti attuali difficoltà. Forse gli Stati generali tenutesi qualche settimana fa e convocati dal Premier Giuseppe Conte, avrebbero potuto (dovuto) essere l’occasione per fare ciò. Purtroppo non è stato così. E ancora una volta abbiamo visto che il Paese non sa guardarsi allo specchio e capire dove tutti i vari soggetti politici e sociali hanno avuto e hanno i loro punti di forza e i loro punti deboli: in termini di decisioni strategiche, di consolidamento istituzionale e finanziario, di reazione organizzativa, di flussi di informazione interni ed esterni, di rapporto fra loro e di connessione con i diversi tipi di intervento pubblico. Senza tutto ciò, per tutti diventa facile essere tentati di fuggire in avanti senza aver “registrato la macchina” o, peggio ancora, senza essere tentati di approfittare esclusivamente delle grandi aspettative e dei grandi piani (sul “futuro che verrà”) per ottenere vantaggi puramente particolaristici (più personale, più spesa, più potere categoriale). Nulla di più di quello che succede in una “società corporata” la definizione è del noto sociologo Franco Ferrarotti in un saggio del 1985 dal titolo: “cinque scenari per il 2000”. Un libro che anticipava quello che poi sarebbe accaduto alla Società italiana. Se ognuno di noi o per meglio dire, se ogni soggetto politico economico e sociale, si pone nel presente e in prospettiva solo con il proprio “particulare”, ognuno subendo l’incertezza presente e futura, si accentueranno ulteriormente le già esistenti divisioni tra questi soggetti, per come sono state fortemente indotte da una globalizzazione senza regole che ha caratterizzato gli ultimi due decenni. Si accentueranno ancor più le diseguaglianze economiche quelle sociali e quelle politiche nei Continenti e tra le Nazioni che li costituiscono. Cercando vantaggi per il solo proprio particolare interesse difficilmente “#andrà tutto bene”. Valga l’esempio del nuovo corso della Confindustria di Carlo Bonomi e della sua “democrazia negoziale”. Cosa significa: la democrazia è democrazia, ed è contendibile per natura altrimenti non lo sarebbe? Ma se approfondiamo leggendo a riguardo qualcosa di più, ci si accorge che sarebbe una sorta: “…di grande alleanza pubblico-privato” in cui “il decisore politico non ha delega insindacabile per mandato elettorale” ma dialoga “incessantemente attraverso le rappresentanze del mondo dell’impresa, del lavoro, delle professioni, del terzo settore, della ricerca e della cultura”. In sostanza ciò appare come un ‘fighissimo’ esercizio retorico ma in realtà, grattando grattando, significa che secondo Bonomi la sua Confindustria dovrebbe essere di fatto la terza Camera dell’iter parlamentare. I cittadini votano un governo ma il governo dopo esser stato insediato dal Parlamento deve essere ulteriormente avallato da loro. Forte, eh? Peccato che proprio sulla rappresentanza di Confindustria, ci sarebbe qualcosa da ridire visto che la Confindustria oggi, rappresenta quel bel capitalismo fatto con i soldi degli altri (Eni, Enel, Leonardo, Poste, tanto per citarne qualcuno) che ha consigli d’amministrazione decisi dal governo e ha perso parecchia rappresentanza di quel capitalismo privato che ormai dalle nostre parti è diventato una rarità. Ma non è tutto, no. Confindustria per bocca del suo presidente Bonomi ha criticato (legittimamente) le scelte del governo definendo (legittimamente) assistenzialismo le iniziative prese come i bonus e la cassa integrazione: peccato che proprio Confindustria abbia usato la cassa integrazione per i giornalisti del suo quotidiano Il Sole 24 Ore. Curioso, no? E poi c’è la sua ricetta per ripartire, questo è il vero capolavoro: meno regole per gli appalti, più cemento per tutti e soldi alle imprese e possibilmente più possibilità di precarizzare ulteriormente i lavoratori. Ma non sono le stesse ricette di tutti questi ultimi vent’anni? O meglio le ricette di sempre?! Sarebbe bastato dire invece: «…caro Conte sappiamo che arriverà una montagna di soldi dall’Europa e vogliamo la nostra fetta». Un po’ crudo, ma molto più apprezzabile. Senza nemmeno troppo sforzo nell’inventare nuove formule. Concludendo: il rischio vero, ben al di la del ricordato: “Dobbiamo progettare l’Italia che verrà” perché “non saremo e non potremo più essere quelli di prima”. E’ quello invece di replicare proprio una società sempre più corporata …che finirà per tradire (ammesso non sia già definitamente accaduto) non solo un complessivo e più equilibrato ed equo sviluppo economico e sociale mondiale, ma anche quello interno dei singoli paesi nei loro Continenti. Rinunciando di fatto alla responsabilità di essere tutti insieme i “soggetti di uno sviluppo politico, sociale ed economico nuovo e adeguato ai tempi e ai problemi presenti e futuri. Per evitare che i giganteschi conflitti economici in corso possano ribaltare gli equilibri delle varie aree geopolitiche in cui è suddiviso il mondo. Annullando la dove ancora resistano (Europa) ogni forma di democrazia rappresentativa e le sue articolazioni istituzionali. Con la conseguenza di veder prima che poi esplodere possibili nuove sanguinarie guerre. Nell’incerto presente e nel futuro percepito… c’è un pericolo antico. La Storia non è mai uguale (forse)… ma spesso replica se stessa…
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