Politica: l’Italia del 25 settembre. Una campagna elettorale la più novecentesca di sempre. Ma, senza popolo e senza cuore…

Lo scontro si gioca sull’eredità del fascismo o su promesse mirabolanti e irrealizzabili. Di tutto si parla, tranne che delle grandi emergenze del pianeta e di quelle del nostro Paese. Mario Lavia scrive su Linkiesta.it: “Sono elezioni molto novecentesche, queste. «Tutto già visto, catalogato», cantava Edoardo Bennato. La campagna elettorale finora verte sull’eredità del fascismo e sull’eterno conflitto tra massimalisti e riformisti; su alleanze, candidature, polemicucce e sgambetti tra i leader della stessa coalizione”. Sembra però (a mio modesto parere) che ci sia una differenza non di poco conto tra queste elezioni e quelle del secolo scorso. A differenza delle campagne elettorali del Novecento queste sono senza popolo e senza cuore: si dirà che ora il popolo è al mare, ma no, il popolo assiste e assisterà. Ma, con distacco se non addirittura con fastidio alla tombola del 25 settembre, magari gli ultimi giorni si vedranno un po’ di militanti in piazza – che comunque non sono esattamente popolo ma avanguardie, ceto politico allargato. Persino la tv per adesso non cattura più di tanto e il pensiero che per un mese, dovremo vedere quelli che in realtà vediamo da anni tutte le sere, qualunque sia l’argomento, certo deprime alquanto questa campagna elettorale e le sue prospettive politiche. Visto altresì l’enorme frammentazione politica come mostra il grande numero dei simboli presentati. Di tutto si parla tranne che delle emergenze del pianeta e di quelle nostro Paese: diciamo la verità, è sempre un po’ così ma stavolta di più. Clima, lavoro, tecnologia, energia, ricerca: temi che nessuno riesce a declinare in modo popolare, eppure la politica dovrebbe fare proprio questo, ma il problema è che i gruppi dirigenti dei partiti sono vecchi, d’età media e soprattutto di testa, e soprattutto conoscono poco o nulla delle inquietudini contemporanee, anche i più giovani sono stati allevati a far carriera dentro le categorie del secolo scorso e dunque sanno di tutto un po’ ma niente di specifico. Purtroppo, come e anche peggio, dei nostri giornalisti tv, sempre più tutti generalisti. Vengo al dunque: forse il più grande successo di queste elezioni sarrebbe una inversione di tendenza nella sempre più scarsa partecipazione al voto, ormai scesa al 60%. Al di là di chi vinca o chi perda, si va alle urne con alle spalle problemi sociali e politici enormi e in un contesto internazionale in grande movimento. Gli M5s, che avrebbero dovuto essere la risposta ai drammi del paese si esauriranno, secondo i sondaggi, in poco più che una bolla di sapone. Dal 33% ad un 10/12%, correndo da soli. Ma le questioni a cui né loro né altri hanno risposto restano, e quindi occorrerà vedere se i partiti in lizza riusciranno a ricominciare a convincere il paese di una nuova direzione di marcia. Di contro, l’economia, da molti anni è il punto più dolente della situazione italiana, ma alla fine dell’anno registrerà una crescita del 5%, per la prima volta dopo 40 anni superiore ai dati cinesi. Così, con la crescita dell’anno scorso di più del 6%, alla fine del 2022 l’Italia avrà un Pil più alto rispetto a prima della pandemia. In più l’inflazione sarebbe bassa, quasi nulla se si toglie l’effetto del caro gas per la guerra in Ucraina. I problemi politici urgenti, quindi, nascono da questi dati. Come dare continuità politica a un nuovo governo per favorire questa crescita e come raccogliere contributi dei cittadini, cioè tasse, per pagare i debiti e lo stato sociale. Molti partiti sono in stato di smarrimento. A partire dalla Lega, da un trentennio praticamente termometro della febbre nel sistema italiano. La crisi del ’94, con la polverizzazione del Pentapartito centrato sulla Dc, fu annunciata dalla nascita di una nuova formazione, la Lega Nord. Essa rifletteva la stanchezza, la riluttanza dell’Italia ricca e produttiva settentrionale a pagare, sacrificarsi ancora per gli sperperi e le inefficienze percepiti al Sud e a Roma. Era una spaccatura sociale e strutturale dell’Italia che annunciava il terremoto. Fino a poco tempo fa la Lega è sembrata in grado di restare in contatto con questo suo tessuto nativo. Ma da qualche anno le cose hanno cominciato a girare storte. A cavallo delle scorse elezioni del 2018, la Lega ha cercato di spostarsi dal nord al sud, e farsi non più voce di una parte del Paese, ma di tutto. Interpretava tale afflato gridando contro l’immigrazione, ma anche contro l’euro. La prima voce poteva avere per loro un senso, la seconda sicuramente no. Negli ultimi 20 anni il centro nord si è integrato sostanzialmente con la catena produttiva tedesca e bavarese in particolare. Migliaia di aziende italiane sono di proprietà tedesca e altrettante aziende italiane posseggono società in Germania. Un paio di nomi per tutti – Lamborghini e Ducati, acquisiti dalla Volkswagen. Questo tessuto produttivo ha bisogno dell’euro, del legame con la Germania. Farne a meno sarebbe la morte. Il tentativo di strappare sulla Unione europea e la moneta unica, cosa che poteva andare bene a certi gruppi del Centro-Sud, tagliava le radici del partito al Nord. Ciò prese forma compiutamente alla fine del governo Conte2. I centri produttivi del Nord volevano fortemente Mario Draghi, l’uomo della stabilità, di Bruxelles e della Germania, contro un governo semplicemente M5s-Pd. Nulla di ciò è cambiato da quando la Lega lo scorso luglio approfittando delle convulsioni leaderistiche di Conte e dei suoi, ha portato il governo Draghi (di cui facevano parte) alle dimissioni, trascinandosi dietro il Berlusca e i suoi sogni senili. La scollatura quindi tra bisogni eurocentrici di questo ceto settentrionale e i movimenti della Lega quanto avranno di riverbero nelle urne? Una tendenza simile si può vedere anche intorno a Forza Italia (FI). Silvio Berlusconi era l’uomo della stabilità, del “fateci lavorare”, del doppio petto esibito in tv e nel cuore. Ma poi ha scelto l’incertezza e l’instabilità del voto per motivi tutt’altro che chiari. Questo peserà nelle urne? I sondaggi danno Lega e Fi insieme intorno al 15%. Di contro Fratelli d’Italia, originariamente di estrema destra, che era all’opposizione del governo Draghi e che oggi promette di sostituirlo nella stabilità e governabilità con il prossimo governo Meloni (dai sondaggi è dato per certo, sarà il primo partito italiano con un probabile 24 e più per cento). Infine, ecco un nuovo partito di centro con Matteo Renzi e Carlo Calenda, che si ripromettono di “togliere aria” a tutti gli altri partiti nel nome del defenestrato Mario Draghi. Dice Carlo Calenda che vuole spazzare via una narrazione falsa e pericolosa, per la sua Azione, alleata con IV di Renzi E spiega, chiunque dovesse prevalere, al governo non durerebbe «più di sei mesi», viste le «enormi contraddizioni interne», mentre l’Italia ha bisogno di proseguire sulla strada interrotta «in modo incosciente» di un governo Draghi o che al metodo Draghi si ispiri, che tagli le ali estreme e metta assieme i partiti più responsabili con un grande, primo obiettivo: «avere un Paese finalmente moderno». Vedremo nelle urne il risultato. I due “gemelli diversi” si auto-attribuiscono un 10% minimo, ma sperano in un 15%. Eppure, forse la crisi più importante sta nel Pd. Partito-sistema della continuità tra Prima e Seconda repubblica. Nato dall’unione del vecchio Pci con la sinistra Dc, oggi, vive in una schizofrenia. Propone politiche che vorrebbe aiutare una classe “operaia” ma, forse è meglio parlare di una classe “lavoratrice” più in generale, che non lo vota più (disciplina fiscale, patrimoniale ecc) e che non scaldano e forse danneggiano invece i suoi restanti elettori. Una base elettorale, fatta principalmente da una classe medio-alta che abita le principali città. Molto integrata e anche cointeressata al sistema di potere attuale. Giusto o sbagliato che sia da un punto di vista generale, con oltre l’80% degli italiani proprietari di una casa, e un 30/40% sotto varie forme titolare della propria attività (dalla bottega, alla partita Iva) agitare una tassa patrimoniale seppur per alti patrimoni e la loro successione, annunciando una maggiore pressione fiscale significa alienarsi una buona parte dei propri elettori. Se bisogna aumentare le entrate fiscali, si può agire sul denominatore, la base fiscale, e non sul numeratore, ovvero la quantità di tasse richieste al singolo. Quindi forse si deve pensare a fare crescere l’economia nel suo complesso e riportare al fisco gente che paga le tasse all’estero o non le paga proprio. Ciò aumenterebbe il gettito complessivo, riducendo la pressione sui singoli. Questa riforma fiscale possiamo chiamarla come vogliamo, flat tax o non flat tax, e certo il diavolo è nei dettagli. Ma appare più praticabile da punto di vista pragmatico che promettere uno stato di polizia fiscale che non si può realizzare. Su questo si potrebbero migliorare molte cose e si getterebbero le basi per un nuovo patto sociale nella nazione. Le tasse, come il voto, sono la pietra angolare di ogni patto sociale. La base di questo patto sociale è che gli italiani che guadagnano di più smettono di scappare e tornino a contribuire alla crescita del paese. Questo patto sociale dovrebbe riguardare in primo luogo gli elettori del Pd, che in media guadagnano di più di quelli di altri partiti…La grande novità di Letta e del Pd è sui diritti civili, che la destra ignora, argomenti sempre maneggiati con cura, se non proprio evitati, nel timore di spaventare l’elettorato moderato e di allontanarsi dai temi sociali classici della sinistra, oggi sono entrati di diritto tra le priorità del Pd, spesso mettendo in secondo piano i temi legati al lavoro e accentuando la disaffezione di parte del suo elettorato. Che il Pd non si renda conto di tale suo distacco dalle esigenze concrete dei suoi elettori potrebbe essere più grave della stessa crisi della Lega. Infine, la governabilità del paese. I cambi di governo ogni 17 mesi andavano bene nella prima repubblica quando in un sistema stabile, con direzioni interna e internazionale certe, ogni tanto si ridistribuivano gli incarichi e anche una parte dei redditi. Ma con cambi di maggioranza radicali, e incertezze enormi all’interno e all’esterno le cose sono diverse. Specie se, come la Ue richiede, il paese ha bisogno di riforme profonde. Qui si pone la proposta del presidenzialismo, di fatto una scorciatoia a una più complessa e difficilmente perseguibile, riforma costituzionale, come suggerisce anche il Prof. Sabino Cassese in un articolo recente. Certo va pensata, calibrata ma dire semplicemente “no” di fatto va contro la Ue. Inoltre, mentre FdI fa proposte, giuste o sbagliate non importa, alla fine non accusa i suoi avversari di essere “comunisti”, come aveva fatto Berlusconi in passato. Il Pd invece inveisce contro un pericolo “fascista” di Fdi. Ma l’invettiva può ancora funzionare se ritrova un’invettiva uguale e contraria, “comunisti”. Ma se il FdI si limita a dire che non sono fascisti e non si mette a quel livello allora il gioco degli insulti rimbalza contro chi ha iniziato ovvero il Pd. Quindi tasse, presidenzialismo, urla al “fascista” minano le fondamenta di un partito che per 30 anni è stato di fatto al di là dei voti ricevuti il sistema e la sua continuità. I suoi voti certamente verranno da quel sistema che si difende. Ma se sarà sconfitto stavolta non sarà solo uno smacco del partito, ma la fine di un modo di governare durato 30 anni, e passato anche nel governo degli “altri”, il centrodestra di FI. È un mondo che crolla, non solo un partito. Il paradosso forse è che FdI non pare preparata a raccogliere e tenere in mano tutto questo. Il crollo e la ricostruzione di un sistema che va al di là della “destra” e dei suoi valori. È un modo di governare il paese che cambia. C’è una classe dirigente capace di vedere e magari guidare tali cambiamenti? Né si può riproporre soluzioni vecchie in una situazione nuova. Questa la sfida più grande, perché il paese, in mezzo a guerre vicine e lontane, può fare un balzo in avanti, o indietro. A questo punto il Partito democratico è alleato con un po’ di gente irrilevante e prova a mettere un po’ di pepe sui diritti civili – chiediamoci se veramente Enrico Letta crede sia la chiave giusta? – mentre sul resto dice un po’ le solite cose. Mima la Meloni, lei parla in tre lingue e lui parla in tre lingue: appunto, irrompe il Novecento di quando eravamo giovani, contro i comunisti o contro la Democrazia Cristiana, e oggi contro il Pd o contro la Meloni. Nulla di nuovo nemmeno nelle strategie di comunicazione, Letta userà il minibus elettrico laddove Romano Prodi e Walter Veltroni usarono il pullman, i programmi non li legge nessuno, la leader dell’estrema destra orgogliosa della fiamma e che annuncia il governo dei Patrioti, una dizione che fa rabbrividire, il vecchio Silvio Berlusconi dietro la scrivania di «Questo è il Paese che amo» e che si ricandida al Parlamento con il messaggio subliminale di voler ascendere al Colle come «coronamento», ma coronamento de che? Dall’altra parte si litiga tra una sinistra in versione Front Populaire (Francia 1936) e il Terzo Polo, che arriva al voto con la lingua di fuori dopo aver perso anni a polemizzare al suo interno invece di porre le basi per costruire un serio partito nuovo – ma in effetti se ci metteranno un po’ di ciccia oltre all’agenda, no, meglio parlare di metodo Draghi (con tutta probabilità senza in prospettiva l’ex Premier) potrebbe essere l’unica vera novità. E poi c’è Renato Schifani, che corre per la presidenza della Sicilia, e ci sono Susanna Camusso e Annamaria Furlan, pensionate del sindacato, a rappresentare i lavoratori. Eh già, con tutto il rispetto, le candidature non si annunciano esaltanti: 99% di ceto politico. Nessuno immaginerebbe oggi un Alberto Moravia o un Altiero Spinelli nelle liste della sinistra, ma il Pd sembra diventato un’agenzia di collocamento per dirigenti, speriamo per i dem che arrivi anche qualche intellettuale, qualche esperto, soprattutto un pochino di società civile, magari qualche operaio. Perché no?! Un po’ di Laburismo, non sarà la ricetta per risolvere tutto, ma non fa mai male a sinistra… E ovviamente si gioca a chi offre di più, sulla flat tax, sui soldi agli insegnanti, sul reddito minimo e quant’altro: ne vedremo sicuramente delle belle con Berlusconi che annuncia le sue pillole di programma. Meloni e Letta, non faranno di meno. L’impressione finale? È quella di una politica come luogo di un ‘incanto’ che chiude nei confronti della società e della modernità, con i politici che si giocano ‘la vita’ a testa o croce in un bailamme autoreferenziale in una mortale lotta di potere. Bisogna ricordarlo: nel Novecento almeno a dare senso a tutto ciò… c’era più popolo e più cuore…

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