Politica: lo stralunato dibattito sul voto online al congresso del Pd, ci dice della difficoltà di fare politica il rischio più grave che corre oggi il Pd è l’assuefazione…

I candidati alla segreteria si accapigliano sulle poco affascinanti regole del voto del 26 febbraio, mentre intanto il partito crolla nei sondaggi. Cosa resterà di questi giorni nella storia della sinistra italiana? Probabilmente niente, e sarà meglio così. Perché altrimenti si dovrà ricordare lo stralunato dibattito su sé votare solo ai gazebo o anche online, una discussione sin troppo rovente che ha portato sull’orlo di una spaccatura verticale, il contrario di ciò che serve a qualsiasi partito che va a congresso tra poco più di un mese (il 26 febbraio e non più il 16). Alla fine, persino la Direzione del Partito democratico, storico teatro di disfide, si è resa conto che fosse meglio evitare di finire nel burrone trovando un accordo in extremis dopo giorni di un conflitto animato soprattutto da Elly Schlein, favorevole al voto online, e Stefano Bonaccini, fautore di un «partito in carne e ossa – spiega il suo luogotenente Alessandro Alfieri – nel quale la gente esce di casa, si reca ai gazebo, discute, ci mette la faccia». Guardando l’accordo-compromesso che si è raggiunto dopo ore di trattative, con un Enrico Letta abbastanza stufo di questo andazzo autoreferenziale, diciamo che “ha vinto” il governatore dell’Emilia-Romagna, poiché la regola resta quella in vigore dalla nascita del Pd: primarie aperte a tutti i cittadini che voteranno fisicamente recandosi ai gazebo. Ma con tre deroghe: potranno votare online i disabili gravi; i residenti in zone particolarmente disagiate e lontane dai gazebo; i residenti all’estero che disporranno di uno Spid compatibile con quello italiano. Cambia il regolamento, dunque, con un solo voto contrario. Il principio del voto “fisico” ha retto l’assalto di Schlein, che ne ha fatto una questione di principio ma anche evidentemente tenendo conto del proprio interesse a portare al voto quanta più gente possibile, soprattutto i giovani e i più lontani dal Pd. E tuttavia non ha voluto rompere, la giovane candidata, non era il caso, lei vuole essere il volto del nuovo, non una Gianburrasca: e comunque può dire che il tema del voto da remoto da adesso ha piena legittimità nel dibattito dem, e probabilmente sempre più ne avrà. Invece Paola De Micheli aveva già chiuso a Elly («Solo deroghe o voto contro») mentre Gianni Cuperlo ha cercato di trovare una soluzione che andasse bene a tutti. Ma è chiaro che dietro l’accordo unitario la realtà è che i dirigenti non si amano affatto. Che tanti rapporti sono incrinati. In sostanza, nessuno si fida dell’altro. Si sgomita a tutti i livelli per conquistare un posto al sole, cioè negli organismi che usciranno dal congresso del 26 febbraio, mentre le correnti si sono in parte sfarinate: ha del clamoroso la rottura tra due cavalli di razza come Piero Fassino e Dario Franceschini, il primo con Bonaccini e il secondo con Elly ma le sfrangiature sono anche nella sinistra, divisa tra Schlein e Cuperlo, e qualcuno si sta seccando di tutto e pensa a di andarsene. Bonaccini certo resta il favorito nei circoli. Mai in quindici anni di storia si era visto un Partito democratico messo così male nei sondaggi, in parlamento e nel paese. Ma la cosa più sorprendente è che nessuno nel Partito sembra nemmeno rendersene conto. Come anche qui nel Blog, avevamo già avuto modo di notare nelle scorse settimane: tre settimane fa, sei settimane fa e pure nove settimane fa, il Partito democratico continua a precipitare nei sondaggi al ritmo di un punto ogni tre settimane. Il motivo dovrebbe essere ovvio a tutti. Mai si erano visti prima d’ora un leader e un intero gruppo dirigente che all’indomani di una sconfitta così pesante, anziché dimettersi e convocare immediatamente il congresso del partito, cominciano a discettare di come intendono rifondarlo, riscriverne il manifesto e lo statuto, fonderlo con altre formazioni (peraltro già presenti nella lista così poco apprezzata dagli elettori), annunciando che il congresso vero e proprio si terrà solo al termine di questo lungo e macchinoso processo. Durante il quale, va da sé, ognuno rimane al suo posto. L’aspetto più singolare e forse più preoccupante di tutta la vicenda è però un altro, e non riguarda solo il gruppo dirigente (prima o poi) uscente, ma anche quello che (si spera) dovrebbe subentrare. Il rischio più grave è l’assuefazione alla situazione. Dopo avere portato il Pd al minimo storico (sia pure camuffato dalla scelta di aprire la lista anche ad Articolo 1 e ad altri soggetti minori, con i quali ha raggiunto comunque un non ragguardevole 19,1 per cento, cioè 0,4 punti in più del 2018), Enrico Letta ha potuto annunciare l’intenzione di restare al suo posto altri cinque o sei mesi per organizzare niente di meno che la rifondazione del partito, senza che praticamente nessuno ci trovasse niente da ridire (salvo alla fine accorciare di qualche settimana l’ammuina, più per sfinimento che per convinzione). Quello che più dovrebbe preoccupare, dopo una sfilza di surreali direzioni in cui il segretario e il suo gruppo dirigente si sono ripetuti l’un l’altro che il risultato del voto non era poi così male (persi a questa tornata elettorale 800.000 voti, ma dalla sua fondazione nel 2007, il Pd ha perso ben 7 milioni e più di voti), e ci mancava che si facessero pure i complimenti, non sono tanto le parole di Letta o dei numerosi ex ministri, ex viceministri ed ex sottosegretari presenti, quanto il silenzio di tutti gli altri. Una chiusura autoreferenziale che è la conseguenza del modo in cui Letta è stato nominato segretario dall’assemblea del Pd, quella eletta nel 2019 con Nicola Zingaretti, e soprattutto di come Letta, dopo avere illuso per un attimo tutti quanti e anche noi con un discorso serio e razionale, ha interpretato il ruolo. Invece di pilotare il Pd fuori dal vicolo cieco in cui l’aveva cacciato la “vergogna” di Zingaretti. Letta non ha fatto altro che confermarne tutte le scelte di fondo. Ragion per cui, peraltro, nessuno ha più capito per quale ragione il Pd non potesse tenersi Zingaretti (l’obiezione che non potevano tenere un Segretario che si era appena schierato contro la nascita di un governo appoggiato un minuto dopo dal suo stesso partito non rileva, giacché è esattamente quello che era successo anche con il governo precedente). In poche parole, all’indomani della caduta del governo Conte e della nascita del governo Draghi, invece di avviare una riflessione autocritica sul pasticcio in cui si erano infilati (e scioglierne le contraddizioni, in un senso o nell’altro), Letta e l’intero gruppo dirigente zingarettiano hanno preferito fare blocco, coprirsi a vicenda, perpetuando tutte le ambiguità della linea seguita fino a quel momento, che si sono riflesse inevitabilmente nella telenovela dei rapporti con l’esecutivo da un lato e con il Movimento 5 stelle dall’altro. E lo stesso hanno fatto dopo la sconfitta elettorale. Il vantaggio di questa strategia, almeno nel breve termine, sta nel non avere lasciato praticamente nessuno spiraglio alla possibilità di una vera discussione autocritica e di un confronto reale, a dispetto di tanta sciocca retorica sul partito crudele che divora un segretario all’anno. Qui, semmai, è il Segretario che ha divorato il partito, sebbene di certo non da solo. Prima di lui altri avevano apparecchiato, cucinato e divorato gran parte del Pd. Ma proprio questa rinnovata pseudo-unità, spesso vantata da Letta come il miglior risultato della sua gestione, ha avuto un altro vantaggio (sempre nel breve termine, s’intende): che la rete di solidarietà è andata ben al di là dei gruppi dirigenti, come dimostra l’incredibile benevolenza con cui ancora oggi la segreteria Letta è giudicata da gran parte dei commentatori. Qualunque confronto con il recente passato è in tal senso illuminante. Dal giorno della sua elezione a segretario del Pd nel 2009 fino alle dimissioni nel 2013, Pier Luigi Bersani ha goduto di pessima stampa. La caricatura del burocrate di partito, grigio, noioso e incapace di comunicare lo ha perseguitato sin dal primo giorno e ha contribuito non poco a facilitare l’ascesa di Matteo Renzi, che in quello stesso periodo raccoglieva un successo di critica incontenibile (meno di pubblico, tanto è vero che le primarie contro il grigio Bersani, nel 2012, le perse 60 a 40). In compenso, da quando la sua stella ha cominciato a declinare, nessuno ha goduto di un trattamento peggiore del leader di Italia Viva sui mezzi di comunicazione (almeno dai tempi di Tangentopoli in poi); mentre, per una strana simmetria dei loro destini, proprio il grigio Bersani diventava il cocco di giornali e talk show. Da segretario del Pd, Bersani è stato impiccato a qualunque fesseria, a cominciare dal celeberrimo video del giaguaro, una scemenza cui gli avversari interni e gli editorialisti antipatizzanti hanno dedicato analisi minuziose, specialmente dopo la non-vittoria elettorale del 2013, neanche fosse stato il Watergate. Se poi dovessimo fare l’elenco delle cose cui hanno impiccato Renzi, una volta che la fortuna ha girato, non basterebbe un libro: dall’aumento dei sacchetti di plastica nei supermercati al complotto della Jp Morgan (se non vi ricordate nemmeno di che si tratti, l’unica cosa che posso dirvi è: appunto). Entrambi i leader sono usciti di scena, perlomeno come Segretari del Pd, tra salve di fischi e critiche feroci. Eppure, nessuno allora, almeno tra gli osservatori in buona fede, poteva avere il minimo dubbio sul fatto che il Partito democratico sarebbe sopravvissuto, e infatti in entrambi i casi non solo è sopravvissuto, ma se l’è passata anche piuttosto bene, governando per la quasi totalità del tempo, circa nove anni su dieci dal 2013 a oggi. Si potrebbe sfidare chiunque a dire lo stesso nella condizione in cui Letta oggi, – anche se di fatto sta facendo da ‘capro espiatorio’ di tutti i guai in cui il Partito anche in precedenza sé trovato – lascia il Pd (quando alla fine lo lascerà). Eppure, nessuno, né tra i commentatori né tra i dirigenti, e nemmeno tra coloro che aspirano a prenderne il posto, ha avuto finora il coraggio di dire che il re è nudo, far scoppiare la bolla, discutere seriamente di quel che è accaduto con un grado di sincerità e anche di brutalità minimamente proporzionato alla gravità della situazione. Qualcuno invita a discutere delle responsabilità di Renzi (che se ne è andato nel 2019 dopo aver zavorrato i gruppi parlamentari con molti amici), qualcuno della crisi del capitalismo neoliberista (neanche questa, obiettivamente, una novità dell’ultimo minuto), qualcuno del ruolo dei sindaci… e qualcun altro del voto online, cioè di come mascherare sin d’ora anche l’ennesimo, prevedibile fiasco: quello dell’affluenza ai gazebo. Altri due mesi così, e viene da pensare che i sondaggi di oggi sembreranno persino ottimisti… L’affluenza ai gazebo è un’incognita ma sono pochi a credere a un improvviso scatto d’orgoglio di una base frastornata non tanto dal rovesci elettorale del 25 settembre e dall’avvento al governo di Giorgia Meloni quanto dalla totale conclamata incapacità dei dirigenti del Pd di reagire con dignità e con intelligenza alla sconfitta, una incapacità segnalata dall’inclemente inabissamento dei sondaggi e dallo speculare incattivimento della lotta politica interna. Qualcuno tenta di rimettere in piedi il Partito con iniziative che ne evidenzino l’anima laburista. Si chiude dunque senza sangue la pagina poco affascinante delle regole congressuali e si va verso il chiarimento delle linee politiche dei candidati. Almeno si spera. Perché a poco più di un mese dalle primarie si alzi in piedi chi possa spiegare con esattezza la reale differenza tra i quattro competitor, a parte le loro legittime aspirazioni a conquistare una poltrona, peraltro, non molto comoda come quella del leader di un Partito democratico ridotto com’è ridotto. Tutti, a partire dai militanti, non vedono l’ora di arrivare al 27 febbraio, al day after, hai visto mai che dalle parti del Nazareno torni la politica…

E’ sempre tempo di Coaching! 

Se hai domande o riflessioni da fare ti invito a lasciare un commento a questo post: sarò felice di risponderti oppure prendi appuntamento per una  sessione di coaching gratuita

 

0

Aggiungi un commento