Politica: ma cosa accade veramente nel Pd? Un Congresso «costituente» per una rinascita o siamo ormai allo sciogliete le righe…

Nel Pd tornano a soffiare forte i venti di scissione: era da anni che non accadeva con questa intensità. In privato è tutto un «se vince Tizio, se ne va Caio». Ad esempio: «Se vince Stefano Bonaccini se ne va la sinistra», «se vince Elly Schlein se ne va Base Riformista», se vince Dario Nardella se ne vanno i “violinisti” ecc. ecc.. E pensare che la partita non è nemmeno cominciata. Annoiato per non dire ‘indifferente’ nei confronti di Stefano Bonaccini, diffidente verso Elly Schlein il partito di Enrico Letta si annoda in sé stesso. Tra regole, alleanze per le regionali, e congresso. È un vero e proprio “garbuglio”. Ma c’è anche qualcosa di più, una tentazione fino ad oggi mai vista: la dissoluzione… Ma nelle conversazioni a latere della tumultuosa palude in cui è immersa la costruzione del percorso verso il congresso, tra l’assemblea di ieri sabato 19, la babele notarile delle regole e il bilancino farmaceutico delle date, da intrecciare con le elezioni regionali in Lombardia e Lazio che si annunciano un nuovo simpatico bagno di sangue, pare al momento non ci sia nessuno disponibile a credere nella possibilità di rimescolare ancora una volta quello che Massimo D’Alema, già dopo un solo anno dal battesimo, definì «un amalgama mal riuscito», cioè il Pd. Appena un gradino sotto il livello del mare guizzano tentativi di costruire percorsi credibili, oltre un partito invecchiato dentro al suo gruppo dirigente e congelato dalle correnti, ma è ancora tutto troppo sottotraccia e acerbo per venire a galla, sempre che ci arrivi in tempo. Perché, in effetti, se si guarda ancora meglio dentro il pozzo del Nazareno, più che la parola scissione, alla fine, brilla nel fondo un’altra spaventosa eventualità: lo scioglimento. Su un Pd che così, tra svogliatezza e paura, si applica ai blocchi di partenza per scegliersi un nuovo capo e una ulteriore identità si è abbattuta come una saetta – anche se tutt’altro che imprevista – la discesa in campo di Elly Schlein. Che ha terremotato il quadro sin lì composto dai probabili candidati alle primarie, quelli annunciati: il solito Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna pronto a candidarsi sin da quando vinse in Regione nel gennaio 2020; Paola De Micheli, ex ministra dei Trasporti, sempre lesta a trarre da una situazione data il massimo del vantaggio possibile; il sindaco di Firenze, il sempre ammodo Dario Nardella, pronto a scendere in campo il 26 novembre, data in cui ha convocato «un’assemblea nazionale con tutte le forze culturali sociali e politiche che credono in un nuovo progetto per il centrosinistra italiano»; e il sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, considerato da tempo una promessa democratica (chissà da chi?) di un partito che non è mai sbocciato. Quanto a Schlein, sempre tra il dico-non dico nel suo stile di smodata prudenza, la neodeputata, che conquistò la vicepresidenza dell’Emilia-Romagna dopo essere risultata da leader di Coraggiosa la più votata nelle Regionali 2020 (23 mila preferenze, solo a Bologna 15 mila, più dei big dem), giorni fa, con una diretta Instagram, ha annunciato che farà parte anche lei del processo costituente del Pd, partito al quale non è sin qui iscritta. Antipasto di una corsa alle primarie che, già di per sé ha fatto drizzare le antenne a un bel pezzo di dirigenza democratica, che la percepisce come un corpo estraneo e quindi nello stesso tempo la sminuisce e la teme. «Imprevedibile», «eccentrica», «pericolosa», sono infatti alcuni aggettivi che le si affibbiano nelle conversazioni private, come se si trattasse di un’attivista stile «Just Stop Oil» (gli ambientalisti che lanciano le zuppe contro le opere d’arte) e non di un’amministratrice di quella che fu la regione più rossa d’Italia. Di fatto la sua discesa in campo ha infastidito, nello stesso tempo, la sinistra e i moderati, a tenaglia. Emblematico, mercoledì scorso, che il suo nome comparisse sia in una intervista al coordinatore di Articolo 1 Arturo Scotto al Manifesto, sia in una intervista al capolista della civica per Gualtieri, Alessandro Onorato. In entrambi i casi, non propriamente per sperticati complimenti. «Non ho capito se è davvero libera o se è l’ultima trovata delle correnti per tenere il potere a sua insaputa», diceva l’assessore al Turismo di Roma. «Anche lei è consapevole che senza ridefinire identità e missione, le primarie non risolveranno nessun problema. Sa bene che la sfida non è una nuova leadership individuale», diceva invece Scotto. È tutto un ridefinire, un precisare, un contenere, un annodare. Di certo lo è da sinistra, dove il mancato trionfo all’Auditorium durante la presentazione dell’ultimo libro di Goffredo Bettini (“A sinistra. Da capo”: praticamente una minaccia) dell’ex premier Giuseppe Conte, una volta adorato come futuro luminoso del progressismo mondiale e adesso maldigerito replicante in dolcevita esistenzialista da pseudo-sinistra, fa da pendant a un grande attivismo finalizzato al congresso dem – si muove soprattutto l’ex ministro Andrea Orlando. Un attivismo che però non riesce a farsi proposta, candidatura, spinta in avanti. Mancata la sintonia con Schlein, al massimo si fa corda, laccio, inciampo. L’elezione all’unanimità, il 15 novembre, di Dario Franceschini a presidente della Giunta delle elezioni e delle immunità di Palazzo Madama è piombata su tutto questo come un ulteriore avvertimento sul futuro in agguato: non bastava la grande chiesa franceschiniana che passa da Che Guevara e arriva a Madre Teresa, è adesso abbastanza chiaro che l’arco di consenso a cui punta l’ex ministro è ulteriormente ampliato. Da Elly Schlein a Ignazio La Russa. Su di lei l’ex ministro della Cultura sta valutando di lanciare un’opa – un interesse puntualmente resocontato dalle veline. E lo sta valutando anche a rischio di spaccare la sua Areadem: un assaggio del disagio si è visto martedì sera, all’assemblea regionale del Pd del Lazio. Quando a Bruno Astorre, pilastro del Pd romano che certo non ha un’idea iperurania della politica («è di quelli che magari non riescono ad allacciarsi le scarpe, ma non vorrei averlo contro al congresso», ebbe a dire di lui Luca Lotti) veniva chiesto se si vedeva a sostenere la mozione Schlein, egli rispondeva tra il laconico e lo sbruffone: «Ma se non so manco come si scrive!». Quanto a Ignazio La Russa, come era stato ricostruito a suo tempo, ormai è un pochino più chiaro – lo svelano per l’appunto gli assetti successivi – grazie a quali voti, all’interno dell’opposizione, sia riuscito a diventare presidente del Senato nonostante la defezione in massa di Forza Italia nel momento dell’elezione. Matteo Renzi, all’epoca primo sospettato dell’inghippo, dichiarò che «non lo sapremo mai» ma precisò che comunque i suoi voti da soli non sarebbero bastati. «Poi io non sono uno bravo a fare questo tipo di calcoli. Non sono, per dire, un Franceschini», precisò in Transatlantico felicemente assediato dai giornalisti. Per poi passare la giornata, modello assassinio sull’Orient Express, a scherzare con quello che una volta chiamava «il vicedisastro» (appunto Franceschini) e con un altro personaggio che non si può definire estraneo a questa partita: il cinquestelle Stefano Patuanelli. Con questa magnifica opposizione-non-opposizione in Parlamento, il Pd si avvia così a fronteggiare l’unica tra le sue battaglie che ha una data (quasi certa), e un esito pressoché scontato: le regionali di Lazio e Lombardia. Una doppia partita nella quale sin qui il partito guidato da Enrico Letta si è comportato in modo schizofrenico. La decisione finale non è stata ancora presa, comunque in sintesi l’unico filo rosso finora visibile è quello di scansare il più possibile un assetto competitivo. Non sia mai. Nel Lazio, infatti, i dem si sono buttati su Alessio D’Amato, assessore alla Sanità della giunta Zingaretti, messo sul piatto però dal terzo polo di Calenda e Renzi, col risultato di spaccare, rendendola di fatto impossibile, quella che era stata l’alleanza pilota dei giallo-rosa, l’accordo locale per il governo tra dem e grillini, il campo largo che l’ex governatore e segretario dem era riuscito a mettere in piedi in una delle regioni dove i Cinque Stelle sono tradizionalmente più forti. Al contrario in Lombardia, dove il partito di Conte è da sempre debole, il Pd ha scelto (senza primarie) Pierfrancesco Majorino a scapito di un eventuale abbraccio al terzo polo che colà appoggia la corsa di Letizia Moratti, nome simbolo del centrodestra (già sindaca di Milano, candidata da Salvini e Meloni al Quirinale) e oggi in transito verso altrove dopo aver lasciato il posto di vice di Fontana. È proprio il prevedibile, pessimo, risultato elettorale a rendere ancora più opaca la sciarada del congresso dem, che può essere anticipato a patto però di non coincidere con la batosta alle porte. Anche questo busillis dovrà essere sciolto, nel “garbuglio” in cui il Pd si annoda ogni giorno sempre peggio, nel tentativo di riprendere il filo nel congresso…

E’ sempre tempo di Coaching! 

Se hai domande o riflessioni da fare ti invito a lasciare un commento a questo post: sarò felice di risponderti oppure prendi appuntamento per una  sessione di coaching gratuito
0

Aggiungi un commento