Politica: nessun dubbio che la democrazia sia più debole se l’opposizione non può vincere…

L’ha scritto Antonio Floridia sul Manifesto lo scorso 3 aprile: “Pd, un partito irrisolto…”, proprio riferendosi allo scontro interno sulle candidature per le europee e all’ennesima frattura che Conte e i cinque stelle, hanno portato al “campo largo, per le vicende Pd pugliesi e Torinesi. Si,  Torino, Bari, il Pd e lo scandalo del voto di scambio che esplode a due mesi dalle elezioni europee più importanti delle nostre vite. Il moribondo pianeta della politica nostrana è largamente fuori dall’orbita del buonsenso, piegato su piccoli dispetti sempre uguali e senza uno straccio di visione. Con la destra pronta a parlare di pericolo immigrati, di benefici del trumpismo-di-ritorno, di tasse sconvolgenti inflitte dalla perfida Bruxelles. E la sinistra a fare il controcanto sterile sui pericoli incombenti di sovranismo, populismo, fascismo e orbanismo dilagante. Una sorta di fight-club di serie B, messo in scena da mestieranti di piccolo cabotaggio con poche promesse da vendere e neanche un euro da spendere. Idee per i prossimi dieci anni? Zero. Ipotesi sul ruolo congiunto dell’Europa schiacciata dalla violenza russa e dal prepotente gigantismo sino-americano? Sottozero. Progetti per un esercito comune, per il diritto di veto condiviso alle Nazioni Unite e annessa gestione multilaterale del potenziale nucleare francese? Non pervenuti. Elettroencefalogramma piatto e prospettive micragnose. E’ paradossale: I dittatori trascinano folle alle urne, i paesi democratici le lasciano idiotamente deserte. Come se la libertà ci avesse stancato. Invece il mondo volente o nolente cammina sulle gambe delle nuove generazioni, che però hanno una sola possibilità per diventare quello che vogliono: togliere lo specchietto retrovisore dalle spalle dei loro padri e conquistarsi i propri spazi allargando la propria conoscenza ed esercitando i propri diritti. Tornando alle piccoleze delle nostre questioni: bisognerebbe prender atto definitivamente che il “Campo largo” alla fine, è la negazione stessa del centrosinistra. Ragionandoci su, fin dal nome: era ed è un modo di dire centrosinistra, vergognandosi perfino di dirlo. Infatti, ne hanno fatto parte, di volta in volta, leader che rifiutano questa definizione. La rifiutano Matteo Renzi e Carlo Calenda, che pure sono stati ex protagonisti del centrosinistra. La rifiuta soprattutto Giuseppe Conte, che così giustifica la sua disinvoltura nel saltar dentro e fuori. Più che largo, è un campo santo che viene affittato a ore. L’elettore di centrosinistra anonimo, senza etichette, segue con disgusto la vicenda di Bari: l’inchiesta sui voti comprati, la vanità dei capibastone, i giovani leoni come Antonio Decaro che dovevano conquistare il partito e l’Europa e si ritrovano spaventati davanti al cerchio di fuoco, le primarie convocate e sconvocate. Non è vero che il Campo largo è morto a Bari e Torino. Il Campo largo di fatto non è mai esistito. È sempre stato una semplice espressione geografica, utilizzata per definire quel pezzo di Italia che espressione geografica non è, perché esiste e in queste ore guarda ancora una volta attonito a questo ennesimo tentativo di omicidio politico, a due mesi dal voto europeo. Sì, non è un suicidio, come c’è chi scrive intenzionalmente, ma è un tentato omicidio contro la speranza di un’alternativa al governo delle destre… Se così si può denominarlo il Campo largo è quel pezzo di Italia niente affatto di minoranza e neppure minoritario, come raccontano i commentatori dei giornali, anzi, è con tutta probabilità maggioritario. È quel pezzo di Italia che si riconosce nei valori della Costituzione, nell’uguaglianza e nella giustizia sociale, nel lavoro, nella sanità e nell’istruzione pubblica, nella democrazia che significa rimuovere gli ostacoli, ogni generazione ha i suoi. Un pezzo di Italia che non discrimina per genere, per colore della pelle, per condizione economica e sociale, per orientamento sessuale e per questo è istintivamente antifascista. Sul piano elettorale non si riconosce più chiaramente in un partito, e non va più a votare, ma per una buona parte continua a definirsi democratica e a guardare al centrosinistra o alla sinistra. Ad accusare di trasformismo il sistema-Puglia di Michele Emiliano, anche creando discapito ad Antonio De Caro, è il “Campo Laqualunque”, è quel tipo di politica che poi, a livello nazionale, impazza per le larghe intese, le grandi coalizioni, l’appoggio al governo di qualsiasi colore e ancor meglio a quelli tecnici, pur di non contarsi nelle urne, con l’idea che non ci sia differenza tra destra e sinistra, che l’unica misura sia il consenso raggiunto, il successo che attrae le varie Maurodinoia & C. d’Italia. Coloro che si definiscono “riformisti”, sia fuori che dentro il Pd, ma che per anni ha significato trafficare con chiunque, potesse spostare il proprio consenso e quello di un manipolo di amici, da una parte all’altra degli schieramenti elettorali, ovvero il trasformismo su larghissima scala. In nome del pragmatismo che si pone sfacciatamente come giustificazione di sé stessi, per giustificare la distanza tra i propositi dichiarati e i comportamenti effettivi. L’abilità nel far propri i temi dell’avversario per svuotarli di contenuto, con contrasti in pubblico e cercando accordi in corridoio. Il trasformismo cos’è se non apparenza, spettacolo, indifferenza al merito delle questioni. Il suo scopo è una quota di potere in quanto tale. Il trasformismo è l’altra faccia del populismo. Così, a Conte non interessa affatto della effettiva costruzione di un’alternativa a Giorgia Meloni: non lancia nemmeno una sfida aperta a Elly Schlein per guidarla l’alternativa, ma tenta di distruggerla proprio come prospettiva, con il disegno di restare l’unico punto di riferimento dei progressisti, perché gli altri sono stati eliminati. È l’unico punto che lo accomuna, ma non è poca cosa, a chi l’avversa strenuamente come fanno Renzi e Calenda, due che sono arrivati al vertice della politica nazionale prendendo l’autobus targato Pd, ma ne sono scesi di corsa dopo aver tentato di mutarne l’anima… in nome di loro stessi, visto che un’idea futura e originale del Paese loro non c’è l’hanno se non molto somigliante a quella della destra alla quale continuano a strizzare l’occhio. Tutti pensano che a scegliere ci sia solo da rimetterci, a restare mobili di qua e di là, sopra o sotto il banco, c’è molto da guadagnare. E a meno che non cambino i rapporti di forza. L’elettore di centrosinistra si ritrova così, di nuovo, senza possibilità di vittoria. Un problema che riguarda l’intera democrazia italiana. Non esiste democrazia compiuta senza una opposizione che ha speranza di diventare prima o poi governo, soprattutto se dovesse passare il Premierato voluto dalla Meloni. Ma se il Campo largo non esiste, per la segretaria Elly Schlein e il suo Pd non ci sono alternative… Credo che la fatica di tenere insieme una coalizione che per ora non c’è, vada impiegata interamente per cambiare il partito democratica, soprattutto dopo le elezioni europee in cui si vota con il sistema proporzionale e di fatto senza alleanze. Il contributo che si può dare all’alternativa, in questo momento, è la costruzione di un partito democratico che l’elettore anonimo possa tornare a votare, o votare per la prima volta, senza turarsi il naso, non perché è un voto utile, come è stato detto negli ultimi anni, ma perché dà un’effettiva voce a quel pezzo di Italia di sinistra e di centrosinistra che è quel pezzo di Paese che c’è nella società, ma che non c’è più nella politica italiana. Il vero antidoto ai trasformismi è una identità che non si nasconde, non si vergogna, non si confonde nell’indistinto della politica attuale, in cui si annidano anche gli stregoni del voto sporco, che torna invece a mescolarsi con un popolo senza rappresentanza. È l’ira dei miti, qualcosa che l’elettore di centrosinistra oggi senza una casa politica capisce e condivide perfettamente. Incazzato ma non disperato… ma chiaramente questo non per sempre, però. Le primarie dello scorso anno si sono svolte all’insegna della «costituente del nuovo Pd». Tuttavia, fino ad oggi, questo nuovo Pd sembra vivere solo, e forse non poteva essere altrimenti, grazie ad alcune scelte politiche e prospettiche della Segretaria Elly Schlein. Tuttavia, le poche certezze anche sulla candidatura di Schlein alle europee hanno prodotto il risultato di aumentare: polemiche, incertezze, entropia alla massima potenza. Gli iscritti erano un anno fa quasi completamente schierati con Stefano Bonaccini, dato per sicuro vincente. Sono trascorsi 13 mesi dall’elezione della prima segretaria donna… grande novità, ma oggi ancora si fatica ad accettare le sue decisioni ed è messa sotto tiro, anche da esponenti che poco più di un anno fa, l’hanno sostenuta, magari con l’obiettivo di ritagliarsi un posto al sole dopo la sconfitta. C’è un’altra cosa inspiegabile nel Pd, che il neo-correntone delle donne, è quello che più urla, per mantenere incarichi e posizioni di rilievo dentro il partito e nelle istituzioni, ben oltre, qualsiasi giusta dimensione paritaria… già perche per gli incarichi che abbiano a che fare con le questioni di genere, nel Pd, le donne votano da sole per loro stesse…   Comunque ciò, è la dimostrazione che la partita candidature va oltre i vecchi schieramenti congressuali e supera anche le elezioni europee. Iscritti e dirigenza nel loro insieme, rappresentano nel bene e nel male l’ossatura del Pd, nei territori, raggruppando un pezzo importante di elettorato, quello che è rimasto fedele nonostante tutto, ma da soli è chiarissimo che non bastano più e che purtroppo sono una parte del problema: del crollo di consensi e di ruolo politico subiti dal Pd negli ultimi dieci anni. Anzi, più di qualcuno sostiene, più radicalmente, che sono proprio loro il problema. D’altronde il partito, nella sua struttura e nel ceto politico che esprime (pur con alcune importanti eccezioni, che cominciano ad emergere) rimane ancora quello di prima. Ed è sconfortante vedere come, di fronte al rischio di una coperta troppo corta per i seggi di Strasburgo, sia scattata una logica di mera autodifesa: il sintomo evidente di un ceto politico che non ha alcuna ambizione espansiva, e che pensa, innanzi tutto, a gestire l’esistente. Non vi appai un giudizio duro e ingeneroso, ma come altrimenti leggere quello che sta accadendo con le liste? Siamo al secondo tempo dl un congresso che non si è mai di fatto concluso… Fa specie poi la massima noncuranza, di coloro che continuano ad arrogarsi il diritto di affermare l’intangibilità del Dna del partito: ma, poi, di quale impianto genetico stiamo mai parlando? Quello che, in dieci anni, ha fatto perdere 6 milioni e 700 mila voti? Ho qualcuno pensa che questi siano imputabili alla Segretaria in carica… Insomma, dopo le Europee, ci dovrà essere una stretta: o il Pd cambia il proprio modello di partito, o le fibrillazioni di questo periodo si riprodurranno sempre più largamente, rendendo il partito del tutto ingovernabile. Sempre parafrasando A. Floridia: “il Pd non può a lungo continuare a cantare i versi di un’immortale aria mozartiana: «Non so più cosa son, cosa faccio» .

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