Sono passati due mesi e mezzo, ma la presidente del Consiglio non ha ancora mostrato quale direzione dare al Paese. Ed è un problema. Certo, l’inneggiare al Movimento sociale italiano da parte della sottosegretaria Isabella Rauti e ancor di più dal presidente del Senato Ignazio La Russa è un problema anche per lei, Giorgia Meloni. Dovrà dire come la pensa. La cosa migliore sarebbe una ripulsa della vicenda di quel partito: ma la farà? Non è una questione di poco conto, pare che si sia arrabbiata con “Ignazio”. Ma la domanda vera che va fatta alla presidente del Consiglio è un’altra, e cioè: quand’è che comincia a fare politica? Cioè a fare le cose, che poi in definitiva questa è la politica? L’anno va chiudendosi con un governo in carica da nove settimane che non ha avuto il tempo di mettere mani chissà a quali riforme e però non ha neppure iniziato a delinearne i contorni. Il Parlamento approva una legge di Bilancio con poche idee ma confuse – per carità di patria evitiamo qui di tornare sulla farsa del tetto al Pos e sul limite del contante – senza investimenti particolari, semmai tagli alla sanità, con una gran confusione sul reddito di cittadinanza ormai moribondo senza sapere cosa verrà dopo, con aiutini vari a chi ha evaso il fisco. L’unica cosa seria l’aveva già impostata Mario Draghi, i soldi per far fronte al caro-bollette. Alla fine insomma l’Italia sta un po’ peggio di prima. Dopodiché, e questo è peggio ancora, all’orizzonte non si vede nulla. Da un surreale comunicato di Palazzo Chigi che sembrava un volantino di propaganda abbiamo appreso che «è stata completata la riforma della scuola»: aspettiamoci cortei festosi di migliaia di studenti e insegnanti. Ma a parte le battute come si pensa di ottenere le prossime rate del Pnrr senza attuare quelle riforme strutturali che l’Europa pone come condizione per ottenere i finanziamenti? Con i frizzi e lazzi dei ministriGennaro Sangiuliano e Giuseppe Valditara? O col ponte di Messina di cui si è invaghito Matteo Salvini? Perché la realtà di questi due mesi e passa di governo Meloni (al netto, va dato atto, della ribadita fermezza a fianco della resistenza ucraina) racconta di una serie di capriole per far vedere che si esiste e si lotta: più precisamente, per occupare posti e posticini (dal museo Maxxi di Roma al Tg2, mentre in vista si profila la grande abbuffata delle nomine delle partecipate e dei grandi enti) e per evidenziare una grottesca ansia egemonica sul terreno delle parole (“Dio”, “Patria”, “Famiglia”) più qualche spunto nazionalistico da Italietta della prima parte del secolo scorso, tipo il primato dei cibi italiani. Più grave e forse foriero di conseguenze è, ne parlavamo all’inizio, la torsione istituzionale impressa da La Russa al suo ruolo di presidente del Senato, figura terza e imparziale che però sotto il suo ghigno sta diventando una postazione di lotta politica (con quale irritazione del Quirinale è facile immaginare). Insomma, diversivi e ancora diversivi. Favori piccoli e meno piccoli, mancette, rinvii alle calende greche (come si profila per le concessioni balneari), la faccia burocratica-cattiva del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che dopo la buffonata del decreto contro i rave e il dramma dei profughi ora propina al Paese un altro brutto decreto sicurezza. Manca una politica economica degna di questo nome, cioè una prospettiva per fronteggiare l’inflazione e far crescere le occasioni di lavoro e d’altronde non può essere Giancarlo Giorgetti l’uomo in grado di fare la parte di Mario Draghi (e nemmeno quella di Daniele Franco). Non si è capito quale sia la politica industriale di questo governo, a partire dall’eterno problema dell’Ilva, per non parlare del silenzio totale sull’università e soprattutto la ricerca (Bernini chi l’ha vista?). A Guido Crosetto, molto calato nella parte di titolare della Difesa, ogni tanto scappa un pochino la frizione: che bisogno c’era di usare la parola «machete» a proposito della fedeltà dei burocrati? Si va prospettando una nuova emergenza-Covid e solo adesso il ministro della Sanità Orazio Schillaci sta prendendo provvedimenti con i tamponi obbligatori per chi arriva dalla Cina: ed è lo stesso governo che aveva richiamato in servizio i medici no vax! Pirandello al confronto era più lineare. Insomma se fosse un cocktail diremmo che il “Meloni” è un quarto di berlusconismo (i favori, l’occupazione dei posti), un altro quarto di leghismo (immigrati), metà di Fratelli d’Italietta (identità, nazionalismo). Una bevanda a bassa gradazione alcolica e piuttosto insipida, mancandole evidentemente quel gusto di progettare il futuro del Paese che dà sapore alla politica, alla grande politica di governo; e riandando con la memoria ai primi anni Ottanta diremmo che questo esecutivo ricorda il governo Forlani o il governo Cossiga anche se con molta più baldanza e retorica: i democristiani erano per loro natura più dimessi, più sobri, come se un residuo di timor di Dio avesse circolato nella loro attività di governo. Questi invece no, sono sfrontati come se avessero il mondo in mano e il sole in tasca, ora che sono giunti nella stanza dei bottoni dopo anni di sottoscala della politica finalmente sdoganati dal popolo che gli ha assegnato un bel 26 per cento dei voti, quanto basta per prendere tutto, e sicuri di poter andare avanti così, promesse superficiali e zero riforme, tanto dall’altra parte della barricata non si scorgono avversari tali da impensierirli. Gli amici di Giorgia le dovrebbero dire che serve un altro passo, se ce l’ha, il Paese si stanca presto delle promesse mancate e delle furbizie insistite, dovrebbero farle capire che in politica è la dura realtà a presentare presto o tardi il conto, e che se le cose andranno avanti così le chiacchiere sull’identità se le porterà via il vento…
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