Politica: Povera Italia! Era un Paese già in grande difficoltà anche prima della pandemia… E, oggi, le proiezioni ci condannano ad un sempre più veloce declino…

…seconda parte

La parola crisi utilizzata negli ultimi trent’anni per indicare un meccanismo oggettivo indipendente dall’azione umana, maschera di fatto la realtà di una guerra politica portata avanti da diversi attori, privati e pubblici, nazionali e globali. Da questo punto di vista la politica, in quanto esercizio del potere, non è nient’altro che la forma con la quale viene instancabilmente portata avanti la guerra tra classi da parte dell’oligarchia politico-finanziaria. Questa guerra ha per posta in gioco l’organizzazione della società e per strumento l’economia. Ha l’obiettivo di trasformare, talvolta distruggere, le istituzioni sociali che garantivano una relativa autonomia individuale, familiare, e più in generale collettiva di fronte al mercato del lavoro e alla subordinazione nei confronti del capitale. Alessandro Pajno, classe 1948, docente di Diritto amministrativo, ex presidente del Consiglio di stato, capo di gabinetto di Mattarella e di Ciampi, all’Istruzione, al Bilancio e al Tesoro, segretario generale della presidenza del Consiglio con Romano Prodi e poi sottosegretario al ministero dell’Interno, è uno di quegli uomini di cui il grande pubblico non conosce il volto e stenterebbe a indovinarne le funzioni, malgrado abbia servito lo Stato, e nei suoi gangli vitali, per tutta la vita. Pajno è infatti la grande intendenza d’Italia. E ancora oggi, da illustre pensionato, esprime la dottrina dell’esangue potere delle istituzioni contrapposta, come in uno specchio, al potere sanguigno della politica. Intervistato da Salvatore Merlo sul Foglio del 14 aprile ha spiegato: «Pensano che governare significhi comunicare, ma occorre la gestione. C’è una battuta che a me piace ripetere: Il populismo spesso intercetta problemi seri ma dà sempre le risposte sbagliate’. Ecco, sembra che nessuno voglia fare la fatica del lavoro necessario a cambiare le cose.» Secondo Pajno, uno dei guasti che affliggono l’Italia, che ne frenano la capacità di sviluppo anche economico, è l’eccesso di leggi, «contraddittorie, sedimentate l’una sull’altra, di difficile interpretazione. L’effetto di una miopia, e di una malattia propagandistica, cioè dell’idea che le leggi siano palingenetiche, che basti una norma a risolvere un problema. Al punto da aver trasformato le leggi in bandiere, in strumenti retorici, fin dai nomi con le quali sono battezzate. Pensateci un attimo. “La buona scuola “. Oppure: “Legge Spazza corrotti “. Spazza corrotti dà l’idea di un colpo di maglio che cancella ogni cosa. Ma sono figure retoriche che servono soltanto a saltare i problemi a piè pari. E infatti i problemi sono venuti al pettine con le sentenze della Corte dei diritti dell’uomo, della Corte costituzionale… Di leggi ce ne sono anche troppe. Se il sistema non funziona in modo adeguato, se ci si perde in una serie di regole astruse, la causa non è soltanto in un certo tipo di cultura e di mentalità della burocrazia o nella sua mancanza di qualità ma, innanzitutto, è proprio in quel reticolo di leggi, regolamenti, disposizioni primarie e secondarie che circondano lo svolgimento dell’azione amministrativa». E si ritorna dunque a Max Weber, qualunque sistema economico richiede una amministrazione efficiente e una giustizia funzionante. Dice infatti il professor Pajno: «Per fornire un contributo alla ripresa del Paese, sarebbe quanto mai opportuno un autentico cambiamento culturale, che riscopra il valore autentico della discrezionalità dell’amministrazione. Le leggi devono essere poche e chiare. Le decisioni, in base a quelle leggi, le prende l’amministrazione. Solo così rilanciamo l’Italia». E infatti ogni volta che in Italia, in ogni campo, si è posta una questione, la risposta è stata )facciamo una legge o istituiamo un ministero. Un guasto culturale. Una deriva che ha piegato l’attività di governo, che dovrebbe essere capacità di scegliere ragionevolmente, alla ricerca del consenso più immediato. La nostra politica è più brava a preparare le elezioni che a impegnarsi nella fatica di governare”. Ma la crisi drammatica del Covid19 poteva essere anche un’occasione di riscatto, di ammodernamento, l’opportunità di modificare i guasti storici di un paese che già prima della depressione virale non riusciva a crescere e funzionare. «La semplificazione legislativa è un obiettivo alto. Non semplice. Ma si può fare”, dice questo professore palermitano tra gli amici più fidati del Presidente Mattarella di cui è anche vicino di casa e che la macchina dello Stato la conosce bene come pochi altri, ma che pure deve credere nella Provvidenza quale forza, spesso chiamata in causa troppo e a sproposito, che trasforma la storia umana e fornisce il modo per spezzare il circolo che aggiunge male al male». Sta di fatto che, da quando ho aperto le pagine di questo blog, ancora non avevo dedicato il giusto tempo al nostro Paese e la sua cultura. Non lo nego: l’ho fatto per amor proprio. E, ho dovuto trovare il coraggio d’andare a guardar negli occhi il futuro del nostro Paese. Economia prossima al tracollo, arretramento culturale, decrescita demografica, disoccupazione e povertà cavalcanti, il quadro è di sicuro già conosciuto a molti lettori. Saremo fuori dalla Top 20 delle economie mondiali entro il 2050. Partiamo proprio dall’economia. Una delle principali società di revisione contabile, la PWC, ha recentemente stilato un report sulle prospettive delle economie mondiali per il 2050. Certo che ritrovarsi sverniciati anche dai Vietnamiti, oltre che da Messicani, Indonesiani e Turchi, con tutto il rispetto per i loro bellissimi Paesi e culture, è cosa difficilmente accettabile per chi appartiene alla genìa che ha creato la modernità e sforna innovazione in ogni campo da secoli. La triste realtà, ritratta da PricewaterhouseCoopers, è che l’Italia sprofonderà nell’abisso uscendo non dalla Top 10 ma dalla Top 20 delle economie mondiali. Da PWC siamo passati all’Istat, dove, a fine Dicembre 2019, veniva pubblicato un documento di ricezione di una direttiva delle Nazioni Unite che enuncia gli obiettivi posti agli Stati al fine di eliminare la povertà, proteggere il pianeta ed assicurare prosperità a tutti. Il secondo paragrafo del testo debutta così: “I 17 obiettivi sono declinati in 169 sotto-obiettivi che fanno riferimento a diversi domini dello sviluppo, relativi a tematiche di ordine ambientale, sociale, economico e istituzionale e che sono finalizzati a realizzare un progresso sostenibile”. Invito a dar un occhio alle priorità menzionate nel testo. Si ha la sensazione che a Ginevra come a New York avrebbero da obiettare che il Covid assieme agli astri abbiano cospirato contro un esito positivo di queste politiche di “realizzazione del progresso sostenibile”. Però ecco, a dar un occhio alla cosa, vien quantomeno da sorridere. Passiamo in rassegna solo le prime 5 priorità fissate dalle Nazioni Unite: eliminazione della povertà, eliminazione della fame, salute e benessere, qualità dell’educazione e parità dei generi… Notando qualche discrasia tra gli aneliti delle Nazioni Unite e la situazione reale del nostro Paese, ho voluto verificare con i miei occhi l’efficienza delle politiche di cui sopra esaminando il rapporto del 2022 su povertà ed esclusione sociale redatto dalla “Caritas”. Già il report del 2021 statuiva che “nel 2020 la rete Caritas … ha sostenuto più di 2 milioni di persone. Di questi il 44% sono nuovi poveri, persone che si sono quindi rivolte al circuito Caritas per la prima volta per effetto, diretto o indiretto, della pandemia”. E poi prosegue: La crisi sociosanitaria ha acuito anche le povertà preesistenti: cresce anche la quota di poveri cronici, in carico al circuito delle Caritas da 5 anni e più (anche in modo intermittente) che dal 2019 al 2020 passa dal 25,6% al 27,5%; oltre la metà delle persone che si sono rivolte alla Caritas (il 57,1%) aveva al massimo la licenza di scuola media inferiore, percentuale che tra gli italiani sale al 65,3% e che nel Mezzogiorno arriva addirittura al 77,6%. Siamo quindi di fronte a delle situazioni in cui appare evidente una forte vulnerabilità culturale e sociale, che impedisce sul nascere la possibilità di fare il salto necessario per superare l’ostacolo. Forte vulnus culturale. Considerazione che ricorda una delle più celebri “sentenze” di George Soros sull’Italia negli anni ’90, quando profetizzò che il nostro Paese sarebbe sempre stato l’anello debole dell’Europa proprio per questioni culturali. Rispetto al 2020 crescono del 7,6% le persone assistite, quelle che per la prima volta nel 2020 si erano rivolte ai servizi Caritas e si trovano ancora in uno stato di bisogno sono il 16,1%. Rimane alta la quota di chi vive forme di povertà croniche (27,7%); più di una persona su quattro è accompagnata da lungo tempo e con regolarità dal circuito delle Caritas diocesane e parrocchiali. Preoccupa anche la situazione dei poveri “intermittenti” (che pesano per 19,2%), che oscillano tra il “dentro- fuori” la condizione di bisogno, collocandosi a volte appena al di sopra della soglia di povertà e che appaiono in qualche modo in balia degli eventi, economici/occupazionali (perdita del lavoro, precariato, lavoratori nell’economia informale) e/o familiari (separazioni, divorzi, isolamento relazionale, ecc.). Chiudo il report Caritas con una considerazione sul reddito di cittadinanza: “Una persona su cinque (19,9%) di quelle accompagnate nel 2020 dichiara di percepire il Reddito di Cittadinanza (RdC)”. Con il debito pubblico e l’inflazione sempre più in ascesa, la disoccupazione cavalcante e l’impatto dell’automazione alle porte, si fatica ancor di più a comprender il seppur cauto ottimismo che emerge dalla lettura del report sulle macroproiezioni per la nostra economia del Dicembre 2021 della Banca D’Italia. In più ce la crisi demografica: a un ritmo da estinzione in 300 anni. Per quanto riguarda la situazione demografica, già a fine Novembre 2021 il sito “Statista” pubblica una proiezione della situazione demografica del nostro Paese prevedendo, tra anzianità e quindi mortalità e decrescita demografica, una diminuzione del 10% della popolazione italiana entro il 2050, passando da 60 a 54 milioni. A far i conti della serva, è una tendenza poco promettente. Un ritmo che se mantenuto stabilmente potrebbe potenzialmente eradicare dalla genetica planetaria gran parte del nostro DNA nel giro di tre secoli. E c’è da presumere che l’automazione, tema di vero interesse nazionale pressoché ignorato ahimè anche dalle agende di destra, non aiuterà ad invertire l’orientamento demografico di cui sopra. Nonostante l’Italia, in virtù della natura del suo tessuto imprenditoriale, prevalentemente fatto di piccole-medie imprese poco inclini all’inclusione della tecnologia nelle loro aziende, ne risentirà meno di molte altre nazioni, ben 7 milioni di nostri connazionali sono a rischio disoccupazione nei prossimi anni per via dell’automazione, come riporta un recente studio dell’Università di Trento. Vedremo negli anni a venire quali litanie rivolgeranno al povero popolo italiano i nostri politici in relazione a quanto anche Bruxelles, produrrà come UE, presumibilmente per stimolare l’ennesimo promettente cambiamento ed al contempo giustificare le ultime imprevedibili ed inevitabili cicliche crisi economiche di questo “Capitalismo cannibile” che proseguiranno per questa prima metà di questo primo secolo del terzo millennio.

(continua)

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