Politica: quali prospettive? Il neoliberismo occidentale sembra ormai esaurito, sacrificato sull’altare della pandemia e della crisi economica. Ispirandosi al modello cinese e imparando dal passato, Joe Biden e alcuni leader europei si stanno muovendo verso un modello di Stato più interventista, segnando così l’inizio di una nuova era, la cui natura, progressista o regressiva, è ancora tutta da determinare…

Terza parte

Trent’anni di ideologia neoliberista e ordoliberale e di utopie solo tecnologiche dovrebbero averci portato alla consapevolezza di essere a un bivio: decidere se proseguire sul piano inclinato deterministico del tecno-capitalismo e lentamente implodere (o peggio, esplodere); o provare a invertire la rotta o almeno deviarla, riprendendo i comandi della nave – o dell’aereo, secondo la metafora di Zygmunt Bauman, quando scriveva: «I passeggeri dell’aereo “capitalismo leggero” scoprono con orrore che la cabina di pilotaggio è vuota e che non c’è verso di estrarre dalla misteriosa scatola con l’etichetta “pilota automatico” alcuna informazione su dove si stia andando». In realtà, all’orrore ci stiamo abituando, posto che dopo 15 anni di crisi siamo ancora nella palude dell’austerità europea e alla deregolamentazione (e non alla ferrea ri-regolamentazione) dei mercati finanziari (Trump); e che l’unica reazione sembra ancora essere quella di cercare l’uomo forte (o la donna forte) o il populista o il leader carismatico e visionario, barattando ancora una volta, come scriveva Freud: “la possibilità di felicità per un po’ di sicurezza”… Dunque, il problema vero di questi ultimi decenni è quello del rapporto tra democrazia ed economia e tecnica. Un rapporto che è sempre più un conflitto (una guerra, secondo i francesi Dardot e Laval), ma che il tecno-capitalismo sa tenere ben nascosto sotto le forme apparentemente libertarie dell’individualismo neoliberista, della rete come libera e democratica, del tecno-entusiasmo come immaginario collettivo dominante. Per cui, direbbe il “pessimismo della ragione”, ci stiamo lentamente abituando al disastro, senza neppure più l’orrore di Bauman, e per di più rimettendo nella cabina di comando i nuovi uomini forti – che però non portano visioni nuove ma alla democratura secondo Pedrag Matvejevic, o alla non-più-democrazia secondo noi semplici umani. E allora, posto che tecnica e capitalismo sono strutturalmente a-democratici e quindi programmaticamente o tendenzialmente antidemocratici, ogni riflessione su tecnico-scienza e capitalismo è benvenuta, soprattutto se dichiara da subito – come ormai fanno in molti che: l’agonia del capitalismo è irreversibile. Il prezzo della sua sopravvivenza è un futuro di caos, oligarchia e nuovi conflitti. La crisi economica scoppiata nel 2008 si è trasformata in una crisi sociale e infine in un autentico sconvolgimento dell’ordine mondiale: oggi, questo capitalismo malato e segnato dal predominio della finanza scarica i costi della recessione sui più deboli; si dimostra incapace di far fronte alle minacce del riscaldamento globale, dell’invecchiamento della popolazione e dell’incontrollato boom demografico nel Sud del mondo; e mette a rischio la democrazia e la pace. Quando la Lehman Brothers fallì, si videro scene apocalittiche in mezzo all’ingorgo di limousine, troupe televisive, guardie del corpo e soprattutto gli impiegati i loro dirigenti e, anche i responsabili dei servizi finanziari della banca tutti quanti licenziati, che uscivano con gli scatoloni dei loro oggetti personali e che si accalcavano davanti al quartier generale newyorkese della società. Siamo ormai 15 anni dopo, con il mondo che ancora fatica a riprendersi dalle conseguenze di quella giornata: Allora sapevamo che era cominciata una recessione: con la chiusura di 600 filiali della catena Starbucks in America, il sistema finanziario globale era in grossa difficoltà con il fallimento della grossa banca e il mercato immobiliare statunitense a pezzi: a Detroit c’erano case in vendita per 8000 dollari in contanti… a prezzi di svendita. Ma non avevamo ancora l’idea che il capitalismo nella sua forma corrente fosse sul punto di distruggersi con le proprie mani. Un capitalismo cannibale. E’ così che il sistema sta divorando la democrazia, il nostro senso di comunità e il pianeta. Il crack del 2008 ha cancellato il 13 per cento della produzione mondiale e il 20 per cento degli scambi commerciali. Ha portato a una crescita negativa a livello globale (in una scala in cui qualunque cosa al di sotto del +3 per cento viene considerata recessione). In Occidente, ha prodotto una fase di depressione più lunga di quella del 1929-1933, e perfino adesso, nel pieno di una stentata ripresa, terrorizza gli economisti mainstream con la prospettiva di una stagnazione di lungo periodo. Il vero problema, però, non è la depressione post Lehman Brothers. Il vero problema è ciò che viene dopo. E per comprenderlo dobbiamo guardare ben oltre le cause immediate di quel crollo, guardando alle sue radici strutturali del capitalismo. Quando nel 2008 il sistema finanziario globale colò a picco, ci volle poco per scoprire la causa immediata: i debiti nascosti dentro prodotti finanziari dai prezzi distorti, noti come veicoli di investimento strutturati (structured investment vehicles, Siv); la rete di società offshore non regolamentate, nota – appena iniziò a implodere – come «sistema bancario ombra». “La Grande catrastofe” di Nouriel Roubini, Serie Bianca Ed. Feltrinelli, ci illustra le dieci minacce  per il nostro futuro: Accumulazione del debito, crisi finanziarie pubbliche e private, invecchiamento della popolazione, bolla dei soldi a buon mercato, tracolli delle valute, fine della globalizzazione, intellihenza artificiale, guerre, un pianeta inabitabile. Poi, quando sono cominciati i processi, ci siamo resi conto di quanto fossero estese le pratiche criminali che erano diventate la norma nella fase precedente alla crisi. In ultima analisi, però, brancolavamo tutti nel buio. E questo perché non esiste alcun modello di crisi economica, nel neoliberismo. Anche per chi non ne accetta fino in fondo l’intero apparato ideologico – la fine della storia, il mondo è piatto, il capitalismo senza attriti, l’idea di fondo dietro a questo sistema è che i mercati sono in grado di autocorreggersi. La possibilità che il neoliberismo possa crollare sotto il peso delle proprie contraddizioni era allora, e rimane oggi, ancora inaccettabile ai più… Il sistema è stato stabilizzato. Portando il debito pubblico a quasi il 100 per cento del Pil e stampando moneta per un valore pari a circa un sesto del prodotto mondiale, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Europa e il Giappone hanno iniettato una dose di adrenalina per contrastare l’arresto cardiaco. Hanno salvato le banche nascondendo sottoterra i loro crediti inesigibili: una parte l’hanno condonata, una parte l’hanno scaricata sul debito pubblico (da noi l’esempio è il MPS), un’altra parte l’hanno sepolta dentro entità che sono sicure semplicemente perché le banche centrali le sostengono con la propria credibilità. Poi, attraverso i programmi di austerità, hanno alleviato le sofferenze di chi aveva investito denaro in modo stupido, punendo invece i beneficiari dello stato sociale, i dipendenti pubblici, i pensionati e soprattutto le generazioni future. Nei paesi colpiti in maniera più pesante, il sistema previdenziale è a pezzi, l’età di pensionamento si sta alzando (vedi da noi la legge Fornero in pensione a 67 anni e, in Francia le sommosse contro l’aumento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni imposta da Macron) al punto che coloro che lasciano oggi l’università smetteranno di lavorare a settant’anni e l’istruzione viene privatizzata, condannando i laureati a indebitarsi per tutta la vita. I servizi vengono smantellati e i progetti infrastrutturali sospesi… Eppure, perfino adesso, molte persone non riescono a cogliere il significato autentico della parola «austerità». Austerità non vuol dire 15 anni di tagli alla spesa, come in Gran Bretagna, e nemmeno la catastrofe sociale inflitta alla Grecia. Tidjane Thiam, amministratore delegato di Prudential, ha esposto chiaramente il vero significato della parola austerità fin dal forum di Davos del 2012. I sindacati sono il «nemico dei giovani», ha detto, e il salario minimo è «una macchina per distruggere posti di lavoro». I diritti dei lavoratori e salari decorosi sono d’ostacolo al rilancio del capitalismo e – disse senza imbarazzo questo finanziere milionario: “devono sparire!” È questo il vero progetto dell’austerità: spingere i salari e il tenore di vita dell’Occidente verso il basso per i prossimi decenni, finché non arriveranno a coincidere con quelli in ascesa dei ceti medi di Cina e India. Nel frattempo, in mancanza di un modello alternativo, si stanno formando le condizioni per un’altra crisi. E’ di pochi mesi fa la crisi della Silicon Valley Bank e il suo salvataggio da parte del Tesoro Usa. Così come in Svizzera si è avuto la crisi del Credit Suisse e il suo salvataggio da parte della UBS. Crisi bancarie ci risiamo? In Giappone, nel Sud dell’Eurozona, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna i salari reali sono scesi o sono rimasti stagnanti. Il sistema bancario ombra è stato rimesso in sesto, e ora è più esteso di quanto fosse nel 2008. Il debito aggregato globale di banche, famiglie, aziende e stati è salito di 57000 miliardi dallo scoppio della crisi, e ammonta a quasi tre volte il Pil globale. Le nuove regole che impongono alle banche di detenere riserve più ampie sono state annacquate e rinviate. E solo l’uno per cento si è ulteriormente arricchito. I ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Se ci sarà un’altra orgia finanziaria seguita da un altro tracollo, non ci potrà essere un secondo salvataggio pubblico. Con i debiti pubblici ai massimi dal dopoguerra e i sistemi di welfare in ginocchio in alcuni paesi, le munizioni sono finite, perlomeno quelle del tipo utilizzato nel 2009/2010. Il salvataggio di Cipro, nel 2013, è stato il banco di prova di quello che succederà se una grossa banca o uno stato dovessero fallire nuovamente: oltre i 100.000 euro, tutti i risparmi depositati in banca sono stati spazzati via. Ecco, in sintesi, quello che dovremmo aver imparato dal giorno in cui la Lehman Brothers è scomparsa: le prossime generazioni (i nostri figli e i nostri nipoti) saranno più povere di questa nostra generazione; il vecchio modello economico è in frantumi e non potrà essere riportato in vita senza resuscitare anche la fragilità finanziaria. Da quel giorno i mercati ci stanno inviando un preciso messaggio sul futuro del capitalismo, ma all’epoca si riuscii a coglierlo solo in parte e, ancora oggi, una gran parte del mondo si rifiuta di guardare in faccia questa realtà… John Maynard Keynes una volta definì la moneta «un anello fra il presente e il futuro». Voleva dire che ciò che facciamo oggi con il denaro è un segnale di come pensiamo che cambieranno le cose negli anni a venire. Quello che abbiamo fatto con il denaro negli anni prima del 2008 è stata un’imponente espansione della sua quantità: la massa monetaria mondiale è cresciuta da 25000 a 70000 miliardi di dollari negli anni che hanno preceduto il crack, un ritmo di crescita incomparabilmente più rapido rispetto all’economia reale. Quando la moneta si espande a questo ritmo, è il segno che crediamo in un futuro enormemente più ricco del presente. La crisi è stata semplicemente un feedback da parte del futuro: ci eravamo sbagliati… Tutto quello che hanno saputo fare le classi dirigenti mondiali nel momento in cui è esplosa la crisi è stato mettere altre fiche sul tavolo della roulette. Trovarle – per la bella somma di 12000 miliardi di dollari in allentamento quantitativo – non è stato un problema, perché erano loro i cassieri del casinò. Ma per un po’ di tempo hanno dovuto distribuire le puntate in modo più uniforme, e diventare meno sconsiderati. Questa, di fatto, è stata la politica economica mondiale dopo il 2008: stampare così tanta moneta che il costo dell’indebitamento, per le banche, è zero, o addirittura negativo. Quando i tassi d’interesse reali diventano negativi, i risparmiatori – che possono tenere i loro soldi al sicuro solo acquistando titoli di stato – sono praticamente costretti a rinunciare a qualunque rendita dai propri risparmi. Ciò, a sua volta, rilancia il mercato immobiliare, il mercato delle materie prime, il mercato dell’oro e il mercato azionario, costringendo i risparmiatori a spostare il loro denaro su questi investimenti più rischiosi. Il risultato, a tutt’oggi, è una modesta ripresa, ma il problema strategico purtroppo rimane. La crescita nei paesi sviluppati è lenta. Gli Stati Uniti sono ripartiti solo caricandosi sulle spalle un debito federale da 17000 miliardi di dollari. Le migliaia di miliardi di dollari, yen, sterline e adesso euro che sono stati stampati sono ancora in circolazione. Le famiglie occidentali non hanno ancora ripianato i propri debiti. Intere città fantasma frutto di speculazioni immobiliari, dalla Spagna alla Cina, restano invendute. L’Eurozona (probabilmente l’edificio economico più grande e fragile del pianeta) resta in stagnazione, generando tensioni politiche fra classi sociali e paesi che rischiano di farla esplodere. Il tipo di economia che sta emergendo dalla crisi non è in grado di produrre la ricchezza necessaria. Siamo quindi di fronte a un momento strategico: per il modello neoliberista… e, per il capitalismo stesso. L’accoppiata «banche sregolate più crescita squilibrata» è diventata la spiegazione ufficiale del disastro. Rimettiamo in riga le banche, riduciamo i debiti, riequilibriamo il mondo e tutto andrà a posto. Le politiche portate avanti dal 2008 in poi si basano su questo presupposto… La crescita, però, resta bassa e ormai anche nomi illustri del pensiero economico dominante hanno perso l’ottimismo. Larry Summers, segretario al Tesoro sotto Bill Clinton, uno degli architetti della deregolamentazione bancaria, nel 2013 ha scosso il mondo dell’economia, avvisando che l’Occidente è di fronte a una «stagnazione secolare», cioè una situazione di bassa crescita per il futuro prossimo. «Sfortunatamente» ha ammesso Summers, la bassa crescita «è un fenomeno presente da tempo, ma che finora è stato mascherato da una finanza insostenibile.» L’esperto economista americano Robert Gordon è andato oltre, pronosticando una scarsa crescita negli Stati Uniti per i prossimi venticinque anni, come conseguenza di un calo della produttività, dell’invecchiamento della popolazione, di un elevato indebitamento e dell’aumento della disuguaglianza. Di fronte a un capitalismo che non riesce a ripartire, il timore non è più quello di una stagnazione decennale causata da un vertiginoso accumulo di debiti, ma di un sistema che non arriverà mai a recuperare il proprio dinamismo. Mai più… Ma allora, che fare? – nella classica domanda leniniana, ma anche tolstoiana. Necessariamente provo a riassumere i principali punti per come li ho potuto comprendere dedicandovi molto del mio tempo una volta dismessa ogni attività lavorativa, occorre: cambiare l’immaginario politico; vincere la sfida climatica; cambiare il modello energetico; riappropriarci del tempo e ridurre gli orari di lavoro; mettere le briglie alla velocità; regolamentare la finanza. Su tutto c’è il tentativo di dare una risposta appunto alla questione di partenza: come democratizzare tecnica e capitalismo (ammesso che sia possibile), due sistemi che si credono (o che sono già oggi, se già vincono gli algoritmi e il machine learning) autopoietici e autoreferenziali; che sono forme di vita più che forme economiche e tecniche (cioè, mezzi). Complicando così ulteriormente la questione. E la sua soluzione. Ma bisogna partire da un’idea di fondo: «questa crisi non può essere affrontata con gli strumenti e le ricette che ci hanno portato allo smarrimento attuale, con il fallimento o addirittura il dissolvimento dell’apparato culturale e istituzionale che ha fornito all’intero pianeta il mito dello sviluppo quantitativo come criterio salvifico e inderogabile per l’avvenire delle nuove generazioni… Dallo schianto in corso sembra essersi invece preservata la scienza, anche perché ha cominciato a considerare la realtà e il mondo naturale in totale discontinuità rispetto al passato e alle regole che ancora apprendiamo a scuola. Era già accaduto, da Aristotele a Copernico, Keplero, Galileo e Newton che bisognasse riconnettere l’interpretazione del mondo a nuove visioni… Ciò non è invece ancora accaduto dopo la rivoluzione che relatività e quantistica hanno introdotto nella concezione dello spazio e del tempo». Una nuova discontinuità di cui invece occorre prendere atto per agire conseguentemente. Che è cosa ovviamente diversa dall’immaginare gli scienziati come aspiranti redentori dell’umanità (ne aveva scritto, criticamente, Hans Magnus Enzensberger nel 2001), ma «il bisogno che le prove fornite dalle nuove teorie interpretative della realtà correggano pregiudizi e convinzioni che resistono in una società poco informata e che le politiche attuali continuano a incorporare nel processo decisionale… Suggeriamo il metodo scientifico più aggiornato alla definizione e comprensione dei problemi sociali e di fornire per questa via strumenti di previsione economica meno labili, un facilitatore di decisioni alla politica e un metodo di rafforzamento del processo di partecipazione democratica». Tornando così a ripensare a quella natura reale che invece tecnica e capitalismo, tra new economy e realtà virtuale, ci hanno fatto dimenticare per oltre quarant’anni – analogamente al concetto di limite – e che presenta oggi il conto di un riscaldamento globale che molti (Trump, di nuovo) ancora negano. Non solo: «Nel quadro attuale, il prevalere della tecnocrazia nel controllo e nell’assegnazione dei tempi – di lavoro, di consumo, di riposo, di riproduzione, di ozio.  In un frangente simile, una politica che ha passato la mano, prova a persuaderci di vivere in un eterno presente, che distoglie dal riprogrammare il futuro, indebolisce il ricorso alla memoria, disconnette la società dalle urgenze e dalle leggi che implacabilmente regolano la biosfera e le probabilità di riproduzione». Dobbiamo allora re-impadronirci del tempo. E soprattutto tornare a considerare la natura (l’ambiente) come entità che non possiamo più considerare come miniera da sfruttare – deterministicamente e a piacimento – perché considerata come illimitata dalla tecnica e dal capitalismo e dalle loro pedagogie. Il mondo naturale, ci ricordano nel loro libro Agostinelli e Rizzuto, ha invece una sua autonomia, delle ciclicità necessarie. E va conservato, per noi e per le generazioni future. Il saggio è ampio e affronta molti temi all’ordine del giorno, dal potere degli algoritmi alla disoccupazione tecnologica, dall’energia al movimentismo sociale. Ma spazia anche in campi inconsueti, ad esempio la relazione tra arte e scienza. Le conclusioni sono nette. Il primo passo da compiere è quello di rivalutare la polis, «riconsegnando quindi alla politica e a un patto di democrazia sociale, il governo del cambio di fase». Il secondo «sta invece nel tematizzare e risolvere le attuali fratture ecologiche e sociali con una chiave di interpretazione, anche teorica, in continuo aggiornamento e in opposizione alla resa mistificatoria di un certo nuovismo usato al posto del cambiamento necessario». Mentre il terzo punto sarebbe una diffusione maggiore del pensiero scientifico, che «ridiscuta, potenzi e riaggiorni il metodo della rappresentanza e valorizzi… un apporto critico dal basso». Facciamoci gli auguri per esserne capaci…
(fine)

Bibliografia:
Joseph E. Stiglitz, The End of Neoliberalism and the Rebirth of History, Project Syndicate, 4 novembre 2019; Paolo Gerbaudo, The Great Recoil : Politics After Populism and Pandemic, Verso Books, in pubblicazione ad agosto 2021; The Ezra Klein Show, « The best explanation of Biden’s Thinking I’ve Heard », The New York Times, 9 aprile 2021; Joshua Kurlantzick, State Capitalism. How the Return of Statism if Transforming the World, Oxford University Press, 2016; Jeff Stein, « Trump’s 2016 campaign pledges on infrastructure have fallen short, creating opening for Biden », The Washington Post, 18 ottobre 2020; Ben Wright, « Levelling up : Boris Johnson promises more power for local leaders », BBC News, 16 luglio 2021; James Meadway, « Neoliberalism is Dead and Something Even Worse is Taking Its Place», Novara Media, 29 giugno 2021; Mario Agostinelli e Debora Rizzuto, “Il mondo al tempo dei quanti. Perché il futuro non è più quello di una volta” (prefazione di Gianni Mattioli e Massimo Scalia, postfazione di Carlo Galli), Mimesis Edizioni, 2017.

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