Politica: quali prospettive? Il neoliberismo occidentale sembra ormai esaurito, sacrificato sull’altare della pandemia e della crisi economica. Ispirandosi al modello cinese e imparando dal passato, Joe Biden e alcuni leader europei si stanno muovendo verso un modello di Stato più interventista, segnando così l’inizio di una nuova era, la cui natura, progressista o regressiva, è ancora tutta da determinare…

Prima parte

Come molti altri fenomeni umani e naturali la politica va a ondate. In economia si parla ormai da un secolo di questo andamento ondeggiante del ciclo economico, come teorizzato nelle “onde K” di 40-50 anni di cui parlava l’economista Nikolai Kondratiev. I cicli ideologici sembrano avere un andamento simile. Periodi storici lunghi all’incirca mezzo secolo associati con un determinato consenso ideologico si sono succeduti nella storia moderna, a partire dalla Rivoluzione francese. Questi periodi tipicamente iniziano con una pars destruens che scardina gli assunti dell’era ideologica precedente, raggiungono un punto di massima egemonia e poi progressivamente vanno a scontrarsi con le proprie contraddizioni, aprendo lo spazio per un nuovo ciclo. Gli esempi storici sono molteplici. All’era liberale di fine Ottocento e inizio Novecento è succeduta l’era social-democratica del dopoguerra. E infine, a partire dai tardi ’70 e inizio ’80, l’era neoliberista, segnata dal trionfo dell’ideologia del libero mercato sulle ceneri del socialismo reale. Il neoliberismo ha segnato l’era della globalizzazione ed è assorto a pensiero unico ampiamente accettato sia dal centro-sinistra che dal centro-destra. Ma ora anche quest’era ideologica sembra ormai destinata a volgere al termine. Come sostenuto da economisti come Joseph Stiglitz1 e Thomas Piketty, il neoliberismo era di fatto già claudicante dopo la crisi del 2008; il mito del libero mercato era finito in frantumi il giorno in cui lo stato americano intervenne per salvare la finanza dalla bancarotta, sfatando l’idea del “mercato che si autoregola”. Quella che originariamente si presentava come una visione di prosperità e innovazione, è diventata sempre più vista come un’ideologia punitiva se non del tutto sadica, che lungi dall’auspicare la crescita ha portato a una fase di stagnazione economica senza precedenti dall’inizio dell’era industriale. Gli anni 2010, segnati da rivolte populiste, movimenti di contestazione, nuovi leader e partiti di sinistra e – a partire dalla metà del decennio – anche da una nuova destra xenofoba, hanno messo in luce quanto fosse vasto lo scontento verso l’ordine dominante. La pandemia di Coronavirus sembra avere infine inferto il colpo mortale. Gli effetti deleteri dei tagli alla sanità durante la Grande recessione e l’incapacità del mercato di soddisfare in maniera efficace la domanda di beni medici di urgenza (mascherine, ventilatori e poi vaccini) hanno minato la fiducia della popolazione nel neoliberismo. Tuttavia, questa non è solo la fine di un’era ideologica, ma anche l’inizio di una nuova epoca. Dal calderone dell’emergenza sta progressivamente emergendo una nuova cornice: il nemico giurato del neoliberismo, lo Stato interventista, si sta riaffacciando in tempi segnati da piani massici di investimento pubblico, spesa a deficit, programmi di vaccinazione di massa e pianificazione climatica. Se fino a poco tempo fa il discorso politico ruotava attorno alla domanda “cosa farà il mercato?” e i politici si presentavano come i gestori a livello nazionale di tendenze economiche inevitabili, ora il dilemma è diventata piuttosto “cosa deve fare lo Stato?”. Un neo-statalismo, o neo-interventismo, sta sostituendo il neo-liberismo come cornice bipartisan, dentro cui si muovono con soluzioni diverse sia il nuovo centro-sinistra di Biden che il centro-destra prima di Johnson e oggi di Rishi Sunak. Questo, contrariamente alle aspettative di buona parte della sinistra arrivata erroneamente ad equiparare lo statalismo al socialismo tout court,e con ciò, non significa che stiamo necessariamente andando verso un futuro più progressista e egualitario. Ciò che è cambiato è l’orizzonte politico generale, il campo di battaglia sul quale nuove posizioni ideologiche “partisan” sia di sinistra che di destra lottano per definire il mondo post-pandemico… La manifestazione più evidente di questo cambio di paradigma viene dagli Stati Uniti, proprio il paese che con la scuola di economisti dell’università di Chicago e think-tank come l’American Enterprise Institute, the Heritage Foundation, the Project for the New American Century ha fatto più di tutti per sviluppare e poi esportare la dottrina neoliberista. Con grande sorpresa di molti, a partire dai socialisti che avevano sostenuto Bernie Sanders alle primarie, una volta eletto presidente Joe Biden ha intrapreso una svolta radicale alla politica economica. Il nuovo presidente ha messo in cantiere enormi piani di stimolo e recupero per un totale di 6 trillioni di dollari. È vero che buona parte di questi piani sono ancora in bilico a causa dell’esigua maggioranza al Senato e la resistenza di diversi centristi, e che rischiano di finire fortemente annacquati. Ma si tratta comunque del più grande piano di spesa pubblica e investimento nella storia degli Stati Uniti. Quello che sorprende, oltre all’ammontare di questi piani, è la nuova logica che gli sta dietro. Biden non ha perduto occasione per demolire capisaldi dell’ideologia di mercato: ad esempio quando ha affermato nel suo primo discorso a una sessione congiunta del Congresso il 29 Aprile 2021 che la “trickle-down economics” (o economia dello sgocciolamento dai proventi dei ricchi a tutti gli altri) non ha mai funzionato. Nello stesso discorso Biden ha rivendicato un ruolo da protagonista dello Stato nella nuova economia. “Nel corso della nostra storia, gli investimenti pubblici nelle infrastrutture hanno letteralmente trasformato l’America” – ha affermato Biden, aggiungendo “questi sono investimenti che solo il governo era in grado di fare”. Inoltre, Biden si è presentato come un presidente dei sindacati e dei lavoratori, sostenendo a più riprese la necessità di migliori salari per i lavoratori, sospirando agli imprenditori durante una conferenza stampa “pagateli di più”. Nel loro insieme queste prese di posizione segnano una chiara rottura con l’adesione dei Democrats alla dottrina del libero mercato, intrapresa da Bill Clinton e poi continuata da Barack Obama. Si tratta di una svolta sorprendente, tanto più per la carriera precedente di Biden, che durante i 36 anni da senatore del Delaware ha contribuito allo smantellamento dello stato sociale e a politiche a favore delle multinazionali. Perché Biden sta facendo tutto questo? La migliore spiegazione sul retroscena della Bidenomics può essere rinvenuta in un’intervista concessa, qualche tempo fa, al giornalista Ezra Klein del New York Times dal capo dei consiglieri economici di Biden , già consigliere dell’amministrazione Obama, e passato poi a lavorare alla BlackRock la più grande società d’investimento al mondo, per cui si occupava di investimenti sostenibili. Nell’intervista Deese spiega che il cambiamento di linea da parte di Biden è un riflesso del cambiamento del dibattito economico, e del ricambio generazionale tra gli economisti, con consiglieri più giovani intenzionati a mandare in soffitta alcuni dogmi della generazione precedente. Deese afferma che dopo questa crisi non è più possibile continuare a ignorare gli effetti della diseguaglianza economica sulla società, e che “non ci sono soluzioni di mercato per affrontare alcune delle debolezze che si sono aperte nell’economia”. Ma la svolta neo-interventista di Biden, come lascia trasparire Deese è anche – come spesso succede nella storia – un prodotto della paura, e in particolare di due preoccupazioni che attanagliano l’establishment liberal americano. Il primo è quello di un ritorno del trumpismo, dopo i 4 anni spericolati alla Casa Bianca e il trauma nazionale prodotto dall’insurrezione dei suoi sostenitori di estrema destra al Campidoglio il 6 gennaio 2021. Quell’evento sembra avere seminato il panico nel Partito democratico e nell’intellighenzia liberal statunitense, fino al punto di spingere fautori del neoliberismo come Biden a convincersi che il libero mercato non è solo economicamente problematico – come dimostrato da un decennio di stagnazione – ma pure politicamente insostenibile: non si può mettere a repentaglio la fine della democrazia per dare retta alle ricette degli economisti ortodossi. La seconda paura che guida la Bidenomics è la paura della Cina. Come spiega Deese, il nuovo corso di Biden fa i conti con il successo del sistema economico cinese, e il modo in cui ha garantito una crescita sostenuta, e evitato in buona parte le crisi finanziarie che secondo le cassandre avrebbero presto portato i cinesi ad abbattere il regime comunista. Al contrario, la Cina ha investito in infrastrutture e in ricerca e sviluppo preparandosi per competere nel settore delle tecnologie avanzate, delle rinnovabili e dell’intelligenza artificiale. Questo è avvenuto proprio mentre sotto Xi Jinping la Cina invertiva la rotta rispetto all’aperturismo degli ’90 e 2000. Come sostiene il giornalista americano Joshua Kurlantzick, lo spartiacque fu la turbolenza finanziaria del biennio 2014-15. La rabbia dei piccoli risparmiatori cinesi spinse il governo cinese a mettere da parte le promesse di de-regulation del sistema finanziario e a ridare allo Stato un ruolo più attivo. Oggigiorno le aziende statali o partecipate controllano il 60% dell’economia cinese. In questo contesto, è come se gli Stati Uniti si fossero resi conto che non possono continuare a fare finta che l’economia globale si avvicini all’ideale del libero mercato, quando in realtà il loro principale competitor è il capitalismo di Stato. Il corollario strategico è che per fare i conti con una Cina baldanzosa, gli Stati Uniti devono diventare più simili ad essa, adottando alcuni meccanismi di intervento statale e politica industriale abbandonati dopo la crisi della stagflazione degli anni ’70.

(continua)

 

Bibliografia:

Joseph E. Stiglitz, The End of Neoliberalism and the Rebirth of History, Project Syndicate, 4 novembre 2019; Paolo Gerbaudo, The Great Recoil : Politics After Populism and Pandemic, Verso Books, pubblicato agosto 2021; The Ezra Klein Show, « The best explanation of Biden’s Thinking I’ve Heard », The New York Times, 9 aprile 2021; Joshua Kurlantzick, State Capitalism. How the Return of Statism if Transforming the World, Oxford University Press, 2016; Jeff Stein, « Trump’s 2016 campaign pledges on infrastructure have fallen short, creating opening for Biden », The Washington Post, 18 ottobre 2020; Ben Wright, « Levelling up : Boris Johnson promises more power for local leaders », BBC News, 16 luglio 2021; James Meadway, « Neoliberalism is Dead and Something Even Worse is Taking Its Place», Novara Media, 29 giugno 2021; Mario Agostinelli e Debora Rizzuto, “Il mondo al tempo dei quanti. Perché il futuro non è più quello di una volta” (prefazione di Gianni Mattioli e Massimo Scalia, postfazione di Carlo Galli), Mimesis Edizioni, 2017.

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