Politica: Una manovra economica precaria che spinge i conti pubblici verso il disastro…

La conferenza stampa di lunedì 16 ottobre, della Premier Meloni attorniata dai suoi principali Ministri e alleati di governo, ha chiarito solo alcuni aspetti della manovra per il 2024, altri aspetti restano incerti. Deficit, tagli e misure temporanee. La legge di bilancio del governo Meloni rimanda al futuro i problemi del Paese. Con questo caveat, una cosa si può certo dire: è una legge di bilancio caratterizzata dalla precarietà dei nostri conti pubblici. Questo governo, come i governi precedenti, non è responsabile di tale precarietà. Quella ha origini lontane, dalla Prima Repubblica, direi. Ma questo governo, come molti dei precedenti, è responsabile per l’accettazione di tale precarietà, con interventi che continuano a rimandare al futuro i vari problemi dell’economia italiana. La manovra è di 24 miliardi di cui 16 sono in deficit, cioè sono finanziati indebitandosi. Già di per sé questo è un elemento di precarietà non indifferente per un Paese con il debito pubblico alto quanto il nostro. Come ho già scritto qui, qualche giorno fa, il rapporto tra debito pubblico e Pil è previsto rimanere più o meno costante da qui al 2026, ma solo perché la legge di bilancio è basata su ipotesi piuttosto ottimistiche sulla crescita del Pil e sulle entrate da privatizzazioni. I restanti 8 miliardi di coperture derivano per 2,6 miliardi da rimodulazioni di spesa che era prevista per il 2024 e si è invece spostata al 2023, il che ovviamente non appare una forma permanente di finanziamento. Il resto deriva da una spending review che non è basata su misure strutturali ma su un diktat: o i ministeri trovano il modo nel giro di tre mesi di ridurre, con misure non identificate, le loro spese del 5% o subiranno un taglio lineare corrispondente. In un modo o nell’altro, si tratterà quindi di tagli caratterizzati dalla precarietà, dallo stringere la cinghia. Con una copertura precaria, anche le azioni sul lato delle iniziative espansive (tagli di entrate o aumenti di spesa) non possono che essere, in gran parte, temporanee. La parte del leone (10 miliardi) la fa la conferma – ma (sembra) solo per un altro anno – dei tagli dei contributi sociali introdotti dal governo Draghi e ampliati l’anno scorso. C’è poi l’unificazione dei primi due scaglioni dell’Irpef (che sembrerebbe finanziato “fuori manovra” dal tesoretto, temporaneo, accumulato nel Fondo per la riduzione della pressione fiscale): si pagherà il 23% fino a 28.000 euro di reddito (e non più 15.000 euro), ma, anche qui, la riforma vale solo per un anno. Da notare che, per evitare che il taglio delle aliquote sul secondo scaglione beneficiasse anche i redditi sopra i 28.000 euro, si è ridotto l’accesso dei percettori di tali redditi a deduzioni di diverso tipo. Insomma, la classe medio-bassa e media sostiene sempre di più il peso del fisco. Ci sono 5 miliardi (questi sembrerebbero stabili, almeno in parte) per il rinnovo degli stipendi dei dipendenti pubblici esclusa la sanità. Ci dovrebbero essere altri interventi vari per 6 miliardi, parte dei quali dovrebbero andare all’estensione solo per il 2024 di quota 103, rinviando ancora una volta quello che il governo aveva annunciato di volere, ossia un superamento della riforma Fornero. Poi si arriva al dolente capitolo della sanità. Il governo stanzia 3 miliardi di cui 2,3 per aumenti salariali. Questo porta il finanziamento del servizio sanitario nazionale a 136 miliardi. E nella conferenza stampa la Premier Giorgia Meloni ha fatto notare che questo è il valore più alto mai raggiunto in Italia: altro che tagli alla sanità! Ora, come si fa a non notare, spiega il Prof. Carlo Cottarelli che: “con l’inflazione che abbiamo avuto chiunque capisce che citare la cifra in miliardi per valutare l’adeguatezza dei finanziamenti alla sanità è sbagliato. Con 136 miliardi nel 2024 non ci si comprano le cose che si compravano nel 2019 con 116 miliardi. Occorre aggiustare la spesa in miliardi per l’aumento dei prezzi. Se si fa questo si vede che la spesa sanitaria nel 2024 scende, in termini di potere d’acquisto, dell’1,5%. Questo segue al taglio del 2,7% operato da questo governo nel 2023. Ecco, quindi, che si tratta di un taglio cumulato del 4,1%, come dire 5-6 miliardi in meno per la nostra sanità. Rispetto al totale delle risorse disponibili, cioè in rapporto al Pil, la spesa sanitaria scende al 6,4%, minimo in precedenza toccato nel 2007 (in un periodo però di tendenziale crescita del rapporto) e nel 2019 (primo governo Conte, quello Cinque Stelle-Lega). Anche questo è un aspetto di precarietà, ma in termini di servizi pubblici forniti”. E’ una manovra da coperta corta e per quasi due terzi in deficit, che si aggiunge alla bancarotta sui migranti, alla palla in tribuna sul salario minimo, alla chiusura sui finanziamenti alla sanità pubblica: a ridosso del primo anniversario il consuntivo del governo è sotto gli occhi di tutti. Se luna di miele c’è stata adesso pare archiviata assieme al caldo anomalo di questo inizio autunno. Ora anche per il Governo Meloni è iniziata la stagione dove scaricare i fallimenti su quelli di prima non funziona più. Ci proveranno comunque, almeno sino alle elezioni europee mescolando insulti a vittimismo, ricetta collaudata da ogni maggioranza in affanno… La realtà, però, è diversa. L’Italia rischia una condizione simile a quella del novembre 2011 e per capirlo bastano un paio di numeri partendo proprio dalla legge di bilancio. A consuntivo sarà di 24 miliardi, quasi 16 in deficit, il che vuol dire nuovo debito da vendere. Il governo spiega che l’anno prossimo la crescita sarà dell’1,2 per cento, dato sovrastimato di mezzo punto rispetto alla media delle previsioni, e giura che sarà frutto di un aumento dei consumi. In verità nessuno può offrire certezze simili. Non lo può fare la proroga per un solo anno al taglio del cuneo fiscale e tanto meno i sacrifici nell’erogazione di servizi essenziali. Resta infatti il nodo rappresentato dal costo del debito. Tre anni fa pagavamo 57 miliardi di interessi, quest’anno saranno più di 80 e nel 2025 saliranno ancora di alcune decine di miliardi. In altre parole, Palazzo Chigi sta imboccando un sentiero drammatico per la tenuta in riga di welfare, pensioni, stipendi. Con queste proiezioni e senza modificare la pressione fiscale (anzi, con i 14 condoni cumulati e una soglia più bassa del contrasto all’evasione), nel 2026 potrebbe rendersi necessaria una riduzione della spesa pubblica nell’ordine di decine di miliardi. Il punto è che davanti a questi numeri la destra parla di una spending review di 2 miliardi e un piano di privatizzazioni per altri 22 senza spiegare in cosa dovrebbe consistere. Ecco perché evocare l’ennesimo governo tecnico non credo sia solo un’arma di distrazione. Penso che quella provocazione (o suggestione per alcuni) nasca anche dal rischio che un debito giunto a sfiorare i tremila miliardi e che non è più protetto dagli acquisti della Bce e dalle deroghe al patto di stabilità possa finire letteralmente fuori controllo. A quel punto la destra potrebbe trovarsi davvero nella necessità di compiere una macelleria sociale colpendo i soliti noti (lavoro dipendente, precari, pensionati), e salvando una volta di più gli interessi del loro core business (flat tax, condoni, rendite). Per tutto questo se non vogliamo che il discorso sui governi tecnici trovi consenso anche tra quanti a parole negano qualunque spiraglio è giustissima la battaglia su salario minimo e sanità, ma la fotografia impone di dire una verità: senza una riforma fiscale profondamente redistributiva una via di uscita dal tunnel dove questo governo ha contribuito a portare il Paese semplicemente non esiste. Senza quella leva le stesse richieste dell’Opposizione (Pd in testa) sul presidio di servizi essenziali e universalistici non avrebbero dove reperire le risorse necessarie. A questo punto, penso che è proprio sul piano economico della situazione italiana che si possa accelerare la costruzione di una alternativa di governo e lo si debba fare con un’alleanza che vada ben oltre alle singole sigle di rappresentanza politiche e sociali, per altro condizionate dalla campagna delle europee, in modo che si realizzi una saldatura tra il mondo dei lavori e l’impresa che innova e compete nella legalità. Su questa base spiegare nel Parlamento e nelle piazze perché tocca a qualcun’altro di questo dire noi “siamo pronti” a raccogliere la sfida in un rapporto diretto col paese e fuori da qualunque scorciatoia tecnica… Infine, se questo è lo scenario trovo siano infantili le critiche che da alcune parti sento rivolgere alla segretaria del Pd e quindi all’intero partito democratico. La realtà è che oggi c’è tutto l’interesse a rendere più debole un partito percepito come il baricentro dell’alternativa di governo… ma questo non lo si fa architettando a tavolino nuove alleanze interne (leggasi le disponibilità di Renzi) ne esterne in Europa con la destra della destra, con una riedizione di pratiche antiche e ormai un po’ logore. Oggi abbiamo bisogno di uno schieramento dellOpposizione all’altezza della sfida che la destra estrema ha lanciato alle culture liberali, riformiste e della democrazia e che dopo l’esito positivo del voto in Spagna e due giorni fa in Polonia troverà nelle urne del giugno prossimo una verifica decisiva… Debbono farlo perché l’avversario politico è una destra reazionaria nostalgica del tempo peggiore, cinica al punto da abbracciare in Germania gli eredi del nazismo. Se abbiamo chiaro questo, capiamo perché costruire l’alternativa al governo Meloni diventa il più solido presidio di civiltà, cultura e speranza per il dopo. Un ultimo punto da sottolineare sul piano economico. La precarietà non è negativa solo in termini di conti pubblici. Infatti, un taglio temporaneo del cuneo fiscale ha un impatto economico sul lato dell’offerta molto inferiore a un taglio permanente perché le imprese vanno a investire dove tasse e costo del lavoro sono permanentemente bassi, non solo per un anno salvo rinnovi… Insomma, per aumentare il nostro potenziale di crescita servono riforme permanenti non interventi temporanei.

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