Politica: Una nuova leadership per un Mondo che cambia purtroppo in peggio. Per una vera politica di Pace abbiamo un serio problema di leadership…

La crisi economico-finanziaria del 2008 prima, poi la pandemia e gli effetti geopolitici ed economici della guerra in Ucraina, iniziata a febbraio 2022 e ancora in corso , infine, da poco più di un mese e mezzo la riesplosone del conflitto israeliano-palestinese rendono sempre più evidente la crescita di complessità della realtà politica interna e internazionale in cui viviamo. La complessità nasce oggi, da un alto livello di interconnessione e di interdipendenza delle variabili economiche, sociali e politiche che determina l’insorgere di effetti – le cosiddette “emergenze” (nel senso di “emergere”) non prevedibili a priori, soprattutto da modelli di pensiero e azione di tipo lineare di un passato che non si replica di questi tempi. In un contesto come questo, la ricerca di soluzioni politiche interne, in un orizzonte temporale di breve durata, rischia di generare impatti sistemici molto negativi dentro i propri confini, ma soprattutto a livello globale sempre più spesso i vari leader locali, restano sorpresi dalle conseguenze non intenzionali proprio delle loro azioni e strategie. Ciò avviene perché si cade nell’errore di considerare stabile uno scenario che in realtà è sempre più complesso e in continua evoluzione. Si pensi, ad esempio, alle scelte compiute da alcuni Governi sulle fonti energetiche dove il cambiamento è reso difficile dai costi dello stesso… Molti quindi i motivi che portano a confliggere tra Stati e Continenti. Mentre è tutto il Mondo che ha sempre più bisogno di Pace e stabilità. Per raggiungerle, servono leader capaci, convinti e pacifisti. Vediamo invece, impadronirsi della politica nazionale e/o internazionale personaggi affamati e vogliosi solo di guerra, desiderosi di costruire il loro potere personale o di Clan, sulla rovina dei loro popoli, inventandosi continui nemici più o meno esistenti, che non considerano la pace una reale alternativa. Dall’Ucraina alla Palestina, dall’Africa al Kosovo, ovunque emergono tensioni mentre politici militaristi e guerrafondai conquistano l’opinione pubblica per lanciarsi in guerre devastanti che causano un numero spaventoso di morti. Violenze che ogni giorno popolano le comunicazioni mediatiche e invadono l’immaginario collettivo, sia di noi adulti sia di adolescenti e bambini. Ascoltiamo messaggi che parlano alla pancia delle persone, alle loro emozioni più arcaiche e ancestrali. Quasi a voler fare leva sul cosiddetto cervello rettiliano, quell’area, individuata da Rita Levi Montalcini, che controlla il comportamento umano e che, non passando dal filtro della corteccia prefrontale, implicata, tra le altre cose, nella moderazione della condotta sociale, porta direttamente ad azioni brutali che vedono la necessità di affrontare la minaccia in termini puramente distruttivi invece che cercando la pace. I micidiali totalitarismi del Novecento basarono la loro manipolazione proprio su queste componenti ancestrali. Come chi fa del nazionalismo una clava da brandire contro “gli altri”, una sorta di lotta tutti-contro-tutti davvero devastante. Anche i leader della Comunità Europea sono incappati in questo equivoco, incaponendosi sul mito della vittoria a tutti i costi e scartando a priori le possibilità di negoziazione, di accordo, di tregua. Ma la vittoria a tutti i costi è guerra a oltranza, morte senza possibilità di ritorno. Il mondo si sta come involvendo in una spirale che rischia di portare all’autodistruzione se le minacce nucleari venissero messe in atto. Bisogna ritornare al concetto di politica come capacità di composizione di interessi diversi e non di sopraffazione reciproca. Abbiamo bisogno di ritrovare quelle leadership che storicamente hanno saputo proporre un immaginario di pace e di riduzione della tensione. Dal 24 febbraio 2022 – giorno dell’attacco della Russia all’Ucraina – sul tavolo del mio studio, ho appoggiato la biografia di Gandhi che ho tolto dalla libreria, per ricordare prima di tutti a me stesso che esiste nella nostra storia recente anche la possibilità di resistere con la nonviolenza piuttosto che con le armi. In un modo non solo più efficace ma anche meno distruttivo sul piano della perdita di vite umane. È triste constatare come oggi siamo orfani di leadership benevole come quelle di Nelson Mandela e di Martin Luther King. O di quelle personalità come Lech Wałęsa, Willy Brandt e Alcide De Gasperi che hanno consentito all’Europa di trovare uno spazio di convivenza dopo due guerre mondiali, un risultato straordinario nella storia dell’umanità. Occorre che l’opinione pubblica sostenga a livello mondiale personalità che sappiano proporre una via per la pace, un percorso di incontro e di trattativa per la riduzione della violenza. La guerra non risolve nulla, il ritorno dell’arcaico occhio per occhio dente per dente a cui stiamo assistendo in questo periodo, non conduce a nulla di buono. L’odio costruisce odio. La violenza porta ad altra violenza. La guerra genera solo morte. Abbiamo bisogno di Pace. Non si tratta solo di richiamarci alle grandi esperienze di resistenza nonviolenta, passate e presenti – come ha fatto Narges Mohammad, Nobel per la pace 2023, ma anche di ricordarci, da italiani, dell’Articolo 11 della nostra Costituzione. L’Italia può diventare un punto di riferimento per una leadership mondiale che rifiuti la tribalità del “ti ammazzo prima che tu mi possa ammazzare” e sappia costruire i percorsi di riconoscimento reciproco nei quali ci possano essere dialogo, comunicazione e cambiamento… Come possiamo aiutare i leader a essere più efficaci in un contesto incerto? Sicuramente introdurre e sviluppare competenze di geopolitica è certamente importante, perché aiuta i leader ad avere una prospettiva evolutiva della realtà entro cui si muovono che è sempre più interconnessa e che deve necessariamente spaziare oltre i confini nazionali. Siamo abituati a pensare che le principali caratteristiche dei leader siano il carisma, la capacità di ispirare le persone e di influenzarle. In un Mondo sempre più interdipendente, queste caratteristiche diventano accessorie. Sono utili ma non distinguono un leader efficace da uno che non lo è. Consideriamo forte il leader che ha un forte seguito, appare è sicuro di sé e trasferisce questa sicurezza e la sua visione della realtà agli altri. In realtà, leader siffatti rischiano di adottare schemi di azione e strategie che sono più il frutto delle proprie convinzioni e best practice personali. Il loro approccio rischia di diventare ideologico e di generare effetti negativi sul sistema che devono governare. Esercitare una leadership efficace in mondo complesso richiede la propensione a muoversi in ottica di “bene comune” e lo sviluppo di due competenze fondamentali: la capacità di comprendere il contesto in cui ci si muove (context reading), di plasmarlo (context shaping). Muoversi in un’ottica di bene comune per un leader non rappresenta una scelta meramente etica. In una realtà interconnessa consente di adottare strategie che riducono i potenziali impatti negativi sul sistema e favoriscono una traiettoria positiva di evoluzione. A tal fine, i leader necessitano di ancorare le proprie azioni al reale contesto che stanno affrontando e alla sua potenziale evoluzione non facendosi influenzare da bias e visioni ideologiche della realtà. In questo senso la geopolitica rappresenta un abilitatore fondamentale per lo sviluppo di context reading. Il modello culturale di reale esercizio della leadership è tuttora quello di una persona al comando e una schiera di follower che la seguono. I concetti di leader e leadership sono dunque ancora associati a caratteristiche quali il carisma, la capacità persuasiva, l’assertività e la rapidità di azione e decisione. Tutte abilità non più idonee a governare la realtà complessa in cui le organizzazioni sono immerse. L’esercizio della leadership in contesti complessi deve dismettere le vecchie logiche di controllo e farsi saggia. Si potrebbe dire che più che di leadership abbiamo bisogno di saggezza. Infatti, osservando le vicende internazionali e anche le modalità di gestione di molte aziende, è impossibile non notare una significativa mancanza di saggezza. La leadership deve pertanto essere una «wise leadership». Esercitarla significa sviluppare consapevolezza di sé (dei propri limiti e delle proprie conoscenze) e del contesto in cui si opera. La wise leadership si fonda su quattro abilitatori: la predisposizione a privilegiare l’azione orientata al «bene comune»; la comprensione del contesto in cui si agisce; la capacità relazionale, quindi l’inclusione e l’apertura agli altri; la costante attenzione alla dimensione temporale e dunque agli effetti delle proprie azioni nel futuro. Adattarsi al contesto però non è sufficiente. Le azioni dei leader devono essere generative, devono plasmarlo per creare le migliori condizioni per il raggiungimento dei risultati e per la loro sostenibilità nel tempo. Si pensi a come cambierebbe il mondo se a capo dei principali governi nazionali ci fossero leader con tali competenze. Non stiamo parlando di affidare la leadership a idealisti che disegnano un mondo utopico, ideologico e irrealizzabile, bensì ad architetti del futuro, consapevoli dei propri limiti, che lavorano per far emergere le migliori energie e orientare le strategie verso la sostenibilità e l’evoluzione della realtà entro cui operano… Quando i leader concepiscono la gestione politica come un gioco definito o addirittura ‘finito’, accrescono le probabilità che il gioco finisca davvero. Abbracciare invece la complessità della politica significa, al contrario, riconoscerne il movimento, l’evoluzione e quindi gestire un Paese con un continuo dualismo tra presente e futuro, tra effetti di breve e di lungo periodo, tra risultati e sostenibilità degli stessi…

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