Parte terza…
Quella che Elly Schlein ha introdotto come proposta è quella di un partito che unisca le battaglie contro le disuguaglianze distributive con quelle miranti a contrastare altre forme di oppressione… Quando parliamo dunque del Pd e dei nostri tanti problemi… parliamo del Pd condotto da Elly Schlein, perché spero che ci siamo tutti convinti che in questo anno la Segretaria ha saputo mostraro carattere, piglio assieme a serietà e competenza. E se ascoltata con il dovuto rispetto e attenzione, cade anche la caricatura del: “non si capisce, quel che dice”. Altroché se si capisce quel che dice, dentro come fuori del partito. Ora il partito deve affrontare subito il grande problema della funzionalità della sua organizzazone, ovvero chiarire cosa occorre cambiare per potersi aprire ai cambiamenti sociali e alle priorità politiche del momento, rendendosi attraente per la costruzione di un forte schieramento democratico d’opposizione all’attuale governo delle destre… Personalmente credo che dopo il risultato elettorale della Sardegna e il risultato elettorale in Abruzzo… si chiudano definitivamente nel nostro dibattito politico in corso da troppo tempo sulla “vocazione maggioritaria” e sulla dimensione del “campo largo”, perchè non sono che parole, o meglio degli slogan privi di un reale senso, se la nostra discussione e la nostra azione non si focalizzano pur nel continuare a discorrere di “alleanze” tra opposizioni diverse, tema sicuramente centralele, guardando alle cose che uniscono più che a quelle che dividono, ma occorre capire perché la gente (ce ne di nostra) non va più alle urne e cosa fare per riportarcela. Altrimenti il nostro discorso di essere l’alternativa a questo governo autocratico e autoritario della Meloni, resta decisamente insufficiente… “Capocrazia” titola l’ultimo libro di Michele Ainis, noto costituzionalista. Vi si trova scritto: “Ma il rischio maggiore è questo: che il nuovo abito della democrazia italiana ci venga cucito addosso senza interpellarci, senza una prova di sartoria per capire se s’adatta al nostro corpo. E senza l’esatta percezione della posta in gioco, di ciò che cambia, di ciò che invece si conserva. Cerchiamo dunque di vederci chiaro”. Innanzi tutto, io penso, che vadano evitate alcune reticenze sullo stato attuale del partito democratico. Noi, oggi, non siamo in grado e fatichiamo molto a dare risposte efficaci a questo attacco alla nostra democrazia. “Lo scontro politico di adesso ha una natura diversa. Con una destra che nella miscela tra forma dello Stato (l’autonomia differenziata) e forma di governo (il premierato) punta a una rivalsa precisamente nei confronti di quell’impianto. Di più: punta a sradicare le radici storiche che quell’impianto hanno reso possibile”. Scrive Gianni Cuperlo su Domani. E noi non riusciamo nemmeno più ad intercettare e far percepire questo pericolo all’intero corpo del partito democratico. Inoltre, c’è un secondo elemento mancante: è un’idea di Paese chiara, almeno quanto quella della destra. Che sappia mettere d’accordo tutto il ‘campo dell’opposizione’ o almeno un pezzo realmente consistente dello stesso. Che sia riconoscibile da tutti, che non si debba stare a spiegare in complesse piattaforme programmatiche. Ma su questo ritorno più avanti… Le elezioni del 25 settembre di due anni fa, sono state uno dei risultati più drammatici per il centrosinistra italiano, che, come coalizione, non risulta pervenuta. Anzi, il Pd, che è o per dire meglio dovrebbe essere la parte fondamentale di una coalizione alternativa alla coalizione della destra, oggi al governo del Paese, pur non avendo perduto voti in percentuale assoluta a differenza di Lega, Forza Italia e Cinque Stelle è considerato il primo e forse unico perdente. Perdente addirittura in partenza, perché è stata assente e continua ad esserla, la sua capacità politica di costruire alleanze che possano vincere. Enrico Letta per questo ha dato le dimissioni, dopo le ultime elezioni politiche, da Segretario Pd e indetto il Congresso. Ma la domanda era prima e purtroppo resta ancora oggi all’indomani del Congresso se: “si può costituire un’alleanza, una coalizione, senza una precisa ed evidente linea politica da parte del partito, che dovrebbe esserne il promotore?” E il Congresso durato ben 6 mesi dello scorso anno, alla fine, ha evidenziato un’altra più precisa domanda: “il Pd è in grado, così com’è strutturato, di esprimere una nuova e definita linea politica?” Si, certo, non c’è alcun dubbio che il Pd è il partito maggiore di opposizione, ma da solo non basta, sono necessarie anche le altre forze di opposizione. Solo noi abbiamo una struttura di partito in termini di presenza territoriale, procedure e complessità organizzativa. Ma questo proprio alla luce dei risultati del Congresso ha portato ad ulteriori questioni: sulla possibilità di riformare un partito senza modificarne la sua organizzazione interna, su come i suoi aspetti organizzativi e gli organigrammi influiscano sulla sua politica. Il partito è organizzazione. Organizzazione di interessi ed elaborazione di politiche. Ma è anche organizzazione tout court. Organizzazione di persone, di pratiche e risorse. Come si decide? Chi decide cosa? Chi agisce? A questo punto passato un ulteriore anno dalla fine del Congresso, la mia tesi di fondo, avendone come iscritto, passo dopo passo, percorso tutto il complicato percorso, compresa l’ultima fase delle elezione dei coordinatori di circolo nei municipi delle città metropolitane, alla luce dei risultati esterni e interni del partito, è che una riforma o meglio la ri-costituzione del Partito democratico e della sua piattaforma valoriale e politica, non è possibile se non si pensa prima in maniera profonda e sistemica, a una riorganizzazione strutturale del Pd medesimo – sebbene non sia sufficiente. Perché occorre sapere che i contenuti sono e saranno sempre influenzati e limitati dalla nostra forma organizzativa… Diciamocelo francamente. Il Partito democratico, con organi organizzativi e decisionali ‘elefantiaci’, sembra aver seguito sempre e solo una logica interna di rappresentare tutti per far posto a tutti e non scontentare nessuno. Ma dietro al mantra “la differenza è una ricchezza” si celano problemi strutturali. Per non perdere questa presunta ricchezza si fa posto pro-quota a ciascuna componente o corrente che dir si voglia, negli organi dirigenti, a partire dai circoli che poi, a valanga, trasmettono numeri e componenti negli organismi provinciali, regionali e infine nazionali. Può anche sembrare questo, seppur imperfetto, un metodo democratico, se non fosse che in realtà, il percorso non è dal basso verso l’alto, ma viceversa, perché sono i “capi” corrente nazionali, che tengono le fila di questa organizzazione e che sostanzialmente, si perpetua in una progressiva ossificazione del partito stesso. Fatemelo dire: scegliere di non gestire i conflitti interni e le proprie contraddizioni attraverso l’istituzionalizzazione dell’ambiguità – grazie a procedure organizzative arzigogolate – tende solo ad accentuare l’ineluttabilità del conflitto e un violento sfibramento dell’organizzazione stessa. I numeri enormi degli organi centrali e le loro relative dinamiche rischiano di portare a effetti nefasti non solo per la produzione di idee e posizionamenti politici, ma anche per la selezione della classe dirigente. Il rischio alla fine è sempre quello di mandare via e non attrarre intelligenze ed energie che sono refrattarie a procedure definite da complicate liturgie che si esplicano entro perimetri e percorsi rigidi. Che le persone indotte ad attraversare procedure e percorsi estenuanti le si prendano per stanchezza o per i fondelli, il risultato è lo stesso: in entrambi i casi il Pd ci perde. Dunque, l’organizzazione non solo influisce sui contenuti ma anche su chi vuole far parte del partito stesso. Invece, il Partito democratico deve pensare a come gestire e organizzare il proprio conflitto interno: e non deve essere timido e temere che questo conflitto possa fare male al Pd stesso. Finora, tuttavia, ha fatto l’opposto e ha creato e mantenuto un’organizzazione complicata e ciclopica dove tutti appaiano rappresentati, ma dove è quasi impossibile produrre decisioni senza ambiguità. E questa volta ha superato sé stesso avendo mantenuto ben due Manifesti dei valori. Se l’organizzazione è troppo complessa ed elefantiaca il conflitto fra tesi e politiche diverse non è possibile in maniera trasparente e costruttiva. Le scelte, quelle importanti, verranno prese alla fine sempre da pochi che per qualche ragione – non cristallina e di dubbia legittimità – contano di più di altri. Il Pd non può più pendolare fra unanimità di facciata e situazioni emergenziali: le procedure decisionali e gli aspetti organizzativi del Pd – chi e come discute? Chi e come decide? Chi e come agire? devono essere discussi e semplificati. Credo fortemente che per modificare il modo di fare politica occorra anche ripensare la dimensione degli organi rappresentativi, la loro composizione e, ad esempio, fondare un centro studi del Partito democratico per migliorare il chi e come si discute nel Pd. Le idee di un partito e le sfide che deve affrontare hanno bisogno di un’infrastruttura organizzativa per lo studio e la creazione di proposte. E per formare una classe dirigente. Non si può delegare totalmente la produzione di conoscenze e di politiche da intraprendere a think tank esterni (nel miglior dei casi). Sono esistite nella Sinistra e nel Pd esperienze fruttuose su alcune tematiche nel creare analisi e proposte, ma sempre grazie all’impegno e alla generosità di alcuni individui, anziché organizzare strutturalmente risorse, metodi e diffusione delle analisi e proposte. Suggerisco di ripensare criticamente anche alle “primarie”, la procedura che apparve come grande soluzione ai problemi decisionali del Pd ed è ancora onnipresente nello statuto del Pd. Primarie che dovrebbero essere usate per decidere l’individuazione a candidato presidente del consiglio (art. 5, comma 3), la seconda fase della candidatura segretario nazionale (art. 12, comma 2), i candidati alla carica di sindaco e presidente di Regione (art. 24) e la selezione di candidature per le Assemblea rappresentative (art. 25). Le primarie non possono essere la scorciatoia organizzativa per risolvere difficoltà decisionali e i possibili conflitti di chi e come si decide. Segreteria e Direzione nazionale ridimensionate – e in coordinamento con segreterie regionali – dovrebbero discutere, decidere ed agire. Una Segreteria che dovrebbe avere non più di 20-30 membri e non deve rappresentare solo le anime del Pd, ma avere le migliori intelligenze e affermarsi per le proprie idee e non per la loro appartenenza a una certa cordata. Non si fanno le politiche attraverso le primarie ma attraverso lo studio, la discussione e il coraggio delle scelte di una Segreteria. È necessaria una Segreteria che svolga il ruolo di “governo ombra” dove esperti – con un supporto adatto – contrastino le proposte di un governo di destra e formulino chiare alternative su questioni centrali, dalle politiche economiche alla politica estera sempre. Suggerisco che il ruolo dei circoli territoriali debba ritornare il perno del Partito democratico del chi e come agire. Ma bisogna ripensare al ruolo dei circoli locali Pd, e anche al numero per poterli supportare realmente sia economicamente che organizzativamente. Fornendogli altresì anche materiali prodotti dal centro studi e dai livelli territoriali superiori, che grazie a un confronto sistematico e più intenso con le Segreterie su fino alla Direzione del Pd, permetta una elaborazione generale interiorizzata sia della linea politica generale del Partito che delle linee organizzative. Centinaia di circoli, separati l’uno dall’altro, impegnati in asfittiche iniziative di zona di territori e città dalle diverse dimensioni, risultano spesso dispersive e insignificanti, e non possono essere la sola dimensione che viene lasciata di fatto ai militanti e agli iscritti… Alla fine, non resta che prendere atto che, in questi anni, il Partito democratico ha di fatto istituzionalizzato l’ambiguità nel non affrontare i propri conflitti interni, finendo anche a non poter gestire i conflitti del Paese, e perdendo via via consenso (6 milioni di voti quelli persi) tra i suoi elettori, costringendo sé stesso a una politica di pura sussistenza. Il Pd, partito che dovrebbe essere centrale del possibile schieramento progressista viene attaccato com’è prevedibile dalla destra, ma anche da tutti gli altri: dal M5S e da Azione e Italia Viva e da altri “cespugli” della Sinistra. Che dire infatti, delle vere e proprie risse, che le c.d. forze di opposizione, ingaggiano ogni qual volta, bisogna trovare un candidato/ta per la Presidenza di una regione e/o di un comune cittadino. Altro che dopo la Sardegna è cambiato il vento. Purtroppo, la settimana dopo in Abruzzo aveva già smesso di soffiare. Scordandosi che l’imperativo è di unire un fronte da contrapporre allo schieramento di destra che presenta o riconferma i propri candidati, forte di avere in mano il governo centrale e aver fatto una massiccia occupazione ‘manu militare’ di ogni ganglio di potere nel Paese. Se si continua così nel centrosinistra, non dando ascolto al prof. Romano Prodi che ci strilla: “Mettetevi d’accordo o continuerete a perdere. C’è chi vuole solo distruggerci!”. Arriviamo così alle prossime elezioni in Basilicata (si vota ad Aprile) che già urlano ‘vergona!’ Tra autocandidature presentate e poi ritirate per poi ripresentarle per poi ritirarle definitivamente. Siamo giunti all’ennesimo e tardivo “cerotto” di un candidato alla presidenza della regione che vada bene a denti stretti a tutti quanti. Piero Marrese candidato del centrosinistra a presidente della regione Basilicata. Queste scadenze elettorali che precedono di qualche mese le elezioni europee e rispetto a quella scadenza, fanno intravvedere le nostre difficoltà oltre che, per tracciare con qualche autorevolezza il perimetro delle alleanze post voto, anche per l’individuazione e il sostegno di un unico candidato nelle elezioni regionali, e/o comunali. Così come difficile è individuare candidati credibili per comporre le liste del Pd nelle varie circoscrizioni per le europee. D’altronde nelle elezioni europee non siamo aiutati dal voto proporzionale per cui ogni partito e/o movimento vuole lasciarsi le mani libere su tutto e tra tutti, ignorando la principale esigenza di formare come già detto uno schieramento unitario da contrapporre al crescere della destra italiana e anche di quella continentale; dove assistiamo a uno scivolamento a destra che di fatto è già avvenuto, nei singoli Paesi e lungo molteplici direttrici. Si tratta prima di tutto di una battaglia culturale oltre che politica, che sta già avendo luogo, e che la Destra se non ha già vinto, perlomeno stà già vincendo… Il rischio è sottovalutare derive e processi già in atto da anni, che stanno progressivamente arrivando a maturazione in tutti i pezzi di qusto puzzle chiamato Europa. Ma, vediamo quello che alla fine potrebbe succedere dentro il Pd se il risultato che il partito troverà in occasione delle elezioni europee fosse deludente (una percentuale poco meno sotto il 19%) con tutta probabilità potrebbe succedere di rimettere in discussione tutto quanto fin qui fatto, per tenere unito il Partito democratico. Magari attraverso un’ennesimo Congresso, per cercare un nuovo segretario con cui sostituire l’attuale. O chissà che altro di terribile ci potrebbero far fare quei risultati. Dopo il corpo a corpo già in corso nel partito tra correnti e personalismi su candidature per la lista Pd alle europee guardando contemporaneamente alle alleanze future tra noi e le altre opposizioni… Una discussione, cui come sempre parteciperanno i soliti noti… lasciando le questioni esiziali dei contenuti di linea politica e di riassetto organizzativo del partito ancora nell’angolo… Il rischio è che l’attuale affondo che la destra sta portando con l’ennesima riforma costituzionale con l’autonomia differenziata e il premierato e le sue contorsioni autoritarie in corso, in nome dei falsi miti di governabilità, di stabilità e moderatismo, in parte già attuati dal Governo Meloni. Avendo accentrato il potere legislativo con quello esecutivo, e così esautorando il ruolo del Parlamento attraverso la decretazione d’urgenza. L’interrogativo principale resta quindi: riuscirà il Pd ad essere il partito protagonista per promuovere e costruire una grande mobilitazione popolare che abbia al proprio centro tanto la difesa quanto la piena attuazione della Costituzione repubblicana e antifascista, che ancora oggi è per molti versi disapplicata… e che sotto il forte attacco dalle destre italiane e continentali rischia di istaurare nel Paese un governo autocratico e autoritario. Ciò diventa sempre più chiaro anche visto i rischi che corriamo nei prossimi anni. Infatti, abbiamo di fronte probabilmente un decennio che sarà unico, per incertezze e turbolenze politiche economiche e sociali, rispetto propri ai rischi di un ridimensionamento se non addirittura della perdita delle istanze di democrazia… qui da noi, come nel continente europeo, come più generalmente e più complessivamente nell’intero Globo… Credo che dovremmo, ma ho dubbi a riguardo, essere sicuri che nel partito l’intero nostro gruppo dirigente abbia almeno coscienza di ciò… è importantissimo che lo sia! Un decennio unico, lo definisce così il World Economic Forum. E se, nel breve periodo, la principale minaccia sembra essere la disinformazione, nel lungo termine i rischi globali percepiti come più impattanti sono tutti di carattere ambientale: dagli eventi metereologici estremi alla perdita della biodiversità… sapendo che negli ultimi anni si sono verificati fatti straordinari con ripercussioni economiche, finanziarie e sociali di grandissimo impatto: dalla pandemia alla guerra in Ucraina, dal ritorno dell’inflazione all’incremento dei tassi di interesse al più recente conflitto israelo-palestinese. Tutti fenomeni che alimentano il clima di incertezza globale influenzano l’andamento dei mercati finanziari con difficoltà sulle scelte di allocazione dei patrimoni istituzionali e dei relativi profili di rischio e rendimento. Una somma di rischi vecchi e rischi nuovi. I rischi “vecchi”, come il ritorno dell’inflazione, le tensioni geopolitiche, il timore per una possibile recessione, si mescolano con rischi “nuovi”, come il livello sempre meno sostenibile del debito globale, il cambiamento climatico, l’invecchiamento demografico che sta caratterizzando gran parte del mondo occidentale e industrializzato e anche l’avanzamento tecnologico e digitale, l’insieme di questi fattori converge per l’appunto verso “un decennio unico, incerto e turbolento” che ha due orizzonti: il primo a due anni e il secondo appunto a dieci anni… Per la prima volta al primo posto nella graduatoria dei principali problemi che il mondo dovrà fronteggiare entro i due prossimi anni c’è la disinformazione, intesa non solo come connessa ai rischi legati all’intelligenza artificiale e alla facilità con cui si possono diffondere le fake news attraverso i Social. Noi a riguardo come partito non abbiamo un progetto comunicativo che unisca il livello informativo interno con quello esterno del partito medesimo. Con un uso inutile e schizofrenico di varie chat che circolano spesso articoli già letti, e notizie social senza alcuna verifica di veridicità… ci vorrebbe ben altro. Ma c’è altresì il fatto che il 2024 si configura come il più grande anno elettorale di sempre, in cui saranno chiamate al voto oltre 4 miliardi di persone: dagli Stati Uniti all’India, sono ben 76 i Paesi che andranno alle urne con esiti che potrebbero ridisegnare gli equilibri politici e sociali a livello globale… E secondo l’Economist però, su 71 Paesi considerati dal Democracy index, solo 43 avranno elezioni pienamente libere e democratiche, tra cui i 27 Stati dell’Unione europea, (nei 27 ricordiamoci viene conteggiato anche Orban, mi domando con quale criterio?) mentre gli altri 28 non soddisfano le condizioni di base per parlare di votazioni davvero libere e giuste. Al settimo posto della classifica a breve termine si posiziona, invece, il primo rischio di natura economica, è l’inflazione. E le future mosse di politica monetaria delle Banche Centrali, che hanno avuto esperienza di quanto sia complicato anticipare il ciclo economico, dipenderanno infatti anche dalla partita inflazione, il cui andamento, seppure in discesa, resta ancora al di sopra del target desiderato individuato nel 2%. Nelle ultime riunioni FED e BCE hanno deciso di interrompere il ciclo restrittivo, mantenendo il livello dei tassi inalterato. La discesa dell’inflazione e la pausa sui tassi che prelude al cambio di strategia delle politiche monetarie favoriscono le condizioni per un rilassamento nei mercati finanziari che si aspettano un primo taglio a partire da giugno 2024. Tuttavia, i banchieri centrali ribadiscono di non avere fretta di “tagliare” proprio perché non vi sono certezze sugli scenari futuri e il rischio di imprevedibili nuove turbolenze geopolitiche è alto… Sul termine del decennio, invece, incombono al primo posto gli eventi meteorologici estremi, cui seguono gli effetti più “silenziosi” del cambiamento climatico: dai cambiamenti critici del “sistema Terra” (scioglimento delle calotte glaciali, riscaldamento degli oceani) alla perdita della biodiversità e alla distruzione di interi ecosistemi fino alla carenza di risorse naturali con conseguenti gravi carestie. In altre parole, in una visione di lungo termine, i rischi più severi riguardano la capacità di affrontare le grandi transizioni in atto, una su tutte appunto la transizione ecologica legata al cambiamento climatico. Tendenze di lungo periodo che però sono già qui e se, da un lato, portano con sé il rischio implicito di non essere “a costo zero”, dall’altro possono rappresentare megatrend positivi da cavalcare. Se è vero che la transizione ecologica impone un enorme impegno sul fronte economico, tecnologico e politico, lo è altrettanto che costituisce un’imperdibile occasione di crescita a lungo termine di alcuni settori strategici per il futuro del Paese (infrastrutture, efficientamento energetico, rigenerazione urbana, mobilità sostenibile, economia circolare e così via); la transizione digitale e l’intelligenza artificiale impongono, sì, riflessioni profonde sia in merito all’impatto che avranno sul mercato del lavoro sia sotto il profilo della cybersecurity, ma forse apriranno anche nuove opportunità per le imprese, promuoveranno una società aperta e democratica e contribuiranno a realizzare la transizione verde. Infine, c’è anche da porre attenzione alla transizione demografica, l’invecchiamento della popolazione e i cambiamenti nella composizione familiare non determinano soltanto un maggiore costo per lo Stato e la società in termini di welfare ma rappresentano anche un nuovo modo di concepire il risparmio e gli investimenti, con tutte le opportunità che derivano dalla Silver Economy. Rischi “vecchi” e “nuovi”, dunque, che possono essere governati dagli investitori istituzionali per definire un adeguato profilo rischio/rendimento di portafoglio. Quali strategie di investimento e quali asset class consentono di trasformare questi rischi in opportunità? Concludendo. Mi interrogo con grande preoccupazione, se veramente tutto questo, se di questi temi terremo conto nelle discussioni nel corso della campagna elettorale per le europee… o ancora una volta trascurando gli enormi problemi organizzativi e di funzionalità del partito a partire da ciò che si fa effettivamente nei circoli e al ruolo effettivo che hanno nel partito… di quello che turba e interroga noi iscritti e militanti, quotidianamente impegnati nel partito per poi risalire via via di livello in livello nello stesso partito: Municipio, Città Metropolitana, Regionale e anche Nazionale… c’è conoscenza e coscienza di quanto c’è effettivamente in gioco… e se lo affronteremo politicamente adeguando anche l’organizzazione del partito… o continueremo invece così, come più sopra accennato in una logica di pura sussistenza?
(fine)
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