La fine della Seconda guerra mondiale, per molti, ha avviato un lungo periodo di pace. Decenni nel corso dei quali il fragore delle bombe, il rombo dei caccia e il crepitio delle mitragliatrici sono stati un brutto, lontano ricordo. Si tratta però di una visione estremamente eurocentrica. Nel Vecchio continente, infatti, nella seconda metà del Novecento i conflitti si sono limitati alla guerra fredda, a quella dei Balcani degli anni Novanta, oltreché a problemi territoriali. Ma uno sguardo più ampio, al mondo intero, mostra l’assoluta parzialità dell’osservatorio europeo. Le guerre, infatti, non hanno mai cessato di diminuire dal 1946 ad oggi. E oggi si assiste a una recrudescenza dei conflitti e delle violenze, che, dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia del 24 febbraio 2022, non risparmiano neppure più il nostro, vecchio, continente. Le guerre non sono mai diminuite dal 1946 ad oggi. Come società, politica e tecnologie cambiano i conflitti. Dalle guerre aperte alle dispute territoriali. Quali tipi di conflitti esistono? Il terrorismo armato e le guerre civili. Quante sono le guerre in corso nel mondo? Come saranno le guerre del futuro? Come possiamo costruire un futuro di pace? La maggior parte dei conflitti attuali non oppone stati, come accaduto invece nella prima metà del Novecento, secondo le Nazioni Unite: “Protagonisti, oggi, sono soprattutto milizie politiche, bande criminali o gruppi terroristi internazionali. Le tensioni regionali irrisolte, il crollo dello stato di diritto, l’assenza delle istituzioni, le attività lucrative illecite e la mancanza di risorse ne rappresentano le principali cause. Il tutto aggravato dal peso dei cambiamenti climatici”. A cambiare, assieme ai principali attori delle guerre, è stata poi la natura dei conflitti armati, che si sono rivelati meno mortali (nonostante drammatiche eccezioni come nel caso della Siria), ma più lunghi. Ciò anche in ragione dell’evoluzione tecnologica, “che – proseguono le Nazioni Unite – favoriscono l’utilizzo di armamenti robotizzati, come nel caso dei droni, o i cyberattacchi”. Un contesto che, tra l’altro “mette a dura prova la cooperazione internazionale, nonché la capacità di prevenire e risolvere i conflitti”. Tutto ciò ha provocato una frammentazione delle guerre, con la proliferazione di gruppi armati locali in numerose regioni: dalla Libia alla stessa Siria, passando per il Sahel. Così, i metodi di risoluzione tradizionali delle controverse diventano difficili da applicare, soprattutto quando i conflitti assumono dimensioni ampie. Intrecciando tra loro problemi politici, socioeconomici e militari che travalicano spesso le frontiere geografiche. Il caso dello Yemen rappresenta la più drammatica illustrazione di tale dinamica. Sono già più di 4 milioni le persone che hanno abbandonato l’Ucraina dopo lo scoppio della guerra. La maggior parte di loro si è rifugiata all’interno dei confini europei, in Polonia. Dalle guerre aperte alle dispute territoriali. Quali tipi di conflitti esistono? Ciò nonostante, le guerre “tradizionali”, che potremmo definire “aperte”, non mancano. è il caso, ad esempio, di due o più nazioni che schierano i propri eserciti regolari l’uno contro l’altro. Esattamente come accade tra Russia e Ucraina. La stessa invasione delle truppe di Vladimir Putin, tuttavia, può essere considerata anche nell’ambito di un’altra tipologia di conflitto. Ovvero le dispute territoriali. È noto infatti come, per lo meno ufficialmente, Mosca rivendichi di fatto la provincia del Donbass, dopo aver puntato già all’annessione della Crimea. I progressi nel settore dell’intelligenza artificiale e l’uso delle stampanti 3D possono facilitare gli attacchi biologici. La stessa intelligenza artificiale ha permesso di adottare armamenti autonomi letali. Si tratta di sistemi che possono attaccare un obiettivo senza intervento umano. Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha chiesto che le armi totalmente autonome siano vietate dal diritto internazionale. Le nuove tecnologie permettono inoltre di fabbricare le cosiddette notizie “deepfake”. Si tratta di video apparentemente autentici nei quali si può vedere un soggetto affermare concetti in realtà mai pronunciati. In questo modo si punta a dividere il fronte nemico e a generare instabilità politica. Le dispute territoriali sorgono infatti nei casi in cui alcune porzioni di territorio sono contese da nazioni o da gruppi etnici o politici. Si tratta di conflitti che, a volte, possono provocare semplici violenze, ma che in altri casi possono sconfinare in guerre aperte. È quando accaduto nel corso del 2021 tra Armenia e Azerbaigian per la regione del Nagorno Karabakh. Ma i casi di conflitto legati al controllo del territorio non mancano nel mondo: i curdi considerano propria una regione (il Kurdistan) che abbraccia parti di Siria, Iraq, Iran e Turchia. Ma il caso storico più eclatante è senz’altro quello dei territori contesi tra Israele e Palestina in Cisgiordania. Ancora diverso è il caso delle guerre civili. In questo caso i conflitti sono conflitti combattuti da fazioni opposte all’interno di uno stato. Ovvero da cittadini della stessa nazione, divisi tra loro. È quanto accade, ad esempio, in Afghanistan, paese che è stato però anche teatro di interventi militari di nazioni straniere nel corso del tempo, dapprima con l’invasione da parte dell’Unione sovietica, quindi con la guerra a guida statunitense nei primi anni Duemila. Allo stesso modo, guerre civili più o meno “vive” sono tuttora in atto in Libia, in Siria, in Iraq e nel Sud Sudan. Alcuni conflitti interni alle nazioni, o transnazionali, presentano poi una matrice terroristica. Spesso legata a motivazioni religiose o politiche. Nella storia sono innumerevoli i casi di conflitti armati legati a gruppi terroristici, come nei casi degli indipendentisti dell’IRA e dell’ETA in Irlanda del Nord e nei paesi baschi spagnoli. Oggi numerose organizzazioni jihadiste armate sono presenti in nazioni africane come Nigeria, Mali, Somalia o Repubblica Centrafricana. Oppure in paesi mediorientali come Siria e Iraq, o ancora in Pakistan. A tali tipologie, infine, possono essere affiancati i conflitti “a bassa intensità”. In alcuni casi, infatti, i conflitti tra nazioni non sono aperti, ma condotti in modo latente. Non si può parlare di guerre, dunque, ma neppure di relazioni pacifiche. È il caso di India e Pakistan, i cui rapporti diplomatici sono estremamente tesi da decenni, e che in più di un’occasione si sono affrontati anche in modo diretto. Ma anche di Stati Uniti, da una parte, e Corea del Nord o Iran dall’altra. Da anni si assiste ad un’erosione dei programmi internazionale di controllo degli armamenti, che per decenni avevano garantito sicurezza e stabilità. Il fatto che migliaia di testate nucleari siano ancora a disposizione di alcune nazioni rappresenta una concreta minaccia per l’umanità. Il numero di ordigni nucleari è infatti sceso fortemente rispetto al periodo della Guerra fredda, ma ne esistono ancora circa 14mila nel mondo. Il Trattato sulle forze nucleari a medio raggio, firmato nel 1987 dal presidente statunitense Ronald Reagan e dal segretario generale sovietico Gorbačëv, non è più in vigore dal 2019. Il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha chiesto agli stati di impegnarsi nel quadro degli accordi ancora esistenti. A provocare conflitti, infine, possono essere casi di forte instabilità politica. Anche in queste situazioni non è possibile affermare che si tratti di nazioni in guerra. Ma è vero che le violenze interne possono portare, in alcuni momenti, a situazioni assimilabili a quelle di guerra civile. Come accaduto ad esempio in Venezuela, Libano, Egitto, Etiopia, Repubblica Democratica del Congo, o ancora Myanmar. Altre nazioni si trovano inoltre in situazioni che si possono definire border line, come nel caso di Haiti. Ancora, in Messico si sono registrate gravi violenze in coincidenza con le ultime elezioni. “Manca un investimento serio nel mondo per promuovere azioni che puntino alla pace. È per questo che nel mondo sono ancora così tanti i conflitti. Tutti oggi parlano di aumentare le spese militari al 2 per cento del PIl, ma nessuno ricorda che l’Italia si è impegnata più volte con le Nazioni Unite a raggiungere lo 0,7 per cento per aiuti allo sviluppo. E oggi siamo solo allo 0,2”, sottolinea Martina Pignatti Morano, direttrice dei progetti dell’associazione Un ponte per e presidente del comitato etico di Banca etica. Quante sono le guerre in corso nel mondo? Benché rispetto ai primi decenni del Novecento il mondo viva in una situazione di relativa pace, secondo il Global conflict tracker del think tank indipendente Council on foreign relations (Cfr), sono 27 i conflitti ad oggi in corso nel mondo. La maggior parte di essi è concentrata in Asia e Africa, continenti nei quali è presente la maggior parte delle dispute territoriali e delle guerre civili. È il caso del Myanmar, che a seguito del colpo di stato del 1° febbraio 2020 è sprofondato in una situazione di conflitto interno che ha provocato la morte di 1.500 di persone e l’arresto di 8.800 oppositori della giunta militare che ha preso il potere. Al contrario, sebbene il terrorismo sia tornato alla ribalta negli ultimi anni, in particolare con i gruppi islamisti Isis e Boko Haram, i conflitti direttamente legati ad esso sono solo un terzo di quelli presenti nel mondo. Quando, all’alba del secondo dopoguerra, il 26 giugno 1945 nacque l’Organizzazione delle Nazioni Unite, la prima missione ad essa conferita du quella di gestire le relazioni tra stati. Un compito arduo, in un mondo segnato dalle ferite aperte dal conflitto mondiale (all’epoca ancora chiuso soltanto in Europa) e nel quale le due superpotenze americana e sovietica si preparavano a decenni di guerra fredda. Oggi, rispetto ad allora, il mondo è cambiato enormemente. Ma le difficoltà nel dialogo tra alcune diplomazie permangono. E le minacce legate ai conflitti armati sono nuove, più complesse e più sofisticate. Per questo, secondo le stesse Nazioni Unite, “occorre apportare risposte innovative e audaci. La collaborazione tra stati membri, il settore privato e la società civile deve essere rafforzata. Occorre far cadere le frontiere istituzionali affinché gli attori politici, chi difende i diritti umani e chi si occupa di sviluppo possano lavorare insieme”. Soltanto i cambiamenti climatici rischiano di provocare nuovi squilibri, ad esempio per la ricerca di risorse di base. L’acqua diventerà con ogni probabilità un elemento di conflitto tra popolazioni. E le migrazioni di massa provocate da eventi meteorologici estremi o dalla risalita del livello dei mari, con le conseguenti inondazioni di vaste aree costiere, rischiano di esacerbare situazioni già tese. Le crisi, in un mondo globalizzato, sono interconnesse e richiedono strumenti nuovi, fondati principalmente sulla prevenzione, sul dialogo, sulla diminuzione delle disuguaglianze, su politiche di apertura, accoglienza e comprensione. La garanzia di un futuro di pace dipende dalle scelte che operiamo oggi…
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