Recovery Plan: finita l’illusione dei partiti di poter prendere i soldi dall’Europa senza fatica, hanno capito che il mandato di Draghi è proprio quello di fare riforme profonde…

Sono undici leggi in 8 mesi: cosa prevede il piano per attuare il Recovery Plan. Il Piano è stato approvato dal Parlamento il 27 aprile e il 30 aprile consegnato  a Bruxelles. E’ solo un primo punto di partenza: governo e Parlamento, in 8 mesi, da maggio a fine anno, dovranno infatti produrre 11 provvedimenti legislativi, tra decreti, riforme e deleghe. Le tempistiche, delle  cosiddette «statistiche sull’attività legislativa»  fissano in 312 giorni il tempo medio di approvazione da parte delle Camere delle leggi di iniziativa governativa, al netto ovviamente dei decreti legge incanalati su un percorso di fatto «blindato» dai 60 giorni previsti per la loro «conversione». Proprio la tendenza di Montecitorio e Palazzo Madama a non affondare sull’acceleratore rischia di trasformarsi in una delle incognite principali per il cammino del Recovery plan e per il rispetto della tabella di marcia concordata con Bruxelles, dalla quale dipende l’effettiva erogazione delle varie tranches di aiuti europei a disposizione del nostro Paese. Tutti… Lega, FI, Pd, Fratelli d’Italia, Azione, Italia viva e Cinquestelle sono entusiasti dell’arrivo dei fondi europei, ma non delle leggi e delle manovre da attuare per averli, in quanto potrebbero minare proprio le loro basi elettorali. Ma il governo attuale è molto più che un Esecutivo di larghe intese… in un momento quale quello attuale il suo compito è anche (no, soprattutto) quello di gettare le fondamenta di ogni futura politica pubblica… Infatti, la prima condizione che è stata posta dall’Unione europea ai singoli Paesi per dare loro miliardi di Euro è che facciano delle riforme. Se è più alta la somma erogata, più cogente è la condizionalità delle riforme. Per quanto riguarda noi Italiani c’è una ragione. L’Italia è un Paese a sviluppo bloccato e ad altissimo debito pubblico. È ridotto così, perché l’Amministrazione pubblica, la giustizia, il sistema fiscale, il sistema di istruzione ecc. ecc. …sono così mal-funzionanti che hanno rallentato lo sviluppo del Paese fin dall’inizio degli anni ’90. Perciò l’Italia è un Paese in declino. Dunque, ha bisogno di un’iniezione di miliardi di euro per rimettersi in piedi. Ma, appunto, la condizione per avere i miliardi è che faccia quelle riforme. Il Governo Draghi sta al punto di intersezione tra la necessità dei miliardi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e l’urgenza delle riforme necessarie. È (non senza palesi contraddizioni) sostenuto da tutti i partiti, eccetto Fratelli d’Italia. I partiti sono entusiasti dei soldi, ma non delle riforme. Dei soldi, perché sperano, ciascuno, di foraggiare la propria base elettorale. Non delle riforme, perché esse possono ledere gli interessi, di cui sono rappresentanti e delegati in Parlamento a difenderli. È evidente che se obblighi a installare il frigo in ogni casa, i venditori di ghiaccio smettono di votarti. Se dici differenziazione delle carriere e degli stipendi dei docenti, perdi il voto dei docenti. Se introduci il principio di responsabilità civile, in forza della quale se, per incapacità o per corruzione, un Pubblico ministero produce prove fasulle o un giudice condanna un innocente, deve risponderne personalmente, perdi il voto dei magistrati. E se fai una riforma del fisco, per la quale l’evasione o l’elusione delle tasse viene resa impossibile, gli evasori fiscali, che in Italia sono circa la metà dei potenziali contribuenti, ti voltano le spalle. È qui che casca l’asino dei partiti. Perché ciascuno ha propria base socio-elettorale, ahi loro mutevole, che vota di volta in volta chi le promette di difendere i suoi interessi. Nessuno scandalo, si intende! Che interessi particolari stiano alla base della politica e dei partiti è una costante della storia umana, da quando i primi cacciatori/raccoglitori sono diventati agricoltori ed hanno cominciato a differenziarsi per classi sociali. Nessuno si può illudere che la politica sia un’attività disincarnata dalle passioni, dagli interessi, dai valori. È questa tripla elica che tiene in volo la storia degli uomini. Le società stanno in piedi sul fragile e dinamico equilibrio di interessi diversi o addirittura antagonisti. Quando diventano incompatibili scoppiano lotte sociali, che a volte si possono trasformare in guerre civili. Allora una comunità cessa di esistere o declina. L’Italia si trova esattamente su questo orlo. A questo punto i partiti devono decidere da dove partire: se dagli interessi che li votano o dal destino del Paese. Se mettono questo al primo posto, allora dovranno necessariamente smussare i blocchi degli interessi che rappresentano. Nel suo Manifesto del Partito comunista Marx ha già fatto osservare che la lotta delle classi, cioè degli interessi, si conclude sempre in due modi alternativi: «O con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta». In questo caso, niente paura! La trasformazione rivoluzionaria consiste semplicemente nel riavvio del motore dello sviluppo di una comunità nazionale, dispersa da tre decenni nella giungla corporativa degli interessi. Questo significa una cosa sola: che Salvini non può pensare di rinviare le riforme al dopo elezioni 2023 e che Letta non può pensare di farle ora solo con i Cinque stelle, invitando Salvini a levare le tende. Salvini sembra voler riproporre la sua filosofia del Papeete: dateci la maggioranza assoluta e faremo le riforme. Versione più light del «datemi i pieni poteri». Slogan traballante, se si deve stare ai sondaggi, dai quali risulta già un tête à tête con la Meloni. A chi dei due dovremmo dare questi pieni poteri? Enrico Letta, a sua volta, è prigioniero del tic dell’alleanza strategica con il Movimento Cinque stelle, il quale, per esempio, si oppone strenuamente alla riforma della giustizia. E a molto altro. Salvini dimentica che il tempo delle riforme è adesso. Se non si incomincia subito, il flusso degli euro europei si ridurrà a qualche goccia. E se non si fanno le riforme, il Paese continuerà a declinare. Letta non vuole prendere atto che il Governo Draghi non è il governo giallo-rosso con appoggio esterno verde. Stenta a capire che il governo-Draghi è un governo di unità nazionale, diverso da quello del 1976. Quello aveva di fronte l’emergenza terrorismo e la stagnazione economica. Questo è un governo costituente, che deve porre le fondamenta di una nuova Italia e di una nuova Repubblica. Quello del 1976 non ebbe il coraggio costituente. Comunque, il Governo Draghi è assai più simile al Governo De Gasperi II, rimasto in carica dal 14 luglio 1946 al 2 febbraio 1947. Fu un governo che intrecciò azione ordinaria e iniziativa costituente, dove l’Assemblea costituente fungeva da Parlamento e dava la fiducia al governo. Il paradigma costituente continua a mancare nella testa della classe dirigente dei partiti. Se facesse capolino nelle loro testoline, forse il Partito democratico capirebbe che il suo interlocutore principale ai fini delle riforme è la destra di Salvini e Meloni. E viceversa! Si potrebbe sostenere, in punta di diritto costituzionale, che il paradigma costituente si attiva solo nel campo delle riforme costituzionali, lo dice la parola stessa! Ma proprio la comparazione calzante con il secondo dopoguerra suggerisce che l’Assemblea costituente non era stata eletta solo per definire l’assetto istituzionale della Repubblica, ma per gettare le fondamenta di ogni futura policy e politics. Le riforme di cui il Paese ha bisogno oggi sono molto di più che piccoli aggiustamenti, da fare con il cacciavite… la nostra classe dirigente è così piccola piccola che sa ormai usare solo quello e solo come oggetto contundente verso ogni altro… povera Italia e poveri italiani!

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