Governo: di piazza o di establishment? Il governo Meloni è reazionario, ma sulla carta è probabilmente meno pericoloso di quello populista di Conte…

Va detto: nel nuovo esecutivo ci sono figure grottesche, ma sono messi lì dove possono fare pochi danni. Nei posti che contano non mi pare ci siano profili veramente eversivi, ma il punto adesso è capire se la premier farà quello che ha promesso, nel qual caso saranno guai per noi, o se ha preso in giro gli elettori, nel qual caso saranno guai per lei… Il governo Meloni è un governo reazionario, come era naturale che fosse, ma non più di destra e nemmeno più grottesco del governo Conte 1, quello Cinquestelle-Lega, formatosi con l’obiettivo di uscire dall’Europa, dalla Nato e dalla decenza per abbracciare calorosamente Russia e Cina, cui i gialloverdi finirono di regalare la nostra indipendenza energetica e stavano anche per consegnare le nostre infrastrutture portuali. Il governo Meloni è un governo con pericolose tensioni interne su Putin, e quindi sulla democrazia occidentale, ma che nasce sul presupposto atlantico, al contrario di quell’altro che era un governo guidato da un segnaposto scelto per caso, come Peter Sellers nel film “Oltre il giardino”, ed era popolato da personaggi da avanspettacolo tipo Toninelli, Lezzi, Taverna, con Fofò Bonafede alla Giustizia e Rocco Casalino a dare le carte per conto della Casaleggio Associati, più Salvini che chiudeva i porti, citofonava agli immigrati e firmava gli osceni decreti sicurezza indossando t-shirt di Putin, mentre Di Maio chiedeva l’impeachment del presidente della Repubblica per un Savona che voleva andare al Mef pontificando di “piani b” per uscire dall’euro. In effetti, quello poteva essere il governo più di destra della storia repubblicana. Certo, con Meloni e il suo fiammeggiante armamentario ideologico orbanian-bannoniano, al governo ci sono un agiografo di Putin e di Trump, nonché ammiratore di Dugin, peraltro nominato direttore del tg2 proprio dal governo Conte, una fanatica alla Famiglia, una balneare al Turismo, un professore che spiega il crollo dell’impero romano con l’immigrazione clandestina con l’autorevolezza di certi avventori di bar, un ministro del “sovranismo alimentare” altresì cognato della leader della coalizione di governo e altre caricature che non fanno sicuramente ridere, ma tutto sommato si tratta di figure minori relegate in ministeri marginali, tranne la scuola, che non modificheranno il collocamento internazionale dell’Italia tra le democrazie liberal. Per il resto, è un governo formato da tradizionali politici di destra, della destra che ci possiamo permettere e che ha vinto ampiamente le elezioni, ma senza evidenti profili eversivi e con seconde file dell’ultimo governo Berlusconi. La cosa più probabile è che questa compagine non sia nemmeno questa volta in grado di fare alcunché, anche se in questi casi vale sempre la massima pannelliana secondo cui non bisogna mai sottovalutare i buoni a nulla, perché sono capaci di tutto. Giancarlo Giorgetti (Economia), Antonio Tajani (Esteri), Guido Crosetto (Difesa), Carlo Nordio (Giustizia), più il tecnico Matteo Piantedosi all’Interno, non sono la migliore tazza di tè possibile, ma non sono nemmeno un pericolo per la democrazia. A Salvini, poi, pare sia stata tolta la competenza sui porti, per evitare che ci ricaschi come la volta precedente. Poteva andare peggio, insomma. Più che altro è preoccupante l’operazione politica di riaccorpare il Commercio estero con lo Sviluppo economico, ora diventato Ministero delle Imprese e del Made in Italy, dopo gli ottimi risultati ottenuti in termini di sviluppo del commercio delle aziende italiane con l’estero grazie alla struttura integrata nella Farnesina negli anni scorsi (unico merito attribuibile a Di Maio nella sua breve, ma intensa, carriera politica). Ora si dovrà ricominciare da capo ma, anche in questo caso, il ministro Adolfo Urso non è un pericoloso estremista, semmai un ordinario mestierante della destra post-fascista, anche lui ministro quindici anni fa. Il punto, quindi, non è la composizione del governo, nonostante sia quello che è, ma che cosa vorrà fare Giorgia Meloni da domani mattina: assumere il ruolo di premier conservatrice capace di navigare acrobaticamente tra le urla della piazza e le sirene dell’establishment oppure insistere a occupare il ruolo di chi, come ha detto la sera della vittoria elettorale, ha la missione storica di riscattare una famiglia politica tenuta per generazioni ai margini della società civile?Nel primo caso, il governo non sarà un pericolo per la democrazia e sarà giudicato dai risultati che saprà ottenere. Nel secondo caso, sarà un problema. Giorgia Meloni non è un’incognita politica. Le cose che pensa e che vuole le conosciamo a menadito. In attesa di vedere come si muoverà dentro Palazzo Chigi, non si può fare a meno di ricordare che il curriculum recente non promette bene. La Giorgia Meloni pre-elezioni si è astenuta in Europa sul Next Generation Eu che ha salvato il continente, e noi italiani in particolare, e si è astenuta sul Pnrr che adesso invece deve eseguire anche perché è l’unica speranza di rilancio economico del paese. La Giorgia Meloni pre-elezioni si è sempre contraddistinta, in compagnia di leghisti e Cinquestelle e sinistra radicale, per numerosi attacchi concentrici all’Europa politica e istituzionale, per una condivisione di ideali illiberali con Donald Trump, Viktor Orbán, i nazionalisti polacchi e gli ex neonazisti adesso al governo in Svezia. La Giorgia Meloni pre-elezioni ha votato contro lo stop europeo ai fondi destinati all’Ungheria e alla Polonia per le ripetute e rivendicate violazioni dello stato di diritto. La Giorgia Meloni pre-elezioni chiedeva di ridiscutere il Next Generation Eu, infischiandosene del rischio di perdere i finanziamenti, ed era contraria a mettere in discussione il principio dell’unanimità che vige nelle istituzioni europee e che Mario Draghi, come molti altri, ha indicato come il principale ostacolo di inadeguato funzionamento dell’Unione europea. La Giorgia Meloni preelettorale ha firmato una proposta di riforma costituzionale, la numero 291 del 2018, per codificare la supremazia della legislazione italiana sulle norme di diritto comunitario, in modo da coronare il sogno proibito dei sovranisti di fare cicca-cicca a Bruxelles. Insomma, la Giorgia Meloni che ha vinto le elezioni le ha vinte grazie a uno straordinario percorso politico populista di opposizione radicale all’Europa e alle sue scelte, comprese quelle per la ripresa post Covid. Un percorso che porta all’uscita dalla zona euro e dal progetto europeo e, come conseguenza di quel progetto di legge costituzionale sovranista, anche alla perdita dello scudo garantito dalla Bce in caso di spread alto dei nostri titoli di Stato. È possibile, addirittura probabile, che Meloni metta da parte queste follie sovraniste ora che ha l’incombenza di governare, dimostrando maggiore serietà dei suoi compagni di coalizione, ma confermando anche di aver turlupinato gli elettori con promesse irrealizzabili o dannose. Sarebbe un bene per il paese se Meloni scegliesse la prima strada, ma per lei non sarà per niente facile, perché a un certo punto dovrà vedersela col suo elettorato e con gli alleati populisti. I quali, alle prime difficoltà, non le risparmieranno niente…

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