Occupazione: cosa si nasconde davvero dietro la carenza di manodopera? Lavoratori che non vogliono lavorare o più semplicemente non vogliono essere sfruttati, non è questione solo di salari da fame…

Nell’artificiosa polemica su chi preferirebbe il reddito di cittadinanza alle offerte di lavoro nessuno parla dei mille trucchi e delle tante irregolarità – a volte veri e propri soprusi – che sono molto diffusi specialmente nel settore dei servizi… Ci sono casi in cui i media, invece di aiutare il cittadino ad orientarsi, forniscono informazioni tendenziose e fuorvianti. Occupazione: cosa si nasconde davvero dietro la carenza di manodopera …non solo salari da fame! Sull’argomento, apre una riflessione interessante Claudio Negro della Fondazione Anna Kuliscioff: “Una spiegazione diffusa è quella di condizioni economiche e di lavoro inaccettabili. Se però lo sguardo si fa più attento, questa problematica riguarda solo una piccola minoranza del mismatch per mancanza di candidature i dati ci dicono circa 9mila unità su 91mila totali. Mancano i lavoratori ma mancano anche i posti di lavoro! Una contraddizione in termini ma purtroppo clamorosamente confermata dalla constatazione dei dati reali. L’Istat ci dice che ad aprile 488mila persone erano in cerca di occupazione. Allo stesso tempo ci dicono che le imprese cercano 243mila lavoratori che non trovano: questo dato, la vacation, è grosso modo costante in termini percentuali dagli ultimi dieci anni e corrisponde a una cifra pari circa all’1% dell’occupazione”. Pigliando spunto da queste considerazioni, ricco di informazioni sulle dinamiche che generano questa vacation è il Bollettino Excelsior Unioncamere, che dà conto della domanda di lavoro da parte delle imprese e del mismatch che si riscontra. Si prevedeva che per il giugno 2021 le imprese volevano assumere 560mila lavoratori, che però nel 30% dei casi sono di «difficile reperimento». In particolare, nel 13% dei casi l’impresa non trova sul mercato le competenze richieste, ma nel 15% non trova proprio candidati. Ora, il fatto su cui pare opportuno riflettere è proprio quest’ultimo: il maggiore ostacolo all’incontro domanda-offerta di lavoro è dovuto, ancor più della conclamata inadeguatezza delle competenze, proprio al fatto che le persone non rispondono alle ricerche di lavoro delle imprese. Interessante esaminare la composizione di questa domanda di lavoro: la gran maggioranza (383mila) riguarda impiegati, professioni commerciali e nei servizi, operai specializzati e conduttori di impianti e macchine. Professionalità di non difficilissimo reperimento. Non a caso il mismatch per competenze inadeguate varia dal 10% al 16%. Tuttavia, la mancanza di candidati viaggia dal 30% al 36%, con punte altissime nel turismo-ristorazione, assistenza sociale in istituzioni o domiciliare, conduttori di mezzi di trasporto nonché operai manifatturieri. Nella quasi totalità di questi casi, la causa del mismatch non è la preparazione inadeguata, ma la mancanza di candidature (curiosa eccezione l’estetica dove invece prevale di gran lunga la mancanza di preparazione). Utile anche esaminare le ricerche di personale a bassa qualificazione: nonostante l’impressione che si può avere dai media, soltanto 84mila sono le ricerche di lavoro in questa fascia, e di queste 50mila riguardano personale addetto alla pulizia, che però generano un mismatch del 21,6%, e facchini e corrieri (logistica) per un totale di oltre 15.000, con un mismatch del 12%. È evidente quindi che esiste una grave componente di mismatch determinata da insufficienza di preparazione, e che obbliga a ripensare a tutto il sistema dell’educazione-istruzione e a interventi rapidi e mirati per far fronte all’attuale specifica contingenza. Occorre domandarsi quali siano le cause di un fenomeno poco prevedibile in un periodo di crisi occupazionale come la mancanza di candidature. In alcuni casi la risposta è evidente: farmacisti, medici, biologi sono notoriamente figure quasi introvabili per problemi legati ai percorsi formativi insufficienti a soddisfare la domanda (numero chiuso). Ma si tratta di numeri marginali (anche se poi importanti per il funzionamento della sanità). Una spiegazione che si va diffondendo è quella per cui la domanda si accompagnerebbe a condizioni economiche e di lavoro inaccettabili (i 600-800 euro al mese che si trovano spesso citati sui social). A un primo esame la cosa sembra plausibile (e certamente avviene), ma soprattutto in settori del mercato nei quali la domanda è rivolta a lavoratori non qualificati e per comparti in cui la presenza sindacale a tutelare l’applicazione dei contratti di lavoro è piuttosto rarefatta, e possono pullulare, nelle pieghe delle leggi, i cosiddetti “contratti pirata”, che danno una parvenza di legalità al dumping salariale. Se però guardiamo attentamente, vediamo che stiamo parlando di una fascia che rappresenta (sempre stando ad Excelsior) una piccola minoranza del mismatch per mancanza di candidature (circa 9mila unità su 91mila totali). D’altra parte, sembra difficile ammettere che ricerche di lavoro così “piratesche” si estendano anche a qualifiche “rispettabili”, come conduttori di impianti nell’industria tessile e dell’abbigliamento (mismatch 27,3%) oppure tecnici informatici (31,6%), o ancora operai metalmeccanici ed elettromeccanici (28,7%), nelle quali il trattamento salariale è molto probabilmente quello contrattuale regolare. Una qualche luce sul fenomeno della rinuncia a rispondere alla domanda di lavoro ce la può dare un rapido esame del recente monitoraggio di “Dote unica lavoro”, la politica attiva della Regione Lombardia per la collocabilità e il collocamento. Negli ultimi 16 mesi (check al 31 maggio), gli operatori pubblici e privati accreditati in Regione hanno preso in carico 16.398 candidati (di cui ricollocati 6.054). Tuttavia, gli operatori accreditati sono ben 963. La media della presa in carico è quindi stata di 17,02 candidati ciascuno, che diviso per 16 mesi (da Gennaio 2020 a maggio 2021) fa 1,02 al mese. È ovvio che in questa media ci sono operatori molto piccoli, spesso “specializzati” in formazione e non in matching. Tuttavia, Adecco, la major delle agenzie per il lavoro, totalizza 1.469 prese in carico. Sono comunque 91 al mese nella Regione con il mercato del lavoro più grande e più dinamico. E in un periodo di grave crisi occupazionale! Nel caso di Adecco poi, che è vincolata al rispetto delle norme della contrattazione collettiva nazionale per la somministrazione (e per ovvie ragioni “politiche” anche nel caso del semplice collocamento), la scarsità clamorosa di candidature non può certo essere ascritta a offerte salariali da fame. E lo stesso vale, ovviamente, per i maggiori player di Dote unica, che non giocano certo al dumping salariale, ma non trovano candidati all’inserimento lavorativo. Eppure, la Dul è uno strumento per trovare lavoro, gratuito per l’utente e discretamente efficiente. Perché la domanda di lavoro, che come abbiamo visto, è significativa, stenta ad incontrare chi ha bisogno di lavorare? Esiste probabilmente una nicchia di assistenzialismo: chi percepisce la cassa Integrazione, e spera che grazie al sindacato questo andrà avanti il più possibile, ha probabilmente trovato una nicchia comoda, magari condita da qualche lavoro in nero, e preferisce rimandare il più in là possibile la ricerca di un nuovo lavoro. È possibile che come afferma qualche osservatore (e recentemente anche il segretario della Cgil Maurizio Landini) che lo shock da lockdown abbia creato una “paura da lavoro” abbinata ad una richiesta di protezione patologica? Già un bel pezzo di Paese era orientato in questo senso. Tuttavia, la conclusione della riflessione è ancora più inquietante: se l’offerta di salari da fame riguarda solo una minoranza, se a salari o occupazioni “normali” la gente non si candida, come recupereremo una situazione normale? La cassa integrazione e il divieto di licenziamento non saranno eterni… Ma francamente la questione dei salari da fame non è cero il ‘core’ del problema vediamo un paio d’esempi a partire da come e cosa si comunica. Anche quest’anno, così come ormai avviene dal lontano 1985, all’approssimarsi della data di presentazione della dichiarazione dei debiti degli italiani, la Conferenza Episcopale Italiana si appresta al massimo sforzo per invitare i contribuenti a versare il famigerato 8 per mille a favore delle opere benefiche della Chiesa cattolica. “Non è mai solo una firma. È di più, molto di più”. Il claim della nuova “campagna di comunicazione 8xmille” tende a trasformare – nell’immaginario collettivo – l’obolo annuale in “un piatto di minestra, una coperta e uno sguardo che si traducono in ascolto e carezze”. Il tutto, attraverso ingenti investimenti su Tv, Web, Radio – con spot dai 15’’ ai 40’’ – stampa e affissioni. Peccato che nessuno avverta l’esigenza di dare altrettanto risalto al particolare che solo poco più del 25 per cento della considerevole cifra riconosciuta alla Cei (superiore al mld. di euro) viene, in effetti, impiegata al fine di “interventi caritativi della collettività nazionale e di paesi del Terzo mondo”! Non a caso, le sole spese per il “sostentamento del clero e per l’edilizia di culto” assorbono quasi il 50 per cento dei fondi. Trattasi, quindi, di una sostanziale bugia, operata per occultare un’importante parte della realtà: la raccolta dell’8 per mille – a differenza di quanto sostenuto negli spot della campagna pubblicitaria – è destinata solo in minima parte ad offrire il “piatto di minestra e la coperta” ai bisognosi. Una campagna mediatica (parallela), da qualche mese a questa parte, è stata avviata – da parte di alcune associazioni di categoria e da alcuni sedicenti “imprenditori” del settore turismo – nei confronti dei giovani disoccupati e inoccupati che, piuttosto che accettare un posto di lavoro stagionale da cameriere, cuoco o bagnino, preferirebbero continuare a godere del reddito di cittadinanza. Un indecente refrain che – supportato da compiacenti “giornalisti” e altrettanto spregiudicati conduttori di talk-show televisivi – alimenta nell’opinione pubblica il convincimento secondo il quale esisterebbero tantissimi posti di lavoro disponibili nei settori del turismo e della ristorazione, in particolare, sistematicamente rifiutati perché i giovani preferirebbero continuare a godere del reddito di cittadinanza piuttosto che lavorare. Ma sarà proprio vero? Possibile che i giovani (e non solo loro), così come sostiene Daniela Santanchè – leziosa imprenditrice(!) del settore turismo – rifiutino di fare i camerieri e a una retribuzione di ben 2 mila euro al mese? “BusinessOnline”, nella pagina “Home Lavoro”, ci informa sugli stipendi medi 2021 nei diversi livelli, per alberghi e ristoranti: 2.233,74 euro per il livello QA; 2.066,90 euro per il livello QB; 1.858,79 euro per il livello 1; 1.696,96 euro per il livello 2; 1.599,14 euro per il livello 3; 1.507,69 euro per il livello 4; 1.412,51 euro per il livello 5; 1.357,32 euro per il livello 6S; 1.337,74 euro per il livello 6; 1.252,09 euro per il livello 7. Ci si riferisce, naturalmente, a livelli di inquadramento dei lavoratori e relativi stipendi previsti dal contatto turismo, dei pubblici esercizi e ristorazione. Trattasi, evidentemente, di cifre molto lontane dai fantomatici 2 mila euro che la Santanchè dichiara di versare a un qualsiasi “cameriere”. Comunque, alla luce di quanto previsto dai Ccnl, laddove i 2 mila euro indicati dalla Senatrice di Fratelli d’Itala corrispondessero al vero, sarebbe utile, ai fini di una più corretta informazione, conoscerne la composizione. Potrebbe, altrimenti, sorgere il dubbio che essi siano soltanto “virtuali” o, per meglio intenderci, “scritti sulla sabbia” e rappresentino – come sin troppo spesso accade – solo chiacchiere. Concorrono, ad esempio, ai 2 mila euro, le ore di lavoro straordinario; sono, per caso, comprensivi dei ratei di ferie non godute (in considerazione della brevità della prestazione di carattere stagionale); oppure sono, eventualmente, rappresentati da una parte dal salario e, dall’altra, dalla “quota mance” che (spesso) vengono distribuite tra tutti i collaboratori? Si tratta, in sostanza, solo di alcune ipotesi tese a spiegare una retribuzione che la Santanchè sostiene di corrispondere ai propri collaboratori che ricoprono funzioni da cameriere ma che, in realtà, non trova riscontro negli stessi Ccnl di categoria. A meno che, ma stento a crederlo, simili procedure imprenditoriali non siano dettate da una rara indole francescana. Detto questo, appare opportuno interrogarsi se è davvero credibile che qualcuno, giovane e meno giovane, preferisca continuare a percepire quello strumento del demonio che risponde al nome di Rdc, piuttosto che una retribuzione di (circa?) 2 mila euro mensili. Come abbastanza noto, il RdC apparve nel nostro Paese nel 2019, su iniziativa del M5S, quale misura universale di sostegno al reddito, in applicazione del principio secondo il quale nessun cittadino italiano potesse vivere con meno di 780 euro al mese. Ciò, però, non significa che il suddetto importo rappresenti un dato certo perché sono molte le varianti che incidono sul Rdc e ne determinano l’importo finale. Un dato certo è che non può mai essere inferiore ai 480 euro annui. Secondo la tabella ministeriale, ad esempio, una persona single maggiorenne senza altri redditi, può percepire al massimo 780 euro se ha una casa in affitto, 650 euro se ha sottoscritto un mutuo e 500 se non ha nulla di tutto questo. Le quote aumentano con l’aumentare del numero dei componenti il nucleo familiare. L’importo massimo, per una famiglia costituita da sei componenti, di cui due maggiorenni, è pari a 1.330 euro mensili. Molto al di sotto dell’indice di “povertà assoluta”. Ne consegue, ad esempio, che un giovane (maggiorenne) facente parte di un nucleo familiare costituito da 4 maggiorenni – senza mutuo né contratto di fitto registrato – avrà nel capofamiglia un percettore di Rdc pari a 1.050 euro mensili. Credo occorra, quindi, una notevole dose di cinismo, unitamente a una deplorevole concezione della dignità per sostenere – attraverso la leziosa perseveranza della Santanchè e l’ineffabile garbo di Flavio Briatore – che un giovane (disoccupato o inoccupato che sia) preferisca oziare a spese della famiglia piuttosto che lavorare come cameriere; soprattutto a fronte dei (fantomatici) 2 mila euro mensili benevolmente devoluti dai samaritani appartenenti alla benemerita classe imprenditoriale italiana. Molto più probabile che le cose stiano in modo leggermente diverso. D’altra parte, già in altre occasioni ho avuto modo ricordare che i miei quasi quarant’anni di attività da dirigente sindacale hanno, troppo spesso, prodotto un vero e proprio senso di rigetto nei confronti di tanta parte di una classe imprenditoriale che pare perseguire unicamente l’arte dell’accattonaggio a spese dei contribuenti onesti e, contemporaneamente, tentare di affermare il principio secondo il quale – per dirla alla Briatore – “Se io, ricco, concedo di lavorare a te povero, me ne sarai per sempre riconoscente; a prescindere dalle modalità e dalle condizioni cui ti ridurrò, pur di contribuire a produrre i miei profitti”. A tale riguardo, ho già accennato alla possibilità – quando va (quasi) tutto bene – di “gonfiare” artificiosamente la busta paga contrattuale con “fuori busta” quali ore suppletive di lavoro (non retribuite come ore straordinarie) oppure facendovi rientrare le “mance” che, di norma, non dovrebbero avere, almeno per italica consuetudine, alcun riflesso sulla retribuzione. Sin troppo spesso, però, già queste condizioni – cui tanti lavoratori dei suddetti settori gradirebbero pervenire – rappresentano addirittura uno status solo auspicato. La realtà in questi settori merceologici – confermata dalle centinaia di migliaia di denunce giacenti presso gli Ispettorati del lavoro e le sedi sindacali territoriali – è rappresentata da un’interminabile serie di omissioni, violazioni, soprusi e, direi, violenze – almeno verbali, quando non addirittura fisiche – a danno delle lavoratrici e dei lavoratori coinvolti. Una deplorevole pratica – diffusamente applicata – è, ad esempio, quella di accreditare al lavoratore l’importo corrispondente al minimo contrattuale sottoscritto e pretendere la restituzione in contanti di una quota parte di quanto ufficialmente corrisposto. Così come, con altrettanta se non maggiore frequenza, si registrano casi in cui al lavoratore viene “confezionata” una “regolare” busta paga contenente un numero complessivo di “voci” sufficienti a coprire e retribuire le ore lavorate, ma pagate a 4/5 euro l’ora. Non sono minori i casi in cui, tra le voci che appaiono sulla busta paga, figurano giorni di ferie già ufficialmente utilizzati ma, in realtà, mai goduti. A questo si aggiungono, spesso, compiti ed incombenze che nulla hanno a che vedere con le mansioni previste dalla propria figura professionale. In questo senso, si comincia con il dover provvedere alla pulizia dei locali di lavoro e si finisce con quella delle toilette. Ma già questo, con le impagabili offese che ne conseguono, è da considerare, per i lavoratori coinvolti, uno status tutto sommato “perfettibile”. Ben altre – indicibili – situazioni sono, infatti, quelle affrontate dai lavoratori che offrono le loro prestazioni addirittura a “nero”. Si tratta di un mondo ai più sconosciuto ma sin troppo noto agli operatori sindacali e agli ispettori del lavoro – o, almeno, a quelli che i propri compiti li svolgono in difesa e a tutela dei diritti dei lavoratori – che, con intervalli epocali, effettuano i controlli di rito. In questo contesto, di fronte al crescente numero di giovani in cerca di lavoro e/o di prima occupazione – senza eguali in Europa – trovo davvero scandaloso ed ignobile la vera e propria “campagna mediatica” tesa a sostenere ed affermare la criminale idea che qualcuno possa preferire il RdC ad un regolare posto di lavoro. È evidente che sarebbe sufficiente intendersi bene rispetto al significato di “regolare”! Fanno quindi benissimo i giovani a tutelare la propria dignità rifiutando di consolidare l’aberrante principio secondo il quale “Se non accetti il lavoro che ti offro (alle mie insindacabili condizioni) è perché sei un nullafacente lieto di esserlo”…

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