Politica: per il Quirinale più kingmaker? Renzi, Salvini e… ma forse non c’è nessuno che…

Mai come oggi l’elezione del Capo dello Stato ha avuto così tante implicazioni anche sul piano internazionale. Non è un segreto che a Washington come nelle Cancellerie europee si fa il tifo per il permanere al Colle di Sergio Mattarella. E questo nonostante la dichiarata opposizione dello stesso Sergio Mattarella a un bis o comunque ad un bis a tempo determinato nell’incarico di Capo dello Stato, sarebbe comunque necessario convincerlo ad accettare. Il suo Paese, la Comunità atlantica, l’Unione europea ne hanno bisogno. Il presidente sa certamente cosa è ovvio agli occhi di Washington, dell’Ue e di tanti altri Paesi che osservano da vicino l’Italia. Per quali ragioni? La prima: nonostante Mario Draghi sia la persona più ovvia da spedire al Quirinale, la sua provvidenziale leadership politica, necessaria tanto in Europa quanto in Italia, può essere espressa in modo molto più dinamico dal suo ufficio di Presidente del Consiglio a Palazzo Chigi. L’Ue, prima ancora che l’Italia, richiede che Draghi rimanga esattamente dove è ora… Come unico garante del Pnrr. È fin troppo banale da ricordare. Due, non meno importante: l’Italia deve evitare a tutti i costi la leadership politica dei due Mattei, Renzi e Salvini. Matteo Renzi è già stato presidente del Consiglio. È visto da tutti come un politico che è molto più bravo a parlare in tutte le lingue di “rivoluzione” che a farne una, in Italia o all’estero. In poche parole, quella di Renzi oggi si deve considerare definitivamente un’esperienza politica fallimentare. Parla di unificare il Centro, di ritorno del Centro. E così i ‘litigiosi moderati’ si immaginano decisivi per il Quirinale. Oltre 100 parlamentari divisi in una dozzina di sigle che, se si unissero, potrebbero fare da ago della bilancia nell’elezione del Capo dello Stato. Un tesoretto, la famosa terra di mezzo che, fosse davvero una sol cosa, potrebbe fare da ago della bilancia in chiave Quirinale. Il grande centro infatti conta, ma è frammentato. Una dozzina di sigle, qualcuna tendente a “sinistra” e qualcun’altra a destra; tutti moderati e tutti riformisti — qualsiasi cosa ciò voglia dire — e a parole tutti draghiani convinti. Italia viva (che al Senato fa gruppo col Psi), Coraggio Italia che a Palazzo Madama è nel misto e c’è la componente Cambiamo, Centro democratico che stava con +Europa, Azione, Noi con l’Italia, il Maie, l’Udc che però è nel gruppo con Forza Italia, le minoranze linguistiche che a volte le trovi di qui e a volte di là, i vari singoli rimasti senza partito ma di osservanza post-democristiana. Le caratteristiche principali del centro sono che si sente tale dove comanda e che allo stesso tempo però al loro interno nessuno vuol far comandare il proprio vicino di banco. Lo dimostrano proprio le mille liti tra Renzi e Calenda: i due gemelli (poco) diversi. Pescano nella stessa area. Spesso colpiscono uniti per poi marciare divisi. Il leader di Italia viva cerca di evitare senza riuscirci l’immagine di due galli nello stesso pollaio… Calenda non ci prova nemmeno… E ancora, a proposito di Renzi mai l’Italia ha conosciuto leader più divisivo di lui… e questo anche il Centro lo sa bene, come mostra la ritrosia di molti centristi vecchi e nuovi a far corpo unico. Questa è di certo l’opinione che di Renzi hanno fuori dall’Italia. E l’Italia farebbe bene una volta per tutte a prenderne atto. Inoltre, per quanto riguarda la nostra prospettiva politica, la leadership di Matteo Salvini può rivelarsi anche peggiore di quella renziana. Nonostante la sua recente svolta retorica, che sembra indicare una riconciliazione, il suo euro-scetticismo è ormai agli atti. E oggi che il Regno Unito non ne fa più parte, l’Ue ha bisogno più che mai dell’Italia e della sua leadership. Né sfugge a qualcuno che il recente tentativo di Salvini di mettere insieme i partiti politici italiani, di qualunque dimensione, non è altro che uno stratagemma. Salvini è il fiero leader della destra italiana. E a dispetto del suo apparente, aperto sostegno a Silvio Berlusconi, rimane lui il vero aspirante alla leadership del Paese: e gli italiani lo sanno… Inoltre, un’amministrazione come quella di Joe Biden certamente non farebbe salti di gioia per la svolta a destra dell’Italia rappresentata da un eventuale ritorno sulla scena del governo italiano di Salvini. Il leader della Lega da parte sua ha aperto a Silvio Berlusconi come potenziale candidato al Quirinale. Visto il suo ben noto comportamento, un’elezione di Berlusconi all’estero sarebbe ampiamente considerata una farsa italiana. Questa forse è la ragione chiave per cui Mattarella dovrebbe cercare e accettare di restare ancora al Colle. Un’eventualità che in tanti Paesi sarebbe accolta con rispetto e ammirazione. L’Italia e Mattarella non dovrebbero perdere quest’opportunità per confermarsi un’ancora della Comunità Atlantica. Ora, non è difficile vedere una certa perfidia nelle parole di Renzi a cui forse una spaccatura nel centrodestra non nuocerebbe, o meglio non nuocerebbe una situazione in cui né la destra né la sinistra riescano a combinare granché. Infatti, un kingmaker che fallisce semplicemente non lo è più… “Stavolta il ruolo di kingmaker tocca a voi del centrodestra”, ha detto Matteo Renzi dal palco della festa di Atreju. E non si capisce se si è trattato di una mera constatazione, dati i rapporti di forza vigenti in questo parlamento e fra i delegati delle regioni, o un estremo atto di perfidia. Anche perché per fare il kingmaker bisogna avere in testa una strategia, ma anche non darlo a vedere, almeno fino a quando i giochi non inizieranno a farsi duri. E devono poi essercene le condizioni, cioè una compattezza di fondo almeno da parte di chi vuole dettare le carte. Non si vuole qui certo insinuare che il centrodestra questa compattezza non ce l’abbia, ma intanto l’unico modo di dimostrarlo sarebbe quello di convergere su un nome da proporre agli altri con la possibilità di convincerli. Il che è francamente impossibile, o quasi, perché se si punta subito su Berlusconi il rischio è che non passi, o lo si bruci, mentre se si fa un altro nome il rischio è che si spacchi lo stesso centrodestra. Se questa è allo stato attuale la situazione, non è difficile vedere anche una certa perfidia, appunto, nelle parole di Renzi a cui forse quella spaccatura non nuocerebbe… Oggi Augusto Minzolini invita, in un fondo del Giornale, quelli che si ostina a chiamare “sovranisti” (ormai non lo fa nemmeno più Enrico Letta) ad uscire da ogni ambiguità e a proporre netto il nome del Cavaliere. Il fatto è che però mai come questa volta l’ambiguità è nella “cosa stessa”, come direbbero i filosofi. E infatti l’altro Matteo, Salvini, che ha risposto positivamente all’invito di Renzi e ha fatto sapere che da domani inizierà a chiamare tutti i segretari di partito per un tavolo comune che giunga ad una scelta condivisa, ha poi dovuto precisare che “se qualcuno ha la spocchia di dire che il prossimo capo dello Stato non può essere di centrodestra” gli bisogna ribattere che “non c’è un articolo della Costituzione che dice che debba essere scelto sempre dal Pd”. Che è come dire che le due strade, quella di una scelta a larghissima maggioranza (come fu per Cossiga e Ciampi) e l’altra di una scelta di parte che riesca poi ad aggregare i consensi in più necessari all’elezione, sono ancora entrambe aperte. D’altronde, l’unico nome che potrebbe oggi essere teoricamente eletto ad ampio suffragio è quello di Mario Draghi, ma appunto “teoricamente”. Quanti deputati correrebbero, infatti, il rischio, per votarlo, di porre termine subito alla legislatura? L’accordo fra i partiti dovrebbe essere complessivo, cioè anche sul nuovo presidente del Consiglio e sulla continuità di questo Parlamento. Né Draghi potrebbe permettersi di essere votato con una maggioranza risicata… Ovviamente, dall’ambiguità si uscirà solo quando qualcuno farà una scelta netta, indicherà un nome, e su quello si aprirà il confronto. Oppure se sarà Draghi stesso a fare una scelta. Qualcosa in più, a tal proposito, lo capiremo probabilmente a fine anno, quando si porrà il problema di prorogare o meno lo stato d’emergenza, situazione che imporrebbe a Draghi di non lasciare il timone ad opera ancora incompiuta. E qualcosa capiremo anche dal discorso di fine anno di Sergio Mattarella: se la sua decisione di non proporsi per un doppio mandato anche a tempo, oltre che netta è anche irrevocabile; e se, in questo caso, non ritenga egli stesso di indicare un percorso, o una exit strategy, ai partiti e alla variegata truppa dei parlamentari con cui ha dovuto fare i conti in questa pazza legislatura…

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