Politica: Riforma delle mie brame. A che serve il presidenzialismo? Continua l’equivoco della Meloni che ha di fatto i “pieni poteri”, che però usa male, in più ha un’opposizione che non fa politica…

Già prima che inizi domani la trattativa sulle riforme costituzionali, Giorgia Meloni è rimasta sola col suo presidenzialismo, uno specchio delle sue brame che non le ha risposto che lei è la più bella del reame: è morto sul nascere, il presidenzialismo-quello-vero (elezione diretta del Presidente della Repubblica), come tutte le favole, in una nuvola di vapore, era quindi tutta fantasia? Antonio Tajani: “Presidenzialismo? Per la maggioranza il ‘Premierato’ è la soluzione più gradita”. E ha proseguito: “Io ritengo si debba rafforzare la stabilità del Paese. Basta con governi non eletti. La ricetta migliore bisogna trovarla insieme, maggioranza e opposizione. Da qui la decisione della premier, assecondata da me e dal vicepremier Salvini”. Lo ha detto il vicepremier e coordinatore di Forza Italia, Antonio Tajani, a Mezz’ora in più, su Rai3, in vista del confronto di domani martedì con le opposizioni sulle riforme istituzionali, e sottolineando che “al termine degli incontri potremo presentare una proposta. Per l’Italia forse il premierato potrebbe essere più gradita dalla maggioranza delle forze in Parlamento. Però vediamo”. Se rifiutassero “commetterebbero un grave errore”, ha concluso. “Maggioranza e opposizione: le ricette vanno trovate insieme”, ha aggiunto. “Un errore” se l’opposizione si mettesse sull’Aventino nel dialogo sulle riforme istituzionali. Se l’opposizione dirà di no, “noi andiamo avanti lo stesso, poi ci sarà il referendum”, ha aggiunto il vicepremier.  E lei lo sa. Infatti ora la destra chiama «presidenzialismo» l’elezione diretta del premier sapendo che questo è un terreno diverso e più praticabile intanto perché toglie dal tavolo un problema non da poco come quella della permanenza al Quirinale di Sergio Mattarella, e poi perché dal presidenzialismo vero, cioè l’elezione diretta del Presidente della Repubblica sia nella versione hard americana che in quella soft francese, nemmeno tutta la destra ci sarebbe stata, chi ha voglia di dare troppo potere a «Giorgia». Giocando sull’equivoco su chi debba essere eletto dal popolo, dunque, Meloni continua a custodire la bandiera del presidenzialismo – parola d’ordine che ha una sua presa sull’opinione pubblica non solo di destra – più in omaggio alla memoria sua e dei suoi seguaci che non come realistica opzione politica e infatti non è a De Gaulle o a Trump che pensa, ma a lei stessa insignita dal popolo del ruolo di guida del governo. Per avere ancora le mani più libere per fare e disfare, decidere e imporre, tagliar nastri e tagliar corto, sforbiciare i lacci e i lacciuoli che tuttora almeno un po’ imbrigliano la figura del premier che bene o male è sempre stretto nella tenaglia istituzionale Quirinale-Parlamento senza dimenticare che al fondo in lei c’è sempre questa idea del rapporto diretto tra popolo e capo che nella versione culturale della destra assomiglia a una specie di populismo tendenzialmente antiparlamentare. Caduto sul nascere il presidenzialismo-quello-vero il punto di caduta, dunque, si sposta sul tema del rafforzamento dei poteri del Premier, sia egli/ella eletto direttamente dal popolo o munito di maggiori prerogative nel quadro di un sistema neoparlamentare. Anche senza elezione diretta la figura del capo del governo sarebbe rafforzata attraverso la sfiducia costruttiva, il potere di nomina e revoca dei ministri, la fiducia del Parlamento solo a lui, una legge elettorale che gli garantisce una maggioranza certa (a proposito: ma nella trattativa che si sta aprendo entrerà anche il tema del superamento del Rosatellum?). Ma c’è evidentemente una questione tutta politica a monte della trattativa che si apre domani a Montecitorio: le opposizioni vogliono costruire davvero una trattativa o no? Mentre il Terzo Polo è deciso ad andare avanti sulla proposta del «sindaco d’Italia» (anche se ieri Carlo Calenda si è limitato a parlare di «più poteri al premier»), il Pd è davanti al bivio, se cioè seguire Giuseppe Conte in una tattica sostanzialmente «aventiniana» o accettare la sfida di Meloni per uno «scambio politico» che tornerebbe utile a tutti. Non è chiaro perché proprio adesso, all’inizio della sua avventura da premier e con mille grane su cui concentrarsi, Giorgia Meloni sia andata a riaprire il cantiere più inconcludente e noioso dell’ultimo mezzo secolo: le riforme costituzionali. Davanti a Palazzo Chigi non ci sono i tumulti né folle scatenate che invocano una Repubblica presidenziale. Tantomeno l’Italia è vittima di quei traumi, tipo una guerra persa o un crollo di regime, da cui si emerge cambiando sistema: per fortuna non c’è traccia di eventi così drammatici. Semmai affoghiamo nella quieta normalità, ci crogioliamo nei guai che da decenni restano tali e, anche se costa ammetterlo, abbiamo imparato a conviverci con desolata rassegnazione. Voltare pagina non è certo vietato, però nemmeno è in cima alla classifica delle urgenze. L’attuale momento storico ce ne propone altre: l’inflazione che galoppa e si mangia i risparmi, le pensioni, i salari; i posti di lavoro a rischio; la crisi energetica; il degrado ambientale; la Sanità ai minimi termini; se si vuole la sicurezza e l’immigrazione che dovrebbero rappresentare il fiore all’occhiello della Destra, finora con scarsi riscontri. Meloni vuol farci intendere che i risultati sarebbero migliori se l’Italia avesse un presidente (o un premier) eletto direttamente e, forte dell’investitura, potesse battere i pugni sul tavolo. Ma la domanda può essere ribaltata: c’è qualcosa che Giorgia vorrebbe fare però le viene impedito, ostacolato o rallentato per colpa delle regole in vigore? Governare le è davvero impossibile? È la Costituzione o che altro a legarle le mani? Stiamo ai fatti: tanto alla Camera quanto al Senato il governo poggia su una maggioranza solida, coesa, extra-large; talmente comoda che gli onorevoli se ne vanno in vacanza (come è successo sul Mef) dimenticandosi di votare. Con tali numeri Meloni può fare tutto ciò che vuole, il bello e il cattivo tempo. Qualunque riforma le verrà approvata, compresa quella costituzionale. Certo non glielo vieterà Salvini che si accontenterà di qualcosa in cambio, tipo l’autonomia differenziata; a maggior ragione il problema non sarà Berlusconi quale garante dei valori liberali. Nessuno dei due tradirà la Ducetta; e se per caso il governo dovesse forare, una ruota di scorta è già pronta: basterà rivolgersi al Terzo Polo e in particolare allo statista di Rignano, il quale già ci mise una toppa quando si trattò di eleggere Ignazio La Russa presidente del Senato. L’opposizione, poveretta, è alla ricerca dell’anima. Volendo, Meloni potrebbe trasformare il Parlamento in un bivacco di manipoli, in parte anzi l’ha già fatto; dunque, non venga a dirci che quello è il problema, la ragione per rifondare la Repubblica daccapo nel nome dei “pieni poteri”. A proposito di poteri: quelli “forti”, sono tutti ai suoi piedi. Per l’America Giorgia è un alleato prezioso; in Europa il nemico è Macron che è stato eletto dal popolo però non controlla il Parlamento e la Francia è in rivolta per le pensioni. Mattarella, spesso invocato a sproposito quale contrappeso, finora non si è messo mai di traverso firmando tutti i decreti (compresi quelli scritti coi piedi) per rispetto della volontà popolare che agli occhi del presidente è sacra e Meloni la incarna. Che cosa le aggiungerebbe, concretamente, un’elezione diretta? Mistero. Certo, oggi è così ma domani potrebbe cambiare. L’Italia s’illude e si disamora in fretta, di regola i suoi eroi finiscono compostati per cui presto tardi Meloni si ritroverà di nuovo minoranza nel Paese, e nella maggioranza parlamentare cominceranno i “distinguo”, i cambi di casacca, le defezioni: cioè tutto quello che hanno vissuto i suoi più illustri predecessori nell’eterno ritorno del sempre uguale. Giusto, dunque, che lei guardi al futuro e provi a imporre un assetto più stabile finché i numeri glielo permettono, e il premierato potrebbe essere la giusta soluzione, quella non traumatica. E’ qui che è sorto il dubbio: che il presidenzialismo servisse allo scopo. Nel bel mezzo dell’emergenza Covid un presidente “normale” come Sergio Mattarella è riuscito a estrarre dal suo cilindro un coniglio dalle fattezze di Mario Draghi: segno che il Colle non sta a guardare, la democrazia parlamentare ha mille risorse, il sistema a suo modo funziona pure senza un Capo “unto” dal popolo. Quando il sistema si blocca, un escamotage si riesce sempre a trovare. E comunque, volendo rafforzare i governi, ci sarebbero rimedi sperimentati altrove. Ad esempio, la facoltà di cacciare i ministri incapaci, oppure la “sfiducia costruttiva” (per cambiare premier bisogna prima indicarne uno nuovo), o ancora la potestà di sciogliere le Camere che oggi appartiene al presidente della Repubblica ma potrebbe essere condivisa col primo ministro che avrebbe la minaccia atomica per mettere in riga i partiti: mandare tutti a casa. Insomma, dice Mara Carfagna: con pochi onesti correttivi, invitando al tavolo gli avversari, Meloni potrebbe intestarsi una nuova Costituzione superando quella attuale che la destra missina non votò. Ci sarebbe un prima e un dopo, lei farebbe da spartiacque. Nella futura Repubblica si accomoderebbe a capotavola. Se insisterà per il presidenzialismo, invece, avrà sicuramente una bandiera da sventolare; alzerà così la posta ma spaccherà definitivamente il Paese, e non è detto che al dunque, nel referendum finale, l’Italia la seguirà. Oggi, ha una maggioranza solida, alleati che s’accontentano di poco, un’opposizione divisa e disarmata, Può governare come vuole, e allora lo faccia. E stia attenta ai cattivi consiglieri. Una riforma condivisa imperniata sui maggiori poteri del premier senza elezione diretta (che di fatto discenderebbe naturaliter dal risultato elettorale, ormai i nomi dei leader sono nei simboli dei partiti) con la ragionevole certezza che questa riforma condivisa avrebbe un largo sì al referendum finale. Giacché Meloni non dovrebbe proprio illudersi su una possibile vittoria referendaria su un testo votato dalla maggioranza più il Terzo Polo, ammesso che Calenda e Renzi vorranno su questo rompere l’opposizione. Ė meglio per tutti, per la premier e i suoi alleati, come anche per la Schlein & C., fare la cosa più semplice, ovvero: smettere la propaganda e fare politica…

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