Politica: si discute di tutto e il contrario di tutto. La normale dialettica politica è stata sospesa dal delirio populista di questi anni rimanendo alla fine senza parole…

Le cronache degli ultimi giorni offrono un piccolo ma illuminante esempio di cosa significhi esattamente quella sospensione della dialettica politica che tanti nostalgici del precedente esecutivo addebitano all’avvento del governo attuale. Da un lato Matteo Salvini, ospite del Meeting di Rimini, dichiara candidamente che il reddito di cittadinanza – vale a dire il principale provvedimento economico voluto dai cinquestelle ai tempi del governo con la Lega – è stato un grosso errore, che ha sbagliato a votarlo, lo riconosce, ma adesso bisogna proprio tornare indietro. Dall’altro Pasquale Tridico, che quello stesso governo ha nominato presidente dell’Inps con l’obiettivo di attuare Quota 100 – cioè il principale provvedimento economico voluto a quel tempo dalla Lega – dichiara con non minore candore che per quanto lo riguarda «la fine di Quota 100 non è la fine del mondo». Leghisti e Cinquestelle contro i provvedimenti da loro stessi approvati, Meloni contro la realtà: un confronto politico in cui non vige il principio di non contraddizione è come una partita di tennis in assenza di gravità… Non so per voi, ma per quanto mi riguarda personalmente, l’interesse verso la politica – questa politica italiana – è andato oramai scendendo verso livelli prossimi allo zero assoluto…  Personalmente penso: che già ai tempi della nomina di Matteo Renzi a segretario del Pd e poi a Premier si è decisamente completata, non so se in via definitiva, la frattura tra ciò che un leader politico dice in pubblico e quello che poi trama nelle segrete stanze. Non che questo non sia mai accaduto prima, tutt’altro: da sempre la politica si nutre di diversi linguaggi e componenti dovendo, per sua stessa natura, affrontare tutte le implicazioni reali della complessità umana. In democrazia poi, sin dai tempi di Cleone, il pericolo della strumentalità propagandistica per ottenere consensi (e quindi forza personale), è sempre dietro l’angolo… Non fraintendetemi, non sto ancora una volta esprimendo un giudizio negativo su Matteo Renzi: a parte le sensazioni di simpatia/antipatia che non rappresentano le qualità precipue ch’io richiedo a un leader politico (lo preferisco difatti – e di gran lunga – antipatico e bravo piuttosto che simpatico e inetto o mascalzone), la situazione è tale che, come diceva Deng Xiaoping, non importa se il gatto è bianco o nero: importa che acchiappi il topo. Non voglio quindi rientrare nella querelle Renzi sì/Renzi no… Il mio, a questo punto è un discorso culturale: mi pare ormai incontrovertibile che ora tutti i leader dei maggiori partiti italiani, tutti coloro che a prescindere dalla nostra singola volontà stanno decidendo e decideranno in futuro l’avvenire politico del nostro infelice paese, in tutti i loro aspetti si presentano alla fine tutti come leader populisti e demagogici in cui l’uso dei mezzi di comunicazione annichilisce – e badate bene, non accompagna o magari colora, ma proprio annichilisce – il contenuto della comunicazione; e tutto questo a prescindere se nel significato delle parole dette si sostiene magari esattamente il contrario (mi direte: eh… ma come sei antiquato!… guardi il significato delle parole!!!). Si, lo guardo… perché secondo voi cosa sono le parole che dicono che il Segretario del Pd Enrico Letta si presenta a Siena solo con il suo nome e non con il simbolo del partito? Scusate tanto: “…se questo non è tutto e il contrario di tutto”. Voglio ripetermi: annichilisce il significato delle parole e la trama razionale, la riduce a zero, la rende irrilevante… capite? La razionalità è irrilevante. Nel passato, la parola data era sacra e, col suggello di una stretta di mano, stabiliva impegni vincolanti. Un retaggio che filtra fin nelle democrazie moderne che fanno del “parlamento” il palazzo dove i diversi interessi e i differenti punti di vista “si parlano”, si confrontano, si accordano. Anche i sistemi politici più avanzati poggiano su quella fragile e delicata facoltà della vita umana che è la parola. Sappiamo tutti quanto è difficile intendersi. Equivoci, fraintendimenti, ipocrisie, menzogne. Non certo solo in Parlamento. Ma al lavoro, in famiglia. Non sempre si dice quello che si pensa. Né si fa quello che si dice. Più spesso le parole vengono usate strategicamente per i propri obiettivi. Ingannando gli altri, violentando la realtà. Da qui si scatenano tensioni, litigi, lotte, sfiducia. Tutti ingredienti tristi della nostra vita. Nulla di cui sorprendersi o scandalizzarsi dunque. La comunicazione umana, quando ha successo, ha qualcosa di miracoloso. E proprio poiché ne conosciamo la fragilità, col tempo si è affermata la tendenza a sostituirla con contratti scritti, procedure rigide, algoritmi. Col rischio di diventare una società di autistici. Ci sono situazioni, però, in cui la verità delle cose si impone con forza. In cui il bene che condividiamo è così necessario e forte da non ammettere furbizie o manipolazioni. Così dopo quasi 2 anni di pandemia, con ormai più di 130 mila morti, con le scuole chiuse tutto l’anno scorso, che ancora presentano punti oscuri sulla riapertura in totale sicurezza, con interi settori economici distrutti, con ansia e preoccupazione in aumento nella popolazione, l’uso palesemente strumentale delle parole che abbiano ancora una volta visto nel ‘teatrino della politica’ suona particolarmente stucchevole. L’Italia non meritava e non merita un tale spettacolo. Un gruppo di governanti che pensa al bene comune, di fronte a delle legittime divergenze, si chiude in una stanza discute tutto il tempo necessario per arrivare a un accordo o a un disaccordo. E poi parla chiaro, e agisce alla luce del sole. E invece sono settimane (se non mesi) che il Paese è inchiodato in una pantomima dove tutti hanno un pezzo di ragione ma nessuno riconosce i propri torti. E intanto i leader dell’opposizione non perdono occasione per dire tutto quello che si sarebbe dovuto fare e che il governo non ha fatto elencando, senza vincolo di realtà, un numero più o meno infinito di decisioni che meravigliosamente ci avrebbero potuto portare fuori dalla crisi. Ma non fanno mai cenno dei fallimenti clamorosi registrati nelle Regioni in cui governano. Con tutta la buona volontà, si tratta di uno spettacolo deprimente per il cittadino che cerca di farcela in mezzo a mille difficoltà. L’abuso della parola provoca un grave danno alla democrazia. Quando nessuno crede più a nessuno e si perde la fiducia nella possibilità di intendersi, il Parlamento diventa una ‘torre di babele’ di cui qualcuno comincia a pensare di fare a meno. E questo è pericoloso. La parola comunicazione viene dal latino com-munis che rimanda all’idea di dono ‘obbligatorio’. Un’espressione che noi non riusciamo più nemmeno a cogliere. Come è possibile un dono obbligatorio? In realtà questa idea nasce dal presupposto che le relazioni (e quindi la comunicazione) siano rette su una obbligazione e che, proprio per questo, il comportamento individuale, pur libero, non possa prescindere da una serie di condizioni. Che nel caso della comunicazione hanno a che fare con la ricerca della verità, la franchezza, l’onestà, la parresia. Senza obbligazione, la democrazia si riduce a puro scontro di potere, delegittimandosi di fronte al popolo. Soprattutto quando la verità dei fatti si impone per la sua gravità, non si possono usare le parole in modo solo strategico. Serve un’ecologia della parola. Adesso. Sull’uso che poi faranno di codesto potere, staremo a vedere e non mi pronuncio, anche se i timori sono tremori… A chi mi dice che questo è il nuovo, è la modernità, che le cose cambiano e bisogna adeguarsi al nuovo (magari lo dicono allargando le braccia, con sospiri di rammarico e talvolta aggiungendo: «Lo so, tu hai ragione, ma questo è il Nuovo»), a tutti costoro rispondo: ma siete veramente convinti che un cambiamento, solo perché è tale, è un mutamento verso il meglio e non verso il peggio? E poi ancora: anche ammesso, e niente affatto concesso – e io non lo concedo affatto – che il cambiamento sia ipso facto “progresso”, vorrei chiedere a chi sostiene codesta bislacca idea: l’Italia è un paese tanto più “avanzato” della Germania?… Siamo forse tanto più “moderni” della Francia?… Qui da noi è dunque la prassi democratica molto – ma veramente molto (evidentemente data l’enorme differenza) – più aggiornata che nel Regno Unito? Ahimé la domanda è retorica, o almeno lo dovrebbe essere se non ci fossimo tutti mangiati il cervello. Molto spesso, accecati dalla loro presunzione, oppure travolti dalle passioni suscitate dagli eventi, coloro che vanno precipitando verso il basso pensano di crescere e migliorare (e notoriamente gli dèi accecavano chi volevano perdere). Nell’antichità a volte venivano inflitte terribili punizioni cariche di significati simbolici, e spesso agli ingordi di denaro e di potere si bruciavano gli occhi con delle monete roventi… oggi invece ai nostri tempi progrediti, a tutti noi – colpevoli o meno – non solo gli occhi, ma anche la mente e perfino l’anima viene bruciata con degli schermi, catodici o digitali che siano… e restiamo “senza parole”.

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