Politica: voti e veti. Alle radici del caos italiano. Non è la politica che va al voto, ma la sua crisi…

Ombre russe non diradate e fantasma di Draghi, alberi da piantare e “forza debito”, chi comanda di qua e chi comanda di là: il grande assente è il principio di realtà. La realtà il conto alla sinistra lo ha già presentato. Alla destra lo presenterà subito dopo il voto… tra le ombre russe non diradate, i pifferi di “forza debito”, le trombette degli alberi da piantare e pensioni da alzare, stanco remake del famoso bollo auto che Berlusconi voleva abolire nel 2008 (e si paga ancora). Se si fosse votato quando, in pieno Covid, il capo dello Stato chiamò Mario Draghi per assumere l’incarico, sarebbe andata allo stesso modo, magari in una campagna sotto la neve e non sotto gli ombrelloni. E così sarebbe stato se si fosse votato quando la giostra parlamentare, incapace di decidere, si aggrappò a Mattarella, rieleggendo, per la seconda volta in un decennio lo stesso presidente della Repubblica. Non è la politica che va al voto, ma la sua crisi, avvitatasi in due anni buttati, in cui il sistema, invece di rigenerarsi, se possibile ha fagocitato ed espulso anche l’unica risorsa della Repubblica rimasta, Mario Draghi, non più in campo ma evocato da estimatori e carnefici come in una sorta di permanente seduta spiritica. Segno anch’esso di una politica incapace di definirsi in modo autonomo, attorno a un elementare idea di paese. Magari si potesse parlare di “coalizioni”, se non fossero illusioni ottiche di una legge elettorale truffaldina che tiene assieme il peggio del maggioritario e il peggio del proporzionale, rendendo obbligatorio qualche forma di accrocco, ma al tempo stesso legittimo, già ora e poi dal 26 settembre, va avanti la recita a soggetto. E non c’entra il poco tempo: la campagna elettorale in verità è già da tempo iniziata sulla pelle del governo dal tempo del catasto, dei balneari e del pacifismo ipocrita sulle armi, per la gioia dell’ambasciatore russo a Roma, Sergej Razov. Messa così, negare l’influenza russa e le possibili ingerenze cinesi sulla politica italiana significa negare la realtà. Ma il caos istituzionale e politico che aleggia nei palazzi romani ha radici più profonde. Il sistema politico italiano nasce alla fine della Seconda guerra mondiale con pesi e contrappesi per evitare che la vecchia forza dei fascisti e la nuova forza dei comunisti prendano il potere. Oltre alle misure formali c’erano poi misure informali che cementarono la situazione: un vero e proprio veto culturale/politico a allearsi con fascisti e comunisti portandoli al governo. E il Paese era governato da un centro massiccio e magmatico, che ruotava attorno alla Democrazia Cristiana. Con il partito comunista più forte dell’Occidente. Così, dalla fine degli anni ‘60 l’Italia divenne uno dei principali campi di battaglia informale della guerra fredda. Il terrorismo rosso e nero minacciava la stabilità del paese. Fino al culmine con il rapimento e l’assassinio nel 1978 del leader della Dc Aldo Moro… Dopo il rapimento di Moro, negli anni ’80, il governo attuò una serie di misure che avrebbero dovuto diminuire lo scontento sociale e eliminare le basi in cui pescava il terrorismo. Roma distribuì soldi a pioggia raddoppiando il deficit di bilancio dello stato. La distribuzione di benefici sociali effettivamente contribuì a drenare il Paese dalla protesta sociale. Una simile politica era stata usata agli inizi degli anni ‘60, sempre per limitare le proteste sociali. Allora il deficit venne prosciugato negli anni ‘70 in poco tempo attraverso un’inflazione a due cifre e rigorose misure di bilancio. Forse il governo italiano pensava di ricorrere all’inflazione e a una grande disciplina di bilancio per riportare i conti in ordine negli anni ‘90. In realtà la fine della guerra fredda nel 1989 è connessa con la fine di fatto di tutti i parametri politici ed economici che avevano retto l’Italia fino a quel momento. Con la crisi del 1994 (nel 1992 scoppiò l’inchiesta di “mani pulite) le colonne del sistema politico italiano, la DC, il PSI e i partiti minori, crollarono e vennero invece sdoganati i comunisti del PCI. La stessa cosa non accadde completamente per gli eredi del partito fascista, nonostante che anch’essi avevano cambiato nome. D’altro canto, emersero forze politiche nuove, con agende diverse, che raccolsero parti delle eredità passate ma con pulsioni nuove, Forza Italia di Silvio Berlusconi e la Lega di Umberto Bossi. Inoltre, l’Italia si accordò per entrare nella moneta unica europea, l’euro. Infine, ci fu una riforma elettorale, che avrebbe dovuto dare maggiore governabilità al paese. Tutto ciò avvenne senza cambiare la Costituzione, che era stata pensata invece per affrontare sfide politiche diverse, che a quel punto non esistevano già più. Si creò quindi un insieme di vincoli esterni, con l’Unione europea, mentre continuarono le fragilità interne, la mancanza di partiti di continuità di governo ed un mix di paletti istituzionali vecchi, e partiti nuovi. In questo magma nei fatti nessun partito ha avuto la forza politica di affrontare radicalmente il deficit di bilancio e le arretratezze dello stato sociale e burocratico italiano. Quindi siamo ad oggi. La combinazione di un rapporto debito/Pil arrivato al 150,8% e tante restrizioni nella libertà di mercato del paese sono un freno enorme per lo sviluppo nazionale. Ci sono rendite di posizione, ciascuna comprensibile e giustificabile che però messe insieme paralizzano il paese. I monopoli dei piccoli imprenditori sulle spiagge, i tassisti, ma anche i farmacisti, i giornalisti eccetera ciascuno ha una sua ragione, ma tutti insieme paralizzano il Paese. In una situazione di confusione e debolezza strutturale estrema, con un’astensione crescente dal voto. Nel 2018 gli M5s arrivano al 33% e vanno al governo. Nella realtà essi non diventano una vera forza di governo, ma vanno al traino della Lega. Con la loro insipienza aumentano la enorme confusione nazionale. Intanto, dopo la crisi del Papeete voluta dal loro alleato di governo Matte Salvini, vanno al governo con il Pd di Zingaretti, non passando da nuove elezioni in quanto la pandemia Covid, sconsiglia le urne. In tale situazione, nel mezzo della recrudescenza della seconda ondata del Coronavirus, grazie a Renzi che ritira i suoi Ministri  ecco la nuova crisi di governo… e arriva Mario Draghi l’anno scorso dopo per l’appunto la caduta del governo Conte 2 e ancora una volta senza passare da un voto popolare. Ciò è possibile perché l’Italia ha un sistema di pesi e contrappesi, e la democrazia è indiretta: il premier è tale non se votato dagli elettori ma se votato dal parlamento. Intanto in questi trent’anni l’ex Pci ha cambiato nome, ha assorbito parte della ex Dc… il Pd che come la Dc di una volta è diventato un partito/sistema, parte dell’amministrazione dello Stato, garantisce la governabilità del Paese. Tale governabilità è minima, e per alcuni è un problema perché non affronta i problemi di fondo accumulati in questi tre decenni. Intanto negli ultimi anni è cresciuta la pericolosa influenza di Mosca in Italia. Per l’amicizia di Berlusconi con Putin e gli ammiccamenti politici della Lega di Salvini. E da febbraio c’è in corso la guerra russo-ucraina con tutto ciò che comporta nello scontro tra Est ed Ovest del Mondo. La situazione è quindi questa! C’è ancora un “non detto” politico che disvela un’illusione ottica sugli schieramenti politici italiani. Perché è vero che la Destra, unita dal collante del potere, è più avanti col lavoro: Salvini sogna il ritorno al governo, Berlusconi in Parlamento, tutti la grande spartizione sulle nomine del prossimo febbraio e marzo, un mastice tale da tenere insieme anche chi si odia. Ma dei fondamentali ancora neanche l’ombra, intesi come collocazione internazionale e politica economica. Giorgia Meloni si è calata nel ruolo, promettendo garanzie sull’Ucraina, ma non è nelle condizioni di assicurare che, una volta al governo, non si troverà Salvini a un “check in” per un volo in direzione Mosca, né l’assicurazione atlantica è in grado di sciogliere alcuni nodi attorno ai quali si declina quella stessa collocazione: Donald Trump o Joe Biden? Emmanuel Macron e l’Europa dei diritti o Viktor Orbán e le sue suggestioni razziali? Né è ancora in grado di chiarire, dopo anni di retorica sulle compatibilità di bilancio e sull’Europa dei banchieri, come intenderà gestire l’affaire debito, davanti alle richieste di scostamento dell’alleato e alle aspettative suscitate su Pantalone che paga. E allora – a proposito di prove di maturità mancate – gioca facile a favor di popolo sul “blocco navale”, mentre Lampedusa è al collasso e ci sono 1200 migranti sulle navi delle Ong. Blocco che, come noto, non esiste a meno che non si vogliano mandare le navi della Marina Militare a sparare sui barconi dei poveri cristi. Misura contraria a tutte le convenzioni internazionali che provocherebbe l’arresto dei comandanti delle navi. Sarebbe interessante sapere se da premier Giorgia Meloni si assumerebbe la responsabilità di questi processi, ammesso che qualcuno sia disposto a seguirne gli ordini. Dall’altra parte a Sinistra, della coalizione non c’è neanche l’illusione. C’è un possibile “accordo tecnico”, epilogo di uno dei più clamorosi fallimenti strategici degli ultimi lustri: il famoso ‘campo largo’ con i Cinque stelle. La cui fine, subita e non scelta, dopo l’era della grande indulgenza mette in luce l’irrisolto di questi anni in cui si è appaltata l’identità alle alleanze pur di stare al governo. E non già al rapporto col paese. C’è qualcosa di profondo se, di fronte a una sfida presentata come una chiamata alle armi contro il “pericolo nero” e il “pericolo russo” trovano difficoltà a mettersi d’accordo anche coloro che, fino a poco tempo fa, stavano nello stesso partito (non su pianeti diversi). C’è un virus più contagioso di Omicron in giro – si chiami personalismo, si chiami divisione – se Renzi, Calenda, Letta, Bersani non riescono a trovare una quadra su un’idea minima di paese su cui mettersi assieme, uno straccio di programma comune, un messaggio non solo “contro”, una discussione oltre “Conte sì, Conte no”, “Fratoianni sì o no”, perimetri e premier. In tale contesto dire che Mosca ha fatto cadere il governo Draghi significa attribuire un grande successo politico alla Russia. D’altro canto, come già detto, negare l’influenza russa nella politica italiana significa negare la realtà. Così comincia ad allargarsi un nuovo veto informale politico in Italia su Mosca. Oggi Giorgia Meloni, secondo i sondaggi ormai di fatto leader del maggiore partito dopo le elezioni, si muove quindi fra due veti, uno vecchio ma mai del tutto eliminato, quello di essere “neo fascista”, e uno nuovo, non suo ma dei suoi alleati, quello di essere filorussi. È un passaggio molto difficile, al di là del numero dei voti raccolti alle urne. Per governare in ciascun Paese contano sia i voti che i veti. Quindi, con la guerra in Ucraina aperta, con una Italia che chiaramente traballa, con la Russia che si vanta a torto o a ragione di avere fatto cadere il premier inglese, avere tagliato le gambe al presidente francese facendo eleggere una maggioranza parlamentare contraria, con una Germania in stato di confusione, gli Usa che mandano la speaker del Congresso Nancy Pelosi a Taiwan irritando ulteriormente la Cina. Infatti, da Pechino tutto questo non si capisce. La Cina ha un animo estremamente pratico. Se la Russia perderà militarmente in Ucraina e politicamente in Europa, Pechino si spaventerà e forse potrebbe cominciare a cambiare politica verso l’Occidente. Se viceversa la Russia vince su questi due fronti allora la Cina seguirà la Russia. La concordanza tra partita Ucraina e partita Cina deve essere chiara anche a Washington visto che il segretario per la sicurezza nazionale ha recentemente spiegato che “vincere la Russia significa rassicurare Taiwan”. Certo la politica americana non è un leviatano onnisciente, è fatta di mille rivoli, tendenze e controtendenze che devono trovare continuamente una mediazione, ma oggettivamente in queste condizioni internazionali e senza un obiettivo preciso da perseguire il viaggio della Pelosi a Taiwan rischia di creare confusione non solo in Asia ma anche in Europa, e in Ucraina. Sarebbe meglio piuttosto concentrarsi sulla guerra e sulla stabilizzazione politica in alcuni paesi europei, per dare un messaggio importante alla Cina ma anche in Europa, e in Ucraina. Del resto durante la prima Guerra fredda la guerra di Corea e la lunga guerra in Indocina prima dei francesi e poi degli americani avevano un effetto politico diretto e importante anche nelle vicende europee. Oggi le vicende e le guerre europee possono essere fondamentali per le questioni asiatiche. Viceversa, muoversi in maniera scoordinata tra est e ovest, dà a Pechino un messaggio di confusione e di possibili invisibili complotti da parte americana. Entrambi sono segnali pericolosi. Quindi per certi versi la questione cinese, oggi, si vede anche in Italia. La Meloni oggi candidata premier in pectore ha anche l’onere e l’onore di rispondere a tale questione… Concludendo: dietro l’evocazione presente di un governo di Draghi senza Draghi, come riferimento di un campo che lo ha sostenuto fino alla fine o come esperienza da superare, c’è questa nostra fragilità attorno alle questioni di fondo qui ricordate. Compresa la definizione di un centrodestra veramente liberale che non “strizzi l’occhio” ai governi autocrati del Mondo. Insomma, il principio di realtà è il grande assente del dibattito politico italiano. La realtà il conto alla sinistra lo ha già presentato. Alla destra, su questi presupposti, lo presenterà subito dopo il voto. Certo, affrontarlo dalla stanza dei bottoni non è poca cosa…

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