Life: Aggressivi, violenti e arroganti, siamo tutti così perché ce lo impone la società…

D’accordo, non si possono scaricare le colpe sempre sulla società che condiziona, plagia, intossica l’anima. D’accordo, la responsabilità è sempre individuale, ognuno conserva in ogni situazione un margine di libertà e di intelligenza per poter scegliere tra il bene e il male. Quindi sia chiaro: violenza, rabbia e aggressività sono il bagaglio emozionale di tutti noi. Ogni società ha un pensiero di fondo che la nutre e la permea, segna un tragitto piuttosto che un altro, indica dei valori e dei disvalori. E allora bisogna prender atto che oggi, sempre di più, la nostra società è imperniata su valori che sono strutturalmente aggressivi, che a volte si declinano in un modo più onorevole e altre volte in un modo più bestiale, ma che sono comunque violenti e sprezzanti… Il Neoliberismo di questi anni indica chiaramente la scala delle priorità. Innanzitutto bisogna affermare se stessi, competere e vincere. Bisogna essere ricchi e potenti. Possedere molto e odiare la parsimonia, la frugalità, la mansuetudine. Bisogna stare nella gara ed essere capaci a fare a sportellate con gli altri, perché gli altri sono sempre almeno dei rivali (quando non addirittura dei nemici). Bisogna rincorrere il piacere personale, anche a costo di considerare il prossimo come puro strumento. Bisogna prendere tutto quello che si può prendere, perché la torta è piccola e non ci sono fette per tutti. Questo è divenuto il vangelo dei nostri anni. E allora, in una cultura del tutti contro tutti, dell’arraffa arraffa, del primato individuale non deve sorprendere che a partire dagl’adolescenti si traducano in violenza questi dettami. L’Italia nel giro di qualche lustro è diventato un Paese incolto nel quale ogni regola è approssimativa, il suo rispetto incerto, mentre i tratti d’inciviltà non si contano più. Basta guardarsi intorno: sono sempre più diffusi e sempre meno sanzionate dalla condanna pubblica: l’ignoranza, la superficialità, la maleducazione, la piccola corruzione, l’aggressività gratuita… Una discussione realmente informata su un qualsiasi argomento economico, politico o sociale è ormai quasi impossibile… tutto diventa polemica e contendere. In generale e specie in pubblico l’italiano medio sopporta sempre meno di essere contraddetto e diffida di chi prova a farlo ragionare, mostrandosi invece disposto a credere volentieri alle notizie e alle idee più strampalate. No, nessuna esagerazione: è l’immagine che sempre più dà di sé il nostro Paese, in ogni ambito. Non ve più alcun dubbio che nel costume degli italiani è intervenuta una frattura profonda, che ha inevitabilmente modificato anche la qualità della cultura civica della Penisola e quindi di tutta la nostra vita collettiva a cominciare proprio dalla vita politica. Il cui degrado non comincia a Montecitorio, comincia quasi sempre a casa nostra, e nel “palazzo” entra eletta! Si parla di frattura perché le cose non sono andate sempre così. È vero che al momento della sua nascita lo Stato repubblicano non ha potuto certo contare su cittadini istruiti e tanto meno su un diffuso senso civico o su una vasta acculturazione di tipo democratico. Inizialmente, infatti, la cultura civica del Paese fu limitata in sostanza a quella delle sue élite politiche e del sottile strato di persone a esse in vario modo vicine (e si sa con quali e quante contraddizioni!). Ma a compensare in qualche misura queste carenze, e quindi a rendere possibile la crescita di una vita pubblica più o meno consona ai nuovi tempi democratici, valse almeno il fatto che nel tessuto italiano continuavano pur sempre a esistere una tradizionale civiltà di modi, una costumatezza delle relazioni sociali, un antico riguardo per le forme e per i ruoli, un generale rispetto per il sapere e per l’autorità in genere… Fu su questo terreno che nel corso del primo mezzo secolo di vita della Repubblica ebbero modo di mettere radici e di consolidarsi una non disprezzabile educazione civica e politica, una discreta consuetudine alle regole della convivenza e della libera discussione. Contò naturalmente l’innalzamento del reddito e delle condizioni di vita, ma una parte decisiva ebbero altri fattori. Innanzitutto l’esistenza di una politica fondata sulle grandi organizzazioni di massa — i partiti e i sindacati con le loro scuole… poté così svolgersi l’esperienza su vasta scala di una socialità discorsiva bene o male fondata sull’argomentazione razionale e sulla conoscenza dei problemi e delle possibili soluzioni. Contarono sicuramente la presenza nel Paese di forti fonti di socializzazione: la Chiesa, la Scuola, la Leva Militare e poi la televisione pubblica. Nel dopoguerra per milioni di italiani avviati a uscire da un mondo rurale spesso primitivo, la parrocchia, l’oratorio, fu una palestra di acculturazione civile, di una certa appropriatezza di modi, di rispetto delle competenze e dei ruoli, di avviamento alle regole di una non belluina convivenza. Opera in parte analoga svolse la scuola obbligatoria. Ancora sicura di sé, della sua funzione e del suo buon diritto a esercitarla, la scuola istruì, valse a sottolineare senza remore l’indiscutibile centralità della cultura e dello studio, educò alle forme basilari della modernità e delle istituzioni dello Stato così come alla disciplina e al rispetto dell’autorità. A un dipresso le medesime cose fece l’esercito di leva, in più addestrando in molti casi al valore della competenza, alla coesione in vista di un traguardo collettivo, alla solidarietà di gruppo, al carattere inevitabile di una gerarchia. Infine vi fu la televisione pubblica. Padrona monopolistica dell’immaginario del Paese, essa si propose di esserne la grande pedagoga. E lo fu: in un modo che oggi fa sorridere ma lo fu. Divulgò la lingua nazionale, diffuse un’informazione sapientemente calibrata, cercò d’ispirarsi per tutto il resto alla buona cultura, al «sano» divertimento, ai «buoni» sentimenti, a una morale cautamente in equilibrio tra vecchio e nuovo. Il tutto all’insegna della compostezza e delle buone maniere: perfino i conduttori dei telequiz si rivolgevano alla «signora Longari» chiamandola per l’appunto signora… Intendiamoci, non è che l’Italia d’allora fosse una specie di idilliaco piccolo mondo antico: tutt’altro. Ma fino agli anni 80 la nostra rimase comunque una società strutturata intorno a fonti formative consistenti: ciascuna animata a suo modo dalla consapevolezza di avere un compito da svolgere e decisa a svolgerlo. Come invece sono andate le cose si sa e si vede. L’Italia ha visto per varie ragioni e in vari modi, ma più o meno nello stesso giro di anni, a partire dagli anni 80-90 — scomparire. Scomparire, intendo, nelle forme che esse avevano un tempo (o come la leva cancellate del tutto), per essere sostituite dalle forme nuove richieste dai «gusti del pubblico», dagli «indici di ascolto», dai sindacati, dai «movimenti», dalle «attese delle famiglie», dalle «comunità di base», dalla «pace», dai «tempi della pubblicità», dai «bisogni dei ragazzi», dal desiderio dei vertici di non dispiacere a nessuno. È così da due-tre decenni il Paese è rimasto privo di qualunque sede pubblica deputata alla formazione non solo e non tanto culturale ma specialmente del carattere e della sensibilità civile, all’insegnamento di quei valori in definitiva morali su cui si regge la convivenza sociale… Si è coltivata, alla fine, un’idea fasulla di modernità e di libertà l’Italia ha assistito, addirittura compiaciuta, spesso sollecitata da una mercantile informazione dei vari Media, al progressivo smantellamento di istituzioni che alimentavano la democrazia con il flusso vitale del sapere disinteressato, della tradizione, della possibilità dell’auto – riconoscimento collettivo. Viva la disintermediazione e quanto unisce gli individui in un popolo… viva un popolo di individui. E, siamo arrivati in tal modo ad essere una società senza veri legami, spesso selvatica e analfabeta di ritorno, ogni volta che convenga frantumata in un individualismo carognesco e prepotente. L’Italia di oggi insomma, illusa e inconsapevole del brutto Paese che essa ormai è diventato… Svincolato da un lato dalla produzione di un sapere realmente libero, fatto cioè di analisi, di idee e valori condizionati solo dalla personale ricerca della verità e dall’altra la formazione di vere élite del merito. Solo a queste condizioni si crea un ambiente sociale e un’atmosfera psicologica dove di regola l’ultima parola non l’abbiano, da soli o coalizzati, chi alza più la voce, chi possiede più ricchezze o chi ha dalla sua il maggior numero. Un ambiente sociale e un’atmosfera dove al potere della politica e dell’economia (o della demagogia e della corruzione che sono i loro frequenti sottoprodotti) siano in grado di contrapporsi gerarchie diverse. Dove al potere della politica e della ricchezza fanno da contrappeso il condizionamento della formazione culturale, i vincoli dell’etica, il giudizio dell’opinione pubblica informata… il semplice buon senso. “Ci vuole un’altra vita”, cantava Battiato tanti anni fa. Se vogliamo che i ragazzi delle periferie urbane come quelli dei quartieri ricchi comincino ad apprezzare la solidarietà, la compassione, il bene collettivo serve una sterzata decisa. Serve immaginare un mondo diverso, niente di utopico, semplicemente un mondo dove c’è posto per tutti e dove nessuno può disprezzare nessuno. Chiamiamolo come ci pare, Eldorado o socialdemocrazia, ma che sia un mondo capace di ragionare intorno al bene comune. Vedremo allora una generazione nuova che non vive per strappare le Nike dai piedi dei coetanei, che non umilia una ragazzina, che non si umilia per dimostrare ignobilmente di essere più forte e più cattiva.

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