Covid-19: spiacenti di informarvi che non è il momento di assembrarsi e togliersi la mascherina…

Se c’è una cosa che ci ha insegnato la pandemia: è il modo al tempo stesso asimmetrico, asincrono e inesorabile con cui  diffonde i suoi effetti da un paese all’altro. Purtroppo sembra che noi  non impariamo mai niente. Ci pensavo sfogliando i giornali (il verbo è ovviamente un residuo linguistico di un’era tecnologicamente sorpassata, ma non me ne viene uno più adeguato) passando dalle pagine di politica interna, con le polemiche sugli assembramenti dei tifosi interisti a Milano… con la polemica Salvini-Sala, sulla festa scudetto Inter e se fosse: “meglio lo stadio della piazza…” alle pagine di politica estera, con la gara in corso sugl’allentamenti delle misure anticovid, promessi o già in atto, nei paesi più avanti con le vaccinazioni, dalla Gran Bretagna alla Germania, dagli Stati Uniti a Israele. Quindi, mentre in Italia ci si accalca per festeggiare lo scudetto e si pensa alle vacanze, negli Stati Uniti gli scienziati dicono che l’immunità di gregge è più lontana del previsto, e forse irraggiungibile. Dall’India al Brasile mezzo mondo è ancora in fiamme, ma l’altra metà già vuole rimuovere gli estintori… Notizie che fanno a pugni con quelle provenienti dal resto del pianeta, in particolare dalla parte meno ricca, come India e America Latina, dove il contagio appare semplicemente fuori controllo. In pratica, mentre tutto intorno a noi il mondo va a fuoco, là dove si è appena riusciti a contenere l’incendio, la prima cosa a cui si pensa è a come buttarsi tutto quanto alle spalle rapidamente. Del resto persino da noi, dove la campagna di vaccinazione è assai più indietro, sono già fiorite surreali discussioni sulla possibilità di consentire ai vaccinati di togliersi la mascherina, cioè praticamente l’unica misura di sicurezza che avevamo cominciato ad applicare seriamente (sia pure con molti limiti). Mentre qualche giorno fa il New York Times scriveva che gli scienziati concordano ormai sul fatto che l’immunità di gregge, per gli Stati Uniti, sia più lontana del previsto, e che forse, semplicemente, non la raggiungeranno mai. Perché le nuove varianti sono molto più contagiose, perché i discorsi sulla percentuale di immunizzati a livello nazionale non tengono conto delle differenze da una città all’altra (alimentate dall’estesa diffidenza verso i vaccini e dalla sua ineguale distribuzione territoriale), e cioè di potenziali focolai in cui il virus può continuare a prosperare, per poi diffondersi anche in zone a più alta copertura, e perché, se questo discorso vale a livello nazionale, figuratevi a livello globale. Finché il virus avrà a disposizione interi continenti in cui diffondersi pressoché indisturbato, è inoltre probabile che la situazione peggiori anche dal punto di vista delle varianti (rendendo meno remoto persino lo scenario catastrofico, in cui le nuove varianti si rivelino non solo più contagiose e letali, ma pure capaci di eludere i vaccini). Secondo gli studi più recenti i paesi che hanno puntato a sradicare il virus, investendo su tracciamento e prevenzione (Australia, Islanda, Giappone, Nuova Zelanda, Corea del Sud), non solo hanno avuto molti meno morti di quelli che hanno puntato su strategie “graduali”, ma hanno avuto anche i migliori risultati economici. A riprova di come una seria politica di prevenzione sia il modo migliore di garantire tanto la sopravvivenza fisica quanto la sopravvivenza economica. Tra i paesi che hanno optato invece per una strategia chiamiamola; “gradualista di convivenza” con il virus, come l’Italia, che è stata probabilmente quella che ha oscillato di più: dal primo, durissimo e lunghissimo lockdown di marzo-aprile 2020 all’incredibile liberi-tutti che ne è seguito, e che non si è voluto abbandonare fino allo scorso novembre inoltrato. Per poi scoprire improvvisamente che di tutte le cose che si sarebbero dovute riorganizzare nel frattempo, per permettere almeno una parziale “convivenza” con il virus, non si era fatto praticamente niente (responsabilità che va sempre equamente distribuita, per essere onesti, tra il governo centrale e le diverse amministrazioni regionali). E sapete perché? Perché più o meno tutti quanti – salvo una manciata di epidemiologi guastafeste, che per questo sono stati spesso irrisi come menagrami (vedi Galli e Grisanti), e magari qualche giornalista meno incline a bersi la fesseria del «modello italiano» – si erano voluti convincere del fatto che, la guerra fosse finita, il nemico scappato, e potessimo smettere di preoccuparcene. E quanto una simile convinzione avesse via via fatto presa anche sui ministri più prudenti lo testimonia l’imbarazzante vicenda del libro di Roberto Speranza ritirato dalle librerie all’ultimo minuto per manifesta non corrispondenza con la realtà. Quello che va rimproverato alla politica in generale, sia prima che adesso, non è di non essere stata capace di prevedere il futuro, ma di essersi voluta aggrappare con tutte le sue forze allo scenario migliore, una sorta di principio di non-precauzione portato avanti anche quando, come a ottobre inoltrato, i segnali dell’inversione di tendenza erano evidenti a tutti. Se però vogliamo evitare di rifare il giro completo ancora una volta, forse dovremmo smettere di discutere di quando potremo tornare a giocare allegri e spensierati come facevamo prima del virus, e cominciare a discutere di cosa possiamo fare adesso per evitare di ritrovarci sempre di nuovo al punto di partenza, nello sfortunato caso in cui, con le varianti, i vaccini e le poche difese su cui continuiamo riporre ogni speranza, non tutto dovesse andare secondo le nostre più rosee aspettative…

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