Nell’epoca cosiddetta post-ideologica due nuove rappresentazioni del conflitto socio-politico si stanno imponendo a tutto campo. La prima sostituisce alle contraddizioni novecentesche di classe, di sesso, di identità la frattura alto-basso, elite-popolo, 1%-99%, che mobilita partiti e movimenti (di destra e di sinistra) anti-establishment. La seconda risponde mettendo i suddetti partiti e movimenti nel mucchio del “populismo anti-politico” e evocando all’establishment il monopolio della politica.
Gli effetti nefasti di questa risposta sono la rappresentazione di una cittadella politica assediata dai barbari e pertanto da presidiare con qualunque genere di alleanza contro gli invasori; si sono già visti alle elezioni politiche del 2013, quando l’appello all’accordo fra i riformismi di centrodestra e di centrosinistra contro i populismi a nulla valse a fermare l’avanzata largamente superiore alle aspettative del Movimento 5 stelle. Ma si sa che in politica la coazione a ripetere è più forte di qualunque prova dei fatti, e dunque ci risiamo: mai come in questo momento l’alternativa politica/antipolitica viene evocata a proposito e a sproposito a tutela di ciò che resta di un sistema politico minacciato da una non meglio specificata onda populista… anche per le prossime elezioni amministrative.
Sul Corriere Della Sera di qualche giorno fa… Angelo Panebianco tenta di dare a quest’alternativa un fondamento attendibile. Scrive, con ragione, che a essere in pericolo oggi non è tanto, genericamente, la politica, quanto la sua autonomia, ovvero la forma specifica che la politica si è data in età moderna distinguendosi da altre sfere dell’agire associato, in particolare dalla sfera giuridica e dalla sfera morale. Che sono precisamente le due sfere su cui i populismi di oggi cercano di schiacciarla.
Ci sarebbe infatti, secondo Panebianco, un populismo moralista, che tenta di ricondurre la politica ai criteri più beceri della morale corrente (“i politici sono tutti ladri”), e un populismo giuridico, che tenta di ricondurla (e sottoporla) al linguaggio del diritto (e al potere giudiziario). L’uno e l’altro togliendole quell’autonomia che è condizione della sua esistenza, nonché del principio liberale della divisione dei poteri. Fin qui ci si potrebbe anche stare; non fosse che il ragionamento di Panebianco pecca di due sorprendenti omissioni. La prima: la perdita di autonomia della politica, in Italia e in tutto l’Occidente, non si deve in primo luogo all’attacco del populismo moralista e di quello giuridico, bensì alla spontanea resa della politica alle ragioni dell’economia.
È stato il neoliberalismo, ben prima di Beppe Grillo o di Antonio Di Pietro, a smantellare programmaticamente e strategicamente l’autonomia della politica, per ridurla a esecutivo dell’impresa, del mercato e della finanza, senza incontrare resistenze significative.
Seconda omissione: la riduzione della politica al linguaggio della morale e della legge è sì una deriva negativa, ma siamo sicuri che a innescarla sia stato l’attacco populista e non la perdita di pregnanza e di senso del linguaggio della politica?
Nasce prima il populismo moralista o la corruzione, la hybris del sistema giudiziario o la violazione sistematica del principio di legalità…
La vera divisione non passa, oggi e non da oggi, fra cultori dell’autonomia della politica e fan dei movimenti populisti. Passa fra chi chiama autonomia quella che è diventata mera autoreferenzialità, e chi pensa che quell’autonomia la politica, purtroppo, l’ha persa da sola.
Ovvero fra chi pensa che la politica sia vittima dell’attacco populista, e chi pensa che sia vittima di se stessa.
L’antipolitica e il populismo sono effetti, non causa, della crisi, anzi del …suicidio, di ciò che un tempo chiamavamo politica.
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