New York Times World Review 2022
L’autoritarismo cresce ovunque e l’immagine degli Stati Uniti si è molto deteriorata. Ma la sfida dei nostri tempi (e non solo in Occidente) è qualcosa di più complesso di una “semplice” battaglia tra le democrazie e le autocrazie.
di Steven Erlanger, giornalista The New York Times
La democrazia sembra sotto attacco ovunque. E coloro che l’attaccano vanno dai populisti locali arrabbiati fino agli autocrati che sostengono che un potere statale senza ostacoli produce più benefici per i comuni cittadini e che le democrazie siano troppo rumorose e divise per combinare qualcosa di buono. E anche all’interno dell’Unione europea vengono lanciate delle vere sfide alla democrazia e allo Stato di diritto da parte della Polonia e dell’Ungheria, un Paese, quest’ultimo, riguardo al quale l’Europarlamento ha recentemente dichiarato che «non può più essere considerato una piena democrazia», bensì «un’autocrazia elettorale». La vittoria della democrazia liberale, che Francis Fukuyama giustamente celebrò dopo il collasso dell’Unione sovietica, oggi può suonare come qualcosa di vacuo. O, quantomeno, essa è sottoposta a una severa minaccia da parte di autocrazie che vanno dalla Russia alla Cina alla Turchia passando per il Brasile e per i Paesi del Golfo ricchi di petrolio. Secondo i dati del V-Dem Institute, che monitora la democrazia e le sue varianti, alla fine degli anni Novanta erano settantadue i Paesi che si stavano democratizzando ed erano soltanto tre quelli che stavano invece scivolando verso un maggiore autoritarismo. L’anno scorso, soltanto quindici Paesi stavano diventando più democratici a fronte di trentatré che stavano invece andando nella direzione opposta. Secondo V-Dem, le democrazie liberali sono al loro livello più basso degli ultimi venticinque anni: oggi nei Paesi che possono essere definiti così vive soltanto il 13 per cento della popolazione mondiale. Le “autocrazie chiuse” (e cioè assolute, ndr) governano sul 26 per cento della popolazione mondiale e le “autocrazie elettorali” sul 44 per cento. Il “periodo unipolare” americano è quindi finito da un pezzo. E il disordine mondiale che sta emergendo sarà «complesso, frammentato e fluido, con dei contorni frastagliati disegnati da alleanze opportunistiche, patti plurilaterali e da confini che si accavallano», ha scritto Philip Stephens, contributing editor del Financial Times, in un suo saggio per l’Institut Montaigne. Gli Stati Uniti e i suoi alleati della Nato sono seriamente impegnati nell’aiutare l’Ucraina a respingere l’invasione russa e tutto ciò viene presentato come una lotta per la democrazia e contro il totalitarismo. Ma ci potrebbe essere un fraintendimento sulla reale natura di questa guerra – e potrebbe essere troppo ottimistica la visione che si ha dell’Ucraina che, soltanto pochi mesi fa, ben difficilmente sarebbe stata presa come modello di democrazia o di trasparenza. Tuttavia, come sempre, la politica ha bisogno di slogan e “democrazia versus autoritarismo” è uno slogan che vende bene. Questa contrapposizione, promossa dal presidente americano Joe Biden, è però troppo semplicistica, dal momento che alcuni alleati della Nato, come l’Ungheria e la Turchia, così come gran parte del Sud globale, inclusa l’enorme e perlopiù democratica India, si sono rifiutati di unirsi all’Occidente nel sanzionare la Russia e considerano la guerra in Ucraina con una forma di guerra per procura tra Stati Uniti e Russia. E le democrazie occidentali, alla disperata ricerca di energia per rimpiazzare il petrolio e il gas russi, hanno dovuto presentarsi con il cappello in mano presso alcuni dei leader più autocratici del mondo. Mentre la Russia e la Cina cercano di alterare, o addirittura di distruggere, l’ordine internazionale costruito dai vincitori democratici della Seconda guerra mondiale, «la competizione geopolitica che conta davvero non è quella tra le democrazie liberali e il resto del mondo», ha scritto Stephen, «ma quella fra lo Stato di diritto e la legge del più forte». Nell’ambito di questo scontro, la profonda polarizzazione della democrazia americana e la sua decadenza sono fattori importanti, che la rivoluzione digitale rende evidenti in ogni angolo del mondo. «Alla fine, gli Stati Uniti sono lo specchio nel quale osserviamo noi stessi», dice Arancha González Laya, che è stata ministro degli Esteri della Spagna ed è ora preside della Paris School of International Affairs di Sciences Po. «Per questo sono molto preoccupata. Tutto quello che accade negli Stati Uniti non si limita ai soli Stati Uniti ma viene analizzato e osservato in Europa e nel resto del mondo». Gianni Riotta, visiting professor a Princeton, aggiunge ulteriori elementi a questa riflessione. Con lo scompiglio economico, l’aumento delle diseguaglianze, l’erosione dell’identità nazionale causata dalla globalizzazione e la dilapidazione di enormi sforzi militari in Iraq e in Afghanistan, «gli Stati Uniti e l’Occidente hanno perso il loro soft power», dice Riotta. «I nostri sforzi di promuovere la democrazia in Medio Oriente e in Afghanistan sono falliti». Per molti in Occidente, specialmente tra i giovani, aggiunge, «la democrazia è importante ma lo sono anche il clima e l’economia». Per la capacità di influenza sul mondo dell’America il fallimento in Iraq è stato un colpo peggiore della sconfitta nella guerra del Vietnam e anche il recente, umiliante ritiro dell’Afghanistan, dopo uno sforzo di oltre vent’anni per costruire la democrazia, ha fatto un gran danno, sostiene Stefano Pontecorvo, che è stato senior civilian representative della Nato in Afghanistan ed è stato uno degli ultimi a lasciare il Paese dopo la presa del potere da parte dei talebani. Al picco della guerra, gli Stati Uniti spendevano miliardi di dollari all’anno, e tutto è finito in niente, dice Pontecorvo. «Il problema con l’esportazione della democrazia è che non è naturale in quei Paesi», aggiunge. «Non puoi imporre i tuoi valori. Devi adattarli ai valori che ci sono in quel Paese». Ma un rapido declino dell’America non è necessariamente auspicato neppure dal suo principale rivale strategico e ideologico, la Cina. O, perlomeno, non subito, come ha spiegato Huang Jing, uno studioso di politica sino-americano che insegna alla Shanghai International Studies University. In questi tempi difficili, la Cina è interessata alla stabilità, ha detto Huang Jing al Forum Ambrosetti di quest’anno. La Cina e la Russia hanno «un’amicizia senza limiti», ma non un’alleanza a ogni costo. La Russia ha «una grande capacità di distruzione» dell’attuale ordine mondiale, ha spiegato, mentre la Cina, vedendo il marasma in Ucraina, «sta cercando di mantenersi nell’attuale ordine e di avere un ruolo da peacemaker che contribuisce al bene collettivo». «Un declino disordinato degli Stati Uniti è disastroso per noi e per l’economia globale», ha affermato Huang Jing. «La Cina ritiene che degli Stati Uniti stabili, coesi e prosperi siano un bene per la Cina, almeno per il momento». Niall Ferguson, storico della Stanford University, pone però l’attenzione sull’eccesso di sicurezza in se stessi dei cinesi. Stanno facendo lo stesso errore della Germania degli anni Trenta e della Russia degli anni Settanta: stanno sottostimando la straordinaria forza della democrazia, dice Ferguson. «Stanno credendo alle nostre autocritiche e alla nostra autoflagellazione e non stanno vedendo i loro stessi problemi e i loro errori». Ma è chiaro che la Cina pensa che gli Stati Uniti e la loro democrazia siano in un declino terminale e per questo ha provveduto, in patria, a controllare o censurare tutte le cose che ritiene siano state il motore determinante di quel declino – e specialmente i social media e Internet. La digitalizzazione dello spazio politico e la confusione tra verità e menzogna hanno indebolito la democrazia, sostiene Bruno Le Maire, ministro francese dell’Economia, della Finanza e della Sovranità industriale e digitale. «La rivoluzione digitale non ha cambiato soltanto l’organizzazione delle nostre nazioni e delle nostre società, ma anche i nostri cervelli», ha detto in un’intervista. «Non ci può essere democrazia senza uno spazio comune per il dibattito. E qual è l’esito di un dibattito politico? Una maggioranza di persone che si ritrova intorno a delle verità condivise, a delle osservazioni condivise, a delle diagnosi condivise. Ma nell’era della rivoluzione digitale non c’è nulla di questo tipo». I social media sono «un diverso universo mentale» che non ha «una verità unica», mentre «alla base della democrazia c’è proprio la distinzione tra verità e menzogna», sostiene Le Maire. «E oggi è questa la questione politica più importante, perché le nostre democrazie liberali sono profondamente indebolite dalla rivoluzione digitale e dalla individualizzazione della società». Bernard Spitz, avvocato e consulente del Medef, che è la più grande associazione francese dei datori di lavoro, è d’accordo sul fatto che la globalizzazione e la digitalizzazione abbiano alterato le società democratiche e che esse, «come tutte le rivoluzioni, possano portare le cose migliori e le cose peggiori» e quindi anche dei dubbi sulla bontà della democrazia e della stabilità, delle manifestazioni più visibili di estremismo e una «disillusione democratica». Ma, in combinato con il nuovo mondo digitale dei social media, c’è un’altra sfida alla democrazia che sta emergendo e che è generazionale. I giovani hanno più a cuore il cambiamento climatico, che considerano come una questione esistenziale, di quanto abbiano a cuore la democrazia liberale, dice Le Maire. «Per la generazione più giovane il tema centrale è il clima – la loro sensibilità politica è incentrata sul climate change». La democrazia è un duro lavoro e «va nutrita ogni giorno», dice l’ex ministro degli Esteri della Spagna, Arancha González Laya. E Riotta aggiunge che il reale pericolo ora non è il fascismo: «Il vero pericolo è la stanchezza della democrazia».
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