Governo: il giorno della marmotta. Il governo Meloni procede inarrestabile nella sua marcia all’indietro…

 

A guardar bene, sono poche le scelte compiute o annunciate dall’Esecutivo che la premier Meloni non si sia parzialmente o interamente rimangiata. Ma proprio la sua debolezza solleva un inquietante interrogativo: e dopo?

Dalla norma anti-rave alla politica dei porti chiusi, dal Pos al bonus cultura per i diciottenni, sono poche le scelte compiute, annunciate, tentate o ipotizzate dal governo in questi suoi due primissimi mesi di vita che Giorgia Meloni non abbia dovuto rimangiarsi, correggere, precisare (più spesso tutte e tre le cose, in ordine inverso). Se ci fosse bisogno di altri esempi, basta scrivere il suo nome su Google accanto alle parole «Groundhog Day» per ottenerne un elenco ampio e vario. Non c’è male, come luna di miele. Considerate le posizioni di partenza, va detto che ogni passo indietro della maggioranza è un grande passo avanti per l’Italia, e c’è solo da rallegrarsene. Se si vedono le cose in prospettiva, il fatto che la febbre populista si stia gradualmente abbassando potrebbe indurre a un certo ottimismo. È evidente il progresso, ad esempio, rispetto alle pulsioni autodistruttive del primo governo gialloverde. Sembra esserci stavolta maggiore cautela e soprattutto maggiore prontezza nella ritirata (evitando mesi di sofferenze sui mercati, isolamento nei vertici europei e derisione sulla stampa internazionale, come ai tempi del deficit al 2,4 poi ridimensionato a un ridicolo 2,04, nella speranza di prendere almeno il voto degli affetti da discalculia). Tra le novità positive c’è anche un dato più generale: che Giorgia Meloni non è Matteo Salvini. E che il Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte, con tutta la sua carica demagogica, le sue ipocrisie e la sua irresponsabilità in politica economica e in politica internazionale, è comunque cosa molto diversa dal movimento para-eversivo di Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista (quelli che nel 2018 chiedevano in piazza l’impeachment del capo dello Stato). Infine, lo stesso Salvini, per quanto ancora capace di fare danni (vedi il suo contributo alla crisi diplomatica con la Francia e alle scelte più scellerate del suo successore al Viminale), appare decisamente indebolito, anche dentro la Lega. C’è da augurarsi che la rapidità della sua parabola serva di lezione a tutta la destra italiana, e funzioni da vaccino contro future avventure. La debolezza del governo e la litigiosità della coalizione che dovrebbe sostenerlo, le cui divisioni sono apparse evidenti sin dal primo giorno, anzi da prima ancora, già con l’elezione del presidente del Senato, sollevano però un’altra questione, vale a dire: e dopo? Si dice spesso che la forza di Meloni stia nella mancanza di alternative, ed è senz’altro vero, ma forse è anche un eufemismo. Le alternative, più che assenti, appaiono già consumate. È almeno dal 2011 che vediamo governi populisti dotati di amplissime maggioranze e praticamente senza alternative cadere rovinosamente sotto il peso delle loro stesse contraddizioni, per essere sostituiti da governi di larga coalizione o di unità nazionale, ovviamente giustificati dall’emergenza (finanziaria, istituzionale, internazionale). In quest’opera di pronto soccorso democratico si è distinto, in particolare, il Pd, trasformandosi col tempo in una sorta di reparto speciale della protezione civile del paese, dei suoi conti pubblici, delle sue alleanze internazionali. Comunque, se ne giudichi l’operato, è un fatto che in questo lavoro il Pd ha finito per perdere non solo identità (volendo o dovendo governare con tutti, a tutte le condizioni, era forse inevitabile) ma anche buona parte della sua legittimazione. Agli occhi dell’opinione pubblica è ormai il partito che da quindici anni perde sempre le elezioni e non va mai all’opposizione, salvo brevissime parentesi tra un governo di emergenza e l’altro. Se l’Italia avesse un sistema elettorale completamente proporzionale, la formazione di governi di coalizione relativamente eterogenei, nati dopo il voto, sarebbe la fisiologia del sistema e non necessiterebbe di alcuna particolare emergenza, vera o presunta, come giustificazione. Il carattere centripeto del sistema, inoltre, favorirebbe verosimilmente combinazioni diverse. Da trent’anni abbiamo invece un sistema che promette sulla carta governi scelti direttamente dagli elettori, sulla base di coalizioni preelettorali fissate in anticipo, che cominciano ad andare in pezzi un minuto dopo il voto, e raramente reggono più di un anno e mezzo. Il risultato è il massimo dell’ingovernabilità e insieme il massimo della delegittimazione di tutte le forze e le soluzioni di governo. C’è proprio bisogno di essere delle cassandre per concluderne che nessuna democrazia può sopravvivere a lungo a una cura simile? Consapevole del problema, ancora una volta, come ogni volta da trent’anni a questa parte, il vincitore di turno si propone di ridisegnare Costituzione e leggi elettorali per assicurarsi una maggiore stabilità. Qualora Meloni insistesse su questa strada, è probabile che il suo tentativo finirebbe come tutti i precedenti, offrendo ai suoi numerosi oppositori, anzitutto interni, il terreno ideale su cui impallinarla. Ma quale che sia il momento e l’occasione della prossima crisi, il guaio è che stavolta non si vede quali partiti avrebbero ancora la forza e la legittimazione minima per tentare una nuova combinazione di governo. Né apparirebbe più rassicurante l’idea di ritornare al voto in un quadro tanto frastagliato, per non dire spappolato, ma con una legge elettorale che in un simile contesto potrebbe produrre effetti distorsivi ai limiti dello psichedelico: sia che le diverse forze si presentassero divise, in quattro, cinque o sei poli (per l’effetto combinato dei collegi uninominali e delle soglie di sbarramento, tanto varrebbe tirare i dadi), sia che all’ultimo momento si rimettessero malamente insieme, in coalizioni ancora più eterogenee delle precedenti, destinate a esplodere ancora prima… saremmo punto e a capo.

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