Italia: un paese rassegnato al lockdown, considerato un castigo inevitabile più che una strategia anti Covid-19…

Ormai, la questione non pare essere se chiudere tutto ma quando. E su questo pseudo enigma si materializzano due governi: quello nazionale che temporeggia e quello del governatore campano De Luca che manda in tilt il primo invocando la clausura generale in tutta Italia. Il lockdown nella mente ce l’abbiamo tutti, diciamoci la verità, dentro di noi lo consideriamo inevitabile, forse più come un castigo che come una strategia. Un castigo per le leggerezze di quest’estate, o per peccati di omissione commessi negl’ultimi 25 anni di vita politica, economica e sociale del Paese. Sì, tutti colpevoli… anche noi semplici cittadini. Ma non è questo il punto. Il lockdown come arma finale, quando tutte le altre hanno fatto cilecca – i lockdown mirati, i coprifuoco notturni, la dad (didattica a distanza), gli aut aut alle palestre e altre amenità e mezze misure. La questione ormai non pare essere se chiudere tutto ma quando. Nessuno si vuole prendere la responsabilità del fallimento della gestione dell’epidemia, ma qualcuno – il Governo, le Regioni, il Comitato tecnico-scientifico – dovrà pur risponderne. Il sistema di tracciamento è saltato e sta per saltare completamente in gran parte delle regioni italiane, alcune delle quali – come Lombardia e Piemonte – in questi giorni hanno ammesso pubblicamente di avere ormai gettato la spugna. Il che significa, né più né meno, che il risultato dei tanto celebrati sacrifici compiuti durante il lockdown sta evaporando rapidamente. Senza che nessuno senta il bisogno di assumersene la responsabilità. Non si tratta di un segreto di stato: dalle Asl agli esperti più autorevoli, compresi consiglieri del ministro della Sanità come Walter Ricciardi e componenti del comitato tecnico-scientifico, a cominciare dal suo presidente Agostino Miozzo, in molti hanno finito per riconoscere quello che la fondazione Gimbe ha certificato nei giorni scorsi nel suo report settimanale, e cioè «il fallimento del sistema di testing & tracing per arginare la diffusione dei contagi». Come ha spiegato al Corriere della Sera l’epidemiologo Carlo La Vecchia, la ragione è semplice: «Ormai ci sono troppi casi per poterlo ritenere uno strumento utile». Ma già martedì scorso Andrea Crisanti, il padre del modello Veneto, era stato ancora più netto in un’intervista all’Huffington Post: «In Italia siamo in grado di tracciare fino a 2.000 casi al giorno con le capacità che abbiamo. Con 12mila contagi salta tutto, il sistema va in tilt: non c’è contact tracing né App Immuni in grado di reggere un impatto del genere». Figuriamoci ora che abbiamo superato i 19mila contagi giornalieri. In diverse regioni non si riesce neanche a trovare un operatore in più per inserire i dati trasmessi dagli utenti, quelli in servizio sono già pochi e se si pensa che, alla fine, a scaricare l’app Immuni, sono stati circa nove milioni di italiani, la carenza dei famosi “tracciatori” era subito vedibile. Diciamocelo chiaramente più gli Italiani rispondono agli appelli di utilizzare gli strumenti di prevenzione dei contagi. E più l’organizzazione istituzionale a tutti i sui principali livelli di governo (Stato,Regioni e Comuni) mostra la propria insufficienza organizzativa. Figuriamoci se già oggi in diverse regioni le file ai tamponi durano anche dodici ore, una vergogna nazionale – regionale e territoriale – che costringe le persone a mettersi in auto all’alba e ad affrontare code interminabili in condizioni indegne, magari con due soli bagni chimici a disposizione, come in alcuni drive-in, per centinaia di persone (tra le quali, non dimentichiamolo, c’è un alto numero di positivi contagiosi, per ovvie ragioni statistiche). Se è vero, come ormai ripetono tutti, che l’argine del tracciamento è crollato, qualcuno dovrà pure risponderne: il governo, le regioni, il comitato tecnico-scientifico, chi volete voi. Ma non è possibile continuare a cavarsela ripetendo che in Francia o in Spagna stanno peggio di noi, cioè esattamente con l’atteggiamento che all’inizio, quando eravamo noi in cima alla classifica dei contagi, mostravano la Francia e tanti altri paesi nei nostri confronti, e che giustamente stigmatizzavamo come prova di superbia e di cecità. È chiaro che si tratta di una situazione difficilissima per tutti. Ma non è possibile passare nel giro di due settimane dal sentirci dire che eravamo i numeri uno al mondo nella gestione della pandemia al sentirci dire che la situazione è ormai fuori controllo. Eppure è esattamente quello che sta accadendo. Esponenti di governo e opposizione fanno a gara nel gridare a più non posso che mai e poi mai, per nessuna ragione al mondo, possiamo tornare al lockdown totale (la prima volta evidentemente lo abbiamo fatto per il gusto di farlo) e che mai e poi mai, per nessun motivo nell’universo, avremmo privato ancora i nostri ragazzi della presenza a scuola (la prima volta evidentemente lo abbiamo fatto per vedere l’effetto che fa), ecco che adesso, alla chetichella, una regione prima e una dopo, già cominciamo con i lockdown notturni (la famosa “movida” che sembra essere una priorità un diritto essenziale, che però rischia di essere esiziale per il nostro Bel Paese). Poi la didattica a distanza per le superiori (nella consueta, confusa, casuale escalation di provvedimenti nazionali e locali, a volte persino in aperto contrasto tra loro – vedi l’ultima incredibile polemica tra la ministra dell’Istruzione e i presidenti di Lombardia e Campania, peraltro di opposto colore politico). E tutto questo a nemmeno un mese dalla ripresa autunnale e dalla riapertura delle scuole, con la parentesi elettorale regionale e referendaria. Chissà quanti saranno i contagiati che hanno preso il virus, quando sono andati a votare gli scorsi 20/21 settembre 2020? Ce ne siamo già scordati? In pratica, tenendo conto dei venti giorni circa che ormai abbiamo imparato a considerare come il tempo minimo per verificare gli effetti di qualunque misura anti-contagio, possiamo concluderne che il modello italiano, il sistema di regole e protocolli (compreso quello per votare) di cui ci siamo vantati un’intera estate – vale a dire tutto quello che governo, regioni ed esperti avrebbero dovuto fare negli ultimi sei mesi – non ha funzionato un solo giorno… Ed ecco i che il lockdown diventa l’ultima barricata possibile, dopo la quale c’è la definitiva capitolazione. Ma è anche la barricata più alta, più resistente. Proviamola, anzi riproviamola, dice un agitato De Luca, un mese fa vincitore a valanga alle Regionali e che oggi pare un uomo solo contro il mondo. Ma lui parla chiaro, a differenza di Conte: tirare i ponti levatoi e tutti a casa. Si potrà non essere d’accordo ma l’alternativa, da palazzo Chigi, non la sanno ancora indicare, ci vogliono ancora ore, giorni, per confrontare le soggettività personali dei nostri politici, preoccupati prima della loro popolarità, che non della salute del popolo. Come il Pd a Roma (vedi Bettini in testa) che è contro Carlo Calenda, ma non sa avanzare una scelta migliore. E i numeri del contagio vanno sempre peggio. Fino a quando? Si è ammalato pure un cuoco del Quirinale. E speriamo che il Colle più alto, e il suo illustre inquilino (del quale forse il Paese vorrebbe ascoltare un messaggio dei suoi), ne restino immuni, cucine a parte. Il tutto mentre ogni ora c’è un presidente di Regione che chiude qualcosa, decreta coprifuoco, emana ordinanze, in un caleidoscopio di iniziative sconnesse fra di loro, seguendo il famoso ‘particulare’ dell’Italia dei Comuni, una visione del Paese, che non portò nulla di buono già nel Cinquecento. Illudendosi – come dice un proverbio arabo che: “spazzando ognuno davanti casa sua la città sarà pulita”. Ma non funziona così perché qui non si salva la Campania o il Veneto se non si salva tutto il Paese. Tutto questo succede perché c’è un altro lockdown. Quello di Palazzo Chigi (ahinoi e non solo in senso figurato). Un lockdown politico ormai evidente a tutti, amici e nemici. Alla squadra di governo andrà data tutta la comprensione umana: è tutta gente scossa, provata, stanca che rischia di pagare colpe non sue, o non solo sue. Succede ovunque, anche all’estero è così. Ma non basta, come scusante: si poteva far molto meglio perché avevamo il vantaggio di esserci già passati ma, come dice Crisanti, siamo tornati al punto di partenza, e questo è un dato di fatto. È chiaro che Conte non sa più cosa fare, che diversi ministri non reggono la gravità del momento. Ha voglia, Nicola Zingaretti, a chiedere al governo «un cambio di passo»: la verità è che non si regge in piedi. E siccome i vuoti si riempiono, siamo in una situazione nella quale decide De Luca. Così finisce il governo Conte 2…

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