LA DECRESCITA… non è una bestemmia!

di Serge Latouche*

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Alla conferenza di Stoccolma del 1972 si disse: «Bisogna uscire dalla crescita».

A quella frase l’allora presidente francese Valéry Giscard D’Estaing si oppose. Disse: «Non sarò un obiettore della crescita. Non possiamo uscire dalla crescita. Dobbiamo fare un’altra crescita». Oggi siamo allo stesso punto: per evitare di parlare di decrescita si dice «Facciamo la crescita verde!».
Alla crescita, insomma, non riusciamo a rinunciare. È un dogma. Parlare di decrescita è blasfemo, perché si mette in discussione una religione.
Bene, io sono un ateo della crescita, credo che la crescita sia un’illusione. E credo si debba auspicare una decrescita.
La parola crescita viene dalla biologia evoluzionista, da Darwin e Lamarcq, non dall’economia. Come lo sviluppo, l’evoluzione. In biologia, peraltro, si sa che un seme quando cresce non diventa un seme grande. In natura la trasformazione è qualitativa, non quantitativa.
Gli economisti hanno preso questo concetto biologico e l’hanno trasportato nell’economia. Hanno pensato che l’economia sia un organismo, che l’ambiente economico sia un sistema vivo. Solo che l’economia non è un organismo, è solo una parte dell’organismo della civiltà umana. Ma gli economisti vogliono trasformare tutto in economia. E allora oggi, gli economisti più pessimisti parlano di declino e di collasso economico. E da questo declino, da questo collasso, fanno discendere la crisi della civiltà occidentale.
Gli economisti, poi, hanno l’idea che attraverso l’economia si possano risolvere le crisi. Pensano che i loro modelli matematici possano essere applicati nella realtà. Sulla carta può esistere una crescita infinita, in effetti. Ma come diceva il più grande dei Marx – non Karl, Groucho – «Fate venire un bambino di cinque anni e fatevi spiegare che una crescita infinita è impossibile in un pianeta finito». È un’assurdità: così com’è un’assurdità che una risorsa finita come il petrolio diminuisca di prezzo, più passa il tempo, per ragioni che – è evidente – con l’economia. decrescita-felice
Oggi, in Europa, è ancora peggio: perché viviamo l’incubo di una società di crescita senza crescita. Dal dopoguerra, in effetti, abbiamo conosciuto trent’anni di crescita incredibile. Oggi la crescita non può più andare avanti e non deve più andare avanti. Perché le materie prime stanno finendo e ciononostante il petrolio ha un prezzo bassissimo e lo sprechiamo con una spensieratezza paradossale.
Per seguire le leggi dell’economia stiamo sfidando le leggi della fisica e della termodinamica. L’ideologia della crescita è una guerra contro la natura.
La globalizzazione, a ben vedere, fa venire tutti i nodi al pettine. Il povero Montesquieu, quando parlava di “dolce commercio” non immaginava la concorrenza del tutto contro tutti. Qualcuno l’aveva definita «libera volpe in libero pollaio» e a ben vedere non sbagliava. È un gioco al massacro su scala globale. Noi esportando distruggiamo l’agricoltura cinese perché siamo più produttivi. I loro contadini vanno nelle città a lavorare a poco prezzo nelle fabbriche e distruggono la manifattura europea e le sue piccole imprese.
E ancora, lavorare meno. Ogni ora che lavoriamo di più, si guadagna di meno. Eppure vogliamo lavorare sempre di più
Noi dobbiamo dichiarare la pace e la decrescita non è che il tentativo di farlo. Sia chiaro: è uno slogan, soprattutto. Il modo giusto di definirla sarebbe a-crescita, con la a privativa, così come l’ateismo è la negazione di dio. La decrescita non è il fine. Decrescere per decrescere sarebbe assurdo, un po’ come lo è crescere per crescere. Dietro questo slogan c’è il progetto di costruzione di un’alternativa. Un’alternativa che io chiamo “società dell’abbondanza frugale”, una società che prospera senza crescere, che non spreca, che abbonda di acqua pulita, di aria pulita, di spazi verdi.
Per farlo bisogna rilocalizzare la produzione e smetterla con le guerre economiche a colpi di export, di finanza, di delocalizzazione, di arbitraggi fiscali. E poi ridurre l’impronta ecologica di ciò che consumiamo. E ancora, lavorare meno. Non c’entrano solo i consumi: siamo diventati tossicodipendenti del lavoro, non riusciamo più a perdere tempo. Soprattutto dobbiamo ritrovare il senso della misura, del limite, perché viviamo in un mondo limitato. La razionalità e la modernità volevano liberarci dalla trascendenza e dalla tradizione, per darci la libertà. Noi dobbiamo essere saggi, non razionali.

 

*professore emerito di Scienze economiche all’Università di Parigi XI e all’Institut d’études du developpement économique et social (IEDES) di Parigi.

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Commenti

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