L’Italia del nostro scontento: come sono mutati i valori e gli orientamenti culturali dagli anni ’80 a oggi…

“Nonostante le attese. La cultura di una società non si trasforma mai in modo coerente. Ci sono elementi di novità ed elementi di continuità. Qualcosa, poi, ritorna”. In “Come cambiano gli italiani” (il Mulino)* gli autori ci propongono una radiografia degli ultimi 40 anni. E’ il periodo di tempo che oggi ci consegna un Paese diviso a metà tra la tradizione e il declino. Sono due le grandi stagioni di cambiamento dei valori e degli atteggiamenti degli italiani. La prima inizia negli anni Sessanta e ne vediamo la conclusione a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta; la successiva stagione è quella tuttora in corso. La prima stagione è quella della crescita economica (ma anche del debito pubblico), dell’espansione educativa, del baby boom, delle riforme sociali e delle leggi sul divorzio e l’aborto, del crollo nella partecipazione alla Messa la Domenica; nella seconda stagione inizia la lunga fase di declino economico, il processo di innalzamento dell’istruzione mostra tutti suoi limiti, si vedono gli effetti dei cambiamenti demografici innescati nella stagione precedente, procede non senza contraddizioni il processo di unificazione europea, rallenta lo slancio delle riforme… “Il cambiamento dei valori e degli atteggiamenti che si osservano nella (fase finale della) prima stagione è coerente con le previsioni della teoria della modernizzazione: aumenta l’importanza attribuita a quegli aspetti del lavoro che favoriscono la realizzazione dell’individuo, avanzano le posizioni libertarie sui temi morali. Assistiamo, da una parte, alla contrazione del post-materialismo, all’aumento dell’importanza attribuita al lavoro e alla crescente richiesta di protezione allo stato e alla società. Nell’ambito politico-sociale crescono infine orientamenti ambivalenti: diminuisce la partecipazione, ma cresce il civismo; diminuisce la fiducia nelle istituzioni internazionali (soprattutto nell’Unione Europea) mentre aumenta quella nelle istituzioni d’ordine; cala la fiducia negli altri e si estende la domanda di un leader forte”. Così è scritto nel saggio citato più sopra. Cosa dire? Sembra proprio il movimento di un pendolo contrario in gran parte a quello della stagione precedente, si riconferma una incessante dialettica tra le istanze critico-propositive e una forte conservazione, il rifiuto di ogni cambiamento, direi addirittura una totale indifferenza che da tempo caratterizza un «basso continuo» della cultura politica nazionale. Cos’è successo? C’è stato un progressivo cedimento culturale. E possiamo ben vedere che tre sono i fattori che sono emersi e hanno trasformato l’Italia nella attuale patria del populismo. È sicuramente una tendenza che si è presentata in tutta Europa. Ma, bisogna dirlo: solo qui e in Ungheria (per Salvini e Meloni, Orbàn è un riferimento) ha superato il 50 per cento, perché c’entrano sicuramente la crisi dei partiti, la comunicazione degli ultimi 20 anni e un vecchio problema che non abbiamo ancora superato. Da ciò nasce la forza del populismo divenuto egemone nel nostro Paese! Dalla lettura del saggio, in un qualche modo, non certo scientifico e quindi opinabile, provo a mettere in fila delle risposte sicuramente parziali: entrano in campo dalle dimensioni del nostro debito pubblico degli anni ottanta a Tangentopoli, le stragi di mafia, la presenza di una TV commerciale diffusa e rilevante, le differenze economiche tra diverse aree territoriali, il malfunzionamento generale della giustizia, gli errori di una sinistra definitasi “nuova” che ha prima faticato e poi rinunciato a rappresentare il lavoro e a studiare l’innovazione; i prezzi economici e sociali pagati per entrare nell’euro, la bassa crescita economica, e si potrebbe proseguire ancora a lungo… il film che è scorso davanti ai nostri occhi in questi 40 anni ma in particolare nell’ultimo quarto di secolo è quello di una crisi permanente, con rarissimi momenti di ottimismo e di speranza… Ancora Tre sono i fattori specifici che vanno considerati, e che hanno fortemente inciso sugli attuali orientamenti. Il primo fattore è che l’Italia, prima del 1989 (la caduta del muro), era una Repubblica, sostanzialmente fondata sui partiti. Tutti i partiti erano organizzati sul territorio, “cellule” e “sezioni” erano vere e proprie articolazioni dei partiti nazionali che permettevano a una società profondamente divisa, in quanto segnata dalla guerra, dal fascismo e dalla Resistenza, con un iniziale e forte tasso di analfabetismo, di crescere e di strutturarsi. Soprattutto la DC e il PCI – senza trascurare il PSI – sono stati i grandi canali che hanno permesso la pacificazione e lo sviluppo dell’Italia, non senza tensioni, conflitti e trame. La crisi di queste formazioni, che è avvenuta a partire dal 1968 in poi, per via dei processi di modernizzazione e di secolarizzazione della nostra società, con la conseguenza della loro perdita di capacità di rappresentanza hanno alla fine lasciato soli importanti pezzi della società. Le periferie, alcuni strati (classi) sociali, molte aree geografiche del Paese (il Sud prima, ma nel tempo anche il Nord). Pur essendo il populismo estraneo alle culture democratico-cristiane e a quelle socialiste, questi grandi partiti di popolo, progressivamente istituzionalizzandosi, sono stati meno capaci di comprendere e governare le trasformazioni sociali e le innovazioni tecnologiche. Hanno così involontariamente creato tribù di orfani, e vere e proprie aree di abbandono. Lì l’identità territoriale e comunitaria ha funzionato, prima con la Lega, come risposta a quelle domande inevase. Poi con lo schiacciamento dei partiti divenuti “élite”. E’ stato un processo lungo, ma inesorabile, e non si è mai sostanzialmente interrotto in tutto questo tempo. Se si considera la letteratura politica di questi ultimi decenni, si troverà l’illusione di considerare inutili i partiti, come tutti i corpi intermedi; di essere già in presenza di un “cittadino consapevole”, con un’etica della responsabilità, che alle primarie delega un leader a risolvere i problemi; di lasciare la partecipazione al mero ambito associativo e del terzo settore, fattore importantissimo nella società italiana, senza ripensare le forme della partecipazione politica. Non esistono più partiti popolari in Italia. Così i partiti appaiono élite. Trionfano così i movimenti populisti. Il secondo fattore riguarda le classi dirigenti economiche del Paese, che hanno controllato i mezzi di comunicazione e i prodotti televisivi. Vi è stato, prima che un populismo politico, un populismo comunicativo, televisivo, giornalistico. Berlusconi addirittura di quei prodotti, e dei modelli che portavano con sé, ha fatto un partito e così ha segnato la storia di questi decenni. I canali televisivi, pubblici e privati, ancora oggi, hanno alimentato «una cultura popolare basata sulla contrapposizione ideologica tra “Piazza” e “Palazzo”, “popolo” e “casta”». L’elenco delle trasmissioni TV costruite su questo schema alto-basso è praticamente onnicomprensivo. In altri Paesi democratici europei ci sono al massimo un paio di trasmissioni politiche alla settimana. In Italia ce n’è più di una al giorno, dalla mattina alla sera, alla tarda serata, su tutti i canali. Lo schema è sempre quello. Nel saggio in questione si indicano i progenitori di tutto ciò, che furono: Funari con “Aboccaperta” (1981-1987), Giuliano Ferrara con “Linea Rovente” (1987) e poi la TV spazzatura, “Striscia la notizia di Antonio Ricci”. Da lì ai nipoti: Corrado Formigli con “Piazzapulita” o Giovanni Floris prima con “Ballarò” e oggi con “Dimartedì” per citare solo alcuni dei più seguiti. Il successo clamoroso del libro “La Casta” di Sergio Rizzo e Gian Primo Stella, che nel 2007 ha venduto più di un milione di copie, scritto da queste due autorevoli firme del quotidiano dell’establishment per antonomasia, Il Corriere della Sera, ha dato il segno definitivo di questa tendenza. È stata così prodotta un’ideologia populista, che ha innervato la coscienza del Paese. Per questo ha preso forza con facilità, quando i nuovi strumenti web lo hanno reso possibile, una vera e propria valanga populista. L’ultimo fattore – importante – è la “riabilitazione” di fatto del ventennio fascista. A quella riabilitazione hanno concorso in molti. Gli intellettuali indignati per “la morte della Patria”, ma anche una Sinistra fragile nel difendere una storia e una tradizione, intimidita dal fallimento politico del modello sovietico nell’Est del Mondo. Qui in Europa decretato dal già ricordato crollo del muro di Berlino. Oggi, quando vediamo aggirarsi i fantasmi dell’antisemitismo e della xenofobia, è giusto domandarsi se non si è andati al di là del consentito. Che nel ventre della DC, dopo il 1948, si fossero depositate anche le nostalgie del fascismo, è una cosa nota. Così come in quello Comunista c’erano illusioni rivoluzionarie e/o para-sovietiche. Ma il grande merito di De Gasperi e di Togliatti, e poi quello di Aldo Moro e di Berlinguer, fu l’educazione di quei sentimenti. Aver poi ceduto culturalmente sul senso, della nostra Costituzione, della religione civile che la percorre in ogni suo articolo, ha prima fatto chiudere gli occhi nei confronti degli estremisti di destra che negli stadi inneggiavano al Duce, a Hitler e fischiavano i giocatori di colore; e poi ha messo tutti sullo stesso piano, come se oggi non ci fossero più pericoli… È su questo insieme di situazioni che si è abbattuto lo tsunami del Covid-19, di cui vediamo gli effetti immediati, ma non riusciamo ad immaginare gli effetti di lunga durata sui percorsi di vita individuali e collettivi. A tutti i livelli si afferma la necessità di ri-cominciare, ri-partire, ri-progettare, introducendo anche elementi di novità. È però evidente che questa resilienza non può prescindere dai punti di forza e di debolezza che contraddistinguono ormai da tempo le risorse motivazionali e materiali del nostro Paese. La cultura di una società non cambia in modo coerente. Come sappiamo, avendoli vissuti, alcuni atteggiamenti cambiano lentamente, altri ristagnano e altri ancora cambiano velocemente, cambiamo noi e difficilmente in meglio… forse perché è diventato appropriato pensare e dire cose che prima non si pensavano e non si dicevano. In linea con le previsioni della teoria della modernizzazione. Mentre altri avvenimenti non rispondono invece a quelle attese che dovremmo attenderci dalla medesima teoria  Ma che della modernizzazione rappresentano delle modifiche non cercate e volute… comunque avvenute (effetti collaterali?) contestualmente in questa seconda stagione del cambiamento (con il decadimento) culturale del Paese. Dobbiamo mettere in conto che allora gli effetti del Covid-19 sui cambiamenti futuri saranno diversi quanto diverse sono state le modalità di resilienza e di cambiamento degli orientamenti culturali che abbiamo acquisito e/o subito negli anni passati, a partire dalla comunicazione dei media che usa il populismo come strumento per ampliare la platea dei suoi lettori  l’audience d’ascolto e visione dei suoi talk show …senza illuderci che:  #andratuttobene e #neusciremomigliori, perché, la strada che percorriamo è sempre più in salita piena di buche e oltremodo perigliosa…

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*“Come cambiano gli italiani. Valori e atteggiamenti dagli anni ottanta a oggi”, a cura di Ferruccio Biolcati, Giancarlo Rovati e Paolo Segatti. (Il Mulino, 2020)

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