Sergio Mattarella ha giurato e ha tenuto alla Camera, tra molti applausi, un discorso che è stato anzitutto un articolato elogio del ruolo del Parlamento e dei Partiti. Il governo guidato da Mario Draghi ha ripreso la sua navigazione con piglio deciso, accelerando sul Pnrr e avviando la riapertura del Paese, con l’allentamento di diverse restrizioni, a mano a mano che i dati dei contagi sembrano autorizzare un cauto ottimismo. Di conseguenza, l’inasprimento dei toni usati dall’opposizione di Giorgia Meloni appare ancor più pretestuoso, per non parlare della decisione presa dai ministri leghisti di non votare il decreto Covid con il pessimo argomento che «discriminerebbe» tra bambini vaccinati e non vaccinati (semplicemente perché, secondo la stessa logica seguita fin qui in Italia e in ogni altra parte del mondo, si comincia col togliere qualche restrizione in più a chi sia vaccinato o appena guarito prima che a tutti gli altri). Lo scomposto agitarsi di Matteo Salvini non sembra quindi destinato a raccogliere risultati migliori di quelli da lui ottenuti come aspirante kingmaker – ma forse sarebbe più giusto dire casting director – nella pazza settimana del Quirinale. La stravagante idea americana di Salvini e il partito nazional golpista. Il leader leghista lancia l’idea del modello di Partito repubblicano Usa. Pensando di fare una cosa moderna e intelligente, e di trovare una scorciatoia chiamiamola intellettuale per uscire dai pasticci in cui si è cacciato, Matteo Salvini ha mescolato e sciorinato crema fino a montare l’idea di un nuovo soggetto politico simile al Partito Repubblicano americano. La cosa fa già ridere così, ma in realtà è ancora più stravagante di quanto appaia. Salvini probabilmente non lo sa, e chi gli regge i microfoni e i taccuini neppure, ma oggi il Partito repubblicano è un partito più sovranista, più illiberale, più populista della Lega di Salvini. Alle sue ambiguità, per usare un eufemismo, non sembrano decisi a offrire ulteriori sponde né Fratelli d’Italia, che va verso un’opposizione sempre più radicale (e vedremo quanto fruttuosa), né Forza Italia, che al momento almeno sembra invece decisa a difendere il governo (e il suo ruolo nel governo). A rischio di passare per ingenui o per illusi, sembra profilarsi insomma una via d’uscita, operosa, razionale e consensuale, dal manicheismo isterico e inconcludente di questi trent’anni di bipolarismo. Il parlamento si è spellato le mani in 55 applausi al discorso del capo dello stato, ma ora il rischio è che quella che viene già chiamata “l’agenda Mattarella” resti solo nei resoconti stenografici di Montecitorio. La speranza è che il discorso del presidente non rimanga lettera morta. Mattarella guarda avanti e pensa già all’Italia del dopo-emergenza. Come per fissare un confine tra il primo e il secondo mandato, il capo dello Stato ha dettato i compiti per il futuro ponendosi in un’ottica di lungo periodo, ignorando le polemiche e le regressioni della settimana dell’elezione e in generale evitando (giustizia a parte) di usare la matita rossa e blu. Mattarella ha sette anni per costruire: «Dobbiamo disegnare e iniziare a costruire, in questi prossimi anni, l’Italia del dopo emergenza». È un passo avanti vistoso, anche per la solennità della circostanza, una marcia ingranata, un impegnativo alzare lo sguardo quello che ha marcato il discorso con il quale ieri Sergio Mattarella ha giurato e accettato il suo secondo mandato. Il «dopo emergenza»: pensiamoci, è un’espressione che i governanti e i politici non usano mai, come in ossequio a una specie di scaramanzia o più probabilmente perché non ne siamo realmente fuori: non basta che il mitico Rt scenda se i decessi aumentano. Eppure, da qualche giorno è in atto una “strategia positiva”, non diciamo ottimistica, nella cui scia ieri il Presidente della Repubblica si è voluto inserire e a cui ha voluto dare impulso con tutta la sua forza istituzionale e simbolica grazie a quel «dopo emergenza», che non è solo una speranza ma la cornice di un programma politico. Quello che egli ha richiamato per appunti – «avvisi», li ha definiti più tardi al Quirinale parlando alle alte cariche dello Stato – e che l’assemblea dei Grandi elettori riunita a Montecitorio ha omaggiato persino con troppa foga, con quell’alzarsi in piedi 54 volte a applaudire i passaggi essenziali del discorso. Sergio Mattarella, come se volesse fissare un confine tra il primo e il secondo settennato, ha dettato i compiti appunto fuori da una logica puramente emergenziale a un Parlamento osannante, consapevole della sua debolezza, ignorando le polemiche e le regressioni della settimana della elezione del Presidente evitando di usare la matita rossa e blu tranne che nell’evidente rimbrotto che ha rivolto al Csm, peraltro da egli presieduto: ma appunto guardando avanti, alle cose da fare. Un modo per dire anche che egli non è il Presidente dell’emergenza (come fu in un certo senso il Giorgio Napolitano del 2013) ma il Presidente costruttore, con le altre istituzioni s’intende, di una Italia riformata, «più moderna». Fondata sulle molteplici espressioni della «dignità» dei più fragili. Non sfugge quanto lo sforzo del Capo dello Stato di guardare oltre l’emergenza si sposi con la linea “aperturista” contenuta nelle ultime misure del governo Draghi suggerendo così al Paese che malgrado tutto ce la stiamo facendo, riusciamo a venirne fuori, si può parlare anche di cose che non siano la pandemia e il Covid. È una strategia ed una linea comunicativa che accomuna ancora una volta Quirinale e palazzo Chigi, e la circostanza che i due Presidenti abbiano intuito la forza di un massaggio “positivo” non può essere una coincidenza ma è probabilmente frutto della comune intuizione che il Paese vuole voltare pagina, per quanto possibile. Non è mancato il riconoscimento del Capo dello Stato all’esecutivo da lui voluto, come a confermare la sua piena fiducia: «Su tutti questi temi, è intensamente impegnato il governo guidato dal Presidente Draghi; nato, con ampio sostegno parlamentare, nel pieno dell’emergenza e ora proiettato a superarla, ponendo le basi di una nuova stagione di crescita sostenibile del Paese e dell’Europa. Al governo esprimo un convinto ringraziamento e gli auguri di buon lavoro». Magari non si è scorto durante tutta la cerimonia un particolare afflato tra i due presidenti: ma sulla sostanza ci siamo, c’è un filo coerente che lega Quirinale e Palazzo Chigi. Un filo che conduce al futuro del Paese, se la politica saprà svolgerlo…
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