PD: annunci che tali non erano. Dal cambio di sede (e trasloco) mai avvenuta, alla roboante promessa di Zingaretti di cambiare i decreti sicurezza e di fare lo ius soli, fino alla fusione e rifondazione del “partito nuovo” di Zingaretti…

Dimenticate le vecchie distinzioni tra riformisti e radicali, massimalisti e rivoluzionari, liberal e socialdemocratici. La nuova linea di confine che divide la sinistra, come è emerso chiaramente anche dalla prima giornata del conclave reatino del Partito democratico, è quella tra positivisti e negativisti. La svolta ideologica, che sarà certamente alla base di quel grandioso processo di fusione e rifondazione annunciato da Nicola Zingaretti, è maturata nelle ultime 48 ore, nel crogiuolo politico-culturale in cui hanno finito per convergere la proposta di costruire una nuova coalizione di centrosinistra con il primo partito populista d’Italia (la coalizione con il Movimento 5 stelle, rilanciata ancora ieri da Goffredo Bettini in un’intervista alla Stampa). Quindi un nuovo partito – pardon, il partito nuovo – aperto anche alle sardine. Movimento al quale va peraltro tutta la mia personale simpatia, e in particolare alla sardina in capo Mattia Santori, per il vero e proprio stalking ideologico cui è sottoposto in ogni intervista, da giornalisti decisi a fargli dire a ogni costo di voler bene al Movimento 5 stelle, così da rientrare nei loro schemi precostituiti e pretitolati, in base ai quali i movimenti, che sono nuovi, aperti e colorati, non possono non avercela con i vecchi partiti, i grigi apparati e la loro nomenklatura chiusa e autoreferenziale. Una forma, questa, di chiusura autoreferenziale del giornalista collettivo, capace di rimuovere persino l’evidenza di un movimento nato contro l’antipolitica, il populismo e la politica dell’insulto e dell’odio, specialmente online, che queste cose le ha pure scritte in un manifesto, e dunque proprio non si capisce perché dovrebbe intendersela con un partito che sull’antipolitica, il populismo, l’insulto e l’odio, specialmente online, è stato letteralmente fondato. E così anche domenica scorsa Santori ha dovuto ripetere per l’ennesima volta che no, con il Movimento 5 stelle non c’è nessuna particolare sintonia, e proprio per un problema «genetico»: l’antipolitica. In altre parole, il problema è che le sardine sono contro l’antipolitica, mentre i cinquestelle sono l’antipolitica. A conferma della tesi, Santori ha elogiato l’apertura del Pd nei confronti del suo movimento, ma ha anche criticato la mancanza di «discontinuità», specialmente sui decreti sicurezza, tra questo governo e il precedente. Come al solito, Nicola Zingaretti ha fatto finta di non sentire le critiche e replicato ai complimenti con il consueto profluvio di dichiarazioni a base di apertura, ascolto e attenzione. E tuttavia, aprendo i lavori del conclave democratico, Dario Franceschini è parso decisamente meno aperto, ma non meno attento, quando ha detto che parlare di mancanza di discontinuità è, testualmente, «un’idiozia» (espressione che nel felpato vocabolario democristiano equivale più o meno a una minaccia di morte). Ma certo non saranno piccoli screzi o questioni lessicali a impedire la lunga marcia di avvicinamento dei democratici alle sardine. Specialmente se si considera la ferma presa di posizione filosofica che Santori ha voluto rendere pubblica domenica, quando ha dichiarato: «Sono un positivista, quindi credo che dal lato umano ci sia molta positività, anche nei politici che non la pensano come me». Un terreno su cui dovrebbe essere dunque facilissimo l’incontro con Franceschini, che in questo senso – se non stiamo troppo a sottilizzare sulla storia della filosofia – si potrebbe definire un positivista ante litteram. Va anche detto che, se questa è la nuova geografia del dibattito interno alla sinistra, la battaglia è appena cominciata. Con il suo scetticismo e la sua insistenza sulla necessità di abrogare immediatamente i decreti sicurezza, infatti, è evidente il tentativo di Matteo Orfini di mettersi a capo della corrente negativista. Del resto è lì, sull’equivoco della continuità con il governo salvinista, che tutti gli asini sono destinati a cascare, se è vero che la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, progetta modifiche minime ai decreti sicurezza, e il Pd vuole proporre come inviato dell’Ue in Libia niente di meno che Marco Minniti (il padre degli accordi sui migranti con quei gentiluomini della guardia costiera di Tripoli). Ma perché agitarsi? È solo un po’ di nebbia che annuncia il sole: Zingaretti apre alle sardine e Bettini ai grillini, e tutti fingono che le due cose siano compatibili, giornalisti compresi. Perché in Italia gli asini, prima di cascare, possono volare anche molto a lungo. Chi conosce l’uomo sa che Nicola Zingaretti vive una contraddizione personale molto forte. Non gli piace questo Pd con le sue liturgie, i suoi schemi, le sue lentezze, i suoi giochini, ma è lui che contribuisce a esasperarne i difetti. I suoi dieci mesi di leadership non hanno mutato di una virgola i caratteri di fondo del partito. Adesso prova a forzare la situazione, seppure in modo più istintivo che razionale, puntando a smuovere la stagnazione nazarena e vedere l’effetto che fa. Da una parte dunque c’è il coraggio di aprire un discorso nuovo, dall’altra però il dubbio che sia tutta solo “fuffa” (copyright Orfini) e che alla fine non cambierà niente di sostanziale nel rivolgersi al Paese come una post-Ditta autoreferenziale, soprattutto se alla fine tutto dovesse risolversi solo con il mesto rientro di bersaniani di vario conio. Non è chiaro se il segretario faccia sul serio o la “faccenda” sarà un’operazione di ceto politico. Il nome del partito, per capirci, cambia o no? Dietro gli apprezzamenti di rito, l’aria nel Palazzo dem appare di scetticismo condito da un tocco di preoccupazione per una sortita che non è effettivamente chiara da molti punti di vista. Così per esempio si comprende la freddezza dei franceschiniani o della corrente di ex renziani-riformisti (Base riformista) che vorrebbe “un congresso vero”, non improvvisato (quindi non ora ma in autunno) con primarie serie: già, perché Zingaretti non ha chiarito se nella sua ipotesi sia contemplata l’elezione del segretario con primarie, come statuto vorrebbe. Ma è stato Beppe Sala ad essere, come spesso accade, il meno paludato, quello che mette il dito nella piaga: se si vuole davvero aprire il Pd «questo vorrebbe dire un sistema di governance diverso e anche la disponibilità e la generosità a far spazio ad altri». Che tradotto significa toccare il nervo più sensibile, se davvero si vuole cambiare tutto bisogna davvero cambiare tutto, a cominciare dai gruppi dirigenti e dal loro modo di gestire e di “pensare” il partito. Altrimenti l’apertura è destinata a non riuscire, come non è mai riuscita ogni volta che a sinistra si è inventata un’operazione di superficie. E poi molti si chiedono in cosa consista questa apertura, nei confronti di chi, attraverso quali iniziative. Zingaretti probabilmente sa che le Sardine non si lascerebbero inscatolare né da lui né da altri, ché anzi loro nascono esattamente separando se stesse dalla politica tradizionale. Alla freddezza generale, o quantomeno sospensione del giudizio, si contrappone un’entusiastica Repubblica, grande sponsor dell’uscita zingarettiana. In effetti, così il quotidiano diretto da Carlo Verdelli riprende una lunghissima vocazione, quella di consigliere del Principe della sinistra, da maieuta delle svolte del progressismo italiano di cui da sempre si erge a socratico maestro: e così due chiacchiere veloci fra il segretario del Pd e Massimo Giannini sono diventate il lievito della microscopica Bolognina di queste ore, e vai a capire per esempio se la parolina magica dello «scioglimento» del Pd sia stata pronunciata da Zinga o da Giannini (la seconda, sembra). Insomma, bisogna vederci chiaro in questa storia di cui non è chiaro non solo l’epilogo ma neppure il prologo…

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