Pd: la rimonta del Partito, che supera tutti restando fermo. Nel Pd le correnti sono vive e lottano a partire dalle primarie attorno al segretario…

Da Zingaretti a Letta, sono due anni che al Nazareno parlano di inseguimenti e sorpassi sugli avversari, ma non si schiodano dal 20%. E non ci sarebbe nulla di male, se non ne traessero conferma della bontà della loro strategia. Dal 18,7 per cento delle politiche del 2018 al 22,7 delle europee del 2019, passando per tutti i precedenti, contemporanei e successivi sondaggi d’opinione, i consensi del Partito democratico non si sono praticamente mai mossi, negli ultimi tre anni, dalla forchetta caudina di quei quattro punti. Se poi vogliamo tener conto anche di ogni minima oscillazione, come lo sprofondamento verso il 16 per cento nel momento più difficile, nel pieno della luna di miele del governo gialloverde, o la breve scampagnata verso il 24, all’indomani della sua caduta e della formazione del nuovo esecutivo, come si vede, non ci spostiamo di molto. Prendendo a riferimento la media di tutti i sondaggi elaborata da Youtrend, i due estremi corrispondono al 16,3 dell’ottobre 2018 e al 23,5 del giugno 2019. E si tratta, appunto, dei due estremi. In pratica, come ha notato Francesco Costa nel corso della sua rassegna stampa sul Post, con comprensibile stupore – per lo stupore altrui, s’intende – sono tre anni che il Partito democratico non si schioda da lì, cioè esattamente dove lo colloca l’ultimo sondaggio Ipsos: 20,8. Una cifra, fateci caso, che è quasi esattamente a metà tra il dato delle politiche del 2018 (18,7) e quello delle europee del 2019 (22,7). E che pure ha suscitato in questi giorni una gran quantità di commenti sul sorpasso del Pd, lo scatto del Pd, il balzo del Pd in vetta alla classifica, in quanto lo stesso sondaggio collocava Fratelli d’Italia al secondo posto, con il 20,5 (che sarebbe la notizia, considerando che alle politiche del 2018 stava al 4, e alle europee del 2019 al 6) e la Lega al terzo, con il 20,1. «Io non credo ai sondaggi, ma santo cielo erano 4 anni che un sondaggio non dava il Pd primo partito italiano!», ha esultato Enrico Letta. Comprensibilmente, essendo Enrico Letta il segretario del Partito democratico. Come del resto esultava a suo tempo il suo predecessore, Nicola Zingaretti, ogniqualvolta il crollo del Movimento 5 stelle e poi lo sgonfiamento della Lega facevano intravedere il traguardo. La verità è che dall’inizio di questa folle legislatura i consensi del Partito democratico rappresentano forse l’unico punto fermo, l’unica inamovibile costante della politica italiana. È il bello di tutto questo annoso dibattito sul «sorpasso» del Pd: che il Partito democratico, in realtà, non si è mai mosso. Sono gli altri a sfrecciargli accanto, in entrambe le direzioni: il Movimento 5 stelle prima, passato dal 32 per cento delle politiche al 16 degli ultimi sondaggi, e la Lega poi, dal 17 delle politiche al 34 delle europee, e ora secondo Ipsos di nuovo attorno al 20 per cento. Non c’è da stupirsi se nel frattempo, nel mondo reale, i gazebo delle primarie democratiche vanno praticamente deserti, come è accaduto a Torino. Perché il dibattito sulla grande rimonta del Pd degli ultimi due anni è un tipico esempio di realtà virtuale, che come sappiamo, a lungo andare, può provocare effetti di alienazione molto seri. Da tempo i democratici mostrano infatti di preferire i rapporti virtuali con le immagini dei sondaggi al rapporto con la dura realtà, con tutte le sue imperfezioni. Per il Pd il flop di Torino è paradigma della crisi: non dello strumento primarie, ma di come esso è utilizzato. Va bene la pandemia, va bene la prudenza soprattutto per un elettorato, quello del Pd, anche piuttosto anziano, va bene anche il numero di “seggi” inferiore rispetto alle volte scorse perché, per evidenti ragioni, si può votare solo all’aperto. Però c’è anche da chiedersi perché poi tutto questo desiderio di ritorno alla normalità non si sia tradotta in un’altrettanta voglia di partecipazione politica alle primarie di Torino. Insomma, i numeri indicano un franco flop non tanto rispetto alla normalità pre Covid – sarebbe ingeneroso il paragone – ma rispetto alle previsioni degli stessi candidati. Al forum organizzato da Repubblica qualche giorno fa, il vincitore Stefano Lo Russo aveva previsto 30mila votanti, il civico Francesco Tresso, arrivato secondo, ne aveva previsti 25 mila, alla fine sono stati 13mila. Ingeneroso, dicevamo, il paragone con quelle che, nel 2011 avevano incoronato Piero Fassino, quando ai gazebo si recarono 50mila torinesi: un’altra era politica, senza la pandemia e con partiti non ancora liquefatti del tutto. Meno ingeneroso, ma comunque impietoso, il confronto con i numeri di un partito che su Torino conta novemila iscritti e 120mila voti. In sostanza, la mobilitazione non c’è stata, nell’ambito di una competizione politicamente non banale: la prima dopo la pandemia, che comunque segna il ritorno a una “normalità” democratica e la prima dopo cinque anni di opposizione alla Giunta Appendino. Opposizione anche piuttosto feroce, politica e giudiziaria. Proprio il solco che si è scavato in questi anni non solo ha reso impossibile qualunque forma di dialogo con i Cinque stelle ma, alla fine, ha premiato una candidatura, la più identitaria, la più ostile alla prospettiva di un’alleanza strategica, anche in pieno governo gialloverde. Lo Russo, ex assessore all’Urbanistica della Giunta Fassino, capogruppo in Consiglio in questi anni, è colui che contro la Appendino ha presentato un esposto in procura, protagonista di battaglie campali dentro e fuori il consiglio. Alla fine ha vinto con soli 4300 voti, una manciata sopra il secondo, nonostante il sostegno della nomenklatura del Pd: tutti i parlamentari, tutti i consiglieri regionali, tutti e tre sindaci di sinistra della seconda repubblica, Castellani, Chiamparino, Fassino. La migliore interpretazione del dato la forniscono proprio le cronache del suo giro per mercati assieme al “Chiampa”, ancora amato e indimenticato dai torinesi. Attestati di stima, nostalgia, “Sergio candidati tu”, “facciamo una foto”. Lui, “il sindaco”, l’altro, il candidato, nei panni di chi riceve una benedizione e si adatta: “Sono qui col mio modello di sindaco”. Come le tre posizioni emerse alle primarie di Torino – il “mai con i Cinque stelle” di Lo Russo, l’apertura al civismo del civico, il “dialogo con i Cinque Stelle” del candidato della sinistra Enzo Lavolta – diventeranno una “linea” è questione che riguarda la campagna elettorale di Torino, lo stato di salute delle primarie è invece una questione nazionale. Perché, dopo Torino, domenica prossima si vota a Roma e Bologna. A Torino c’erano tre candidati poco carismatici, a Roma c’è una semplice incoronazione di Roberto Gualtieri, senza una competizione vera, scientificamente evitata, a Bologna non ci sono candidati carismatici, ma c’è una competizione forte tra Matteo Lepore, il predestinato che ha l’appoggio del partito, e Isabella Conti, la sindaca “renziana” di San Lazzaro nel ruolo di outsider. E già, alla fine non è cambiato nulla. Le correnti del Pd sono vive e lottano a partire dalle primarie attorno al segretario… Quindi appare chiaro che: l’usura dello strumento primarie al di là di fattori di giustificazione che ci sono e potranno esserci, lascia presagire che Torino rischia di essere un paradigma della crisi: non dello strumento primarie, ma di come esso è utilizzato, ovvero di fatto come prosecuzione della lotta tra le correnti Pd, con altri mezzi. Base riformista il correntone formato dagli ex renziani ha presentato un manifesto che indica totalmente un’altra linea rispetto a quella gauchista del segretario… Alla fine la domanda che ti viene spontanea (come scrive De Angelis su Huffpost) è se davvero questo: “Pd sia un po’ come l’Urss, irriformabile (dall’interno)”. È la corrente di Lotti e Guerini, per intenderci, che è poi la più consistente del Pd – 52 su un totale di 110 tra deputati e senatori, praticamente la metà dei gruppi parlamentari. Che  si è riunita, al gran completo e con duecento persone collegate, tra sindaci, amministratori e dirigenti vari. E ha festeggiato, alla presenza dell’attuale capogruppo Debora Serracchiani, l’arrivo di Graziano Delrio, l’ex capogruppo anch’esso rappresentativo di un gruppo. Nel corso della riunione è stato presentato un Manifesto riformista, nome che rivela una certa ambizione (sembra una piattaforma congressuale), anche abbastanza articolato, di 12 pagine e 21 punti. C’è l’idea del governo non come dura necessità, ma come opportunità e agenda perché “le riforme di Draghi sono le nostre riforme”. Ci sono proposte per una riforma fiscale, da fare complessivamente e non con interventi spot (sottotitolo: come la tassa di successione proposta da Letta). Riforma che tiene il principio di progressività, ma anche l’esigenza di ridurre la tassazione perché l’Italia non è l’America, per debito e livelli di tassazione. C’è in generale l’idea di una sinistra produttivista, che non sia solo “protezione”, termine caro alla sinistra del partito, e “sussidi”, termine caro ai Cinque stelle, ma che, come disse Claudio Martelli a Rimini, promuova un’alleanza tra meriti da valorizzare e bisogni da tutelare. E poi la famosa “vocazione maggioritaria”, intesa come approccio esigente verso il centro e verso i Cinque stelle che ancora non si capisce quel che saranno. Per farla breve: il “contributo” (dal titolo ambizioso) ha il non celato obiettivo di riequilibrare, e al tempo stesso di proporsi come alternativa alla linea gauchiste di Enrico Letta, che da quando è tornato ha molto pedalato sulla bicicletta dell’identità su temi di sinistra-sinistra. Morale della favola: in questo mondo dove cambia tutto, pure Salvini – sincero, bugiardo, strumentale, chissà quanto dura – che si è messo a sostenere con convinzione un governo subìto e si è incravattato per fare un partito con Berlusconi, e pure i Cinque stelle che hanno scoperto il garantismo – sincero, bugiardo, strumentale, chissà quanto dura – e, con esso, la parola “moderati” affidata alla leadership di Conte, in questo mondo, dicevamo, c’è un’unica, granitica certezza. E cioè che nel Pd non è cambiato niente. L’andazzo è sempre lo stesso che ha portato al “mi vergogno” delle dimissioni di Zingaretti, momentaneamente coperto dalla finta unanimità dietro l’elezione di Letta. Il quale, tra le prime esternazioni, twittò una foto di Schwarzenegger come “incaricato ai rapporti con le correnti”. È partito con l’idea di sterminarle e, dopo qualche mese, si ritrova Terminator incastrato in una giungla peggiore di prima. Nel frattempo infatti di correnti, correntine, aree – perché tutti hanno capito che se vuoi stare al tavolo ti devi fare un gruppetto – ne sono nate alte. L’ultima si chiama “Prossima” – nome evocativo: ce ne sarà sempre un’altra – animata proprio da dirigenti vicini a Zingaretti durante la sua segreteria, come Nicola Oddati e Stefano Vaccari, che è rimasto responsabile dell’organizzazione e si divide tra lavoro sul partito e lavoro sul suo gruppo. Loro sono quelli che hanno perseguito l’alleanza strategica con e Cinque Stelle. E poi le “Agorà” di Bettini, la “Rigenerazione democratica” dell’ex ministro Paola De Micheli, oltre a quelle storiche di Franceschini, Orfini, Orlando, Cuperlo, Insomma, il Pd è una confederazione di correnti in cui, in mezzo a tanto sforzo, non è stato sciolto un solo nodo politico di fondo, di identità, collocazione, visione, interessi da rappresentare e popolo da costruire, eppure sta cambiando tutto. Un meccanismo di infernale autoreferenzialità, da un governo all’altro, in attesa, questo è il sottofondo, che in un congresso i vari comitati elettorali di capi e capetti si contino. Forse il Pd è davvero irriformabile… Intendiamoci, nessuno qui pensa di rimprovera Letta e il suo partito per avere legittimamente e comprensibilmente rilanciato un sondaggio che li dà primi, ci mancherebbe. Al loro posto, non parlerei d’altro, e lo infilerei anche nei commenti al risultato della nazionale o nelle conversazioni sul tempo coi vicini di pianerottolo. Siccome però sono appunto due anni che i democratici insistono a dire che i sondaggi danno ragione alla loro strategia, vale a dire alla linea dell’abbraccio con i Cinquestelle, comincio a temere che ci credano sul serio…

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