Siamo gli unici che, dal 2008, non riescono a imboccare la ripresa. Dati alla mano, pesano disoccupazione, burocrazia e poca attrattività per i capitali esteri
L’economia è fatta a scale. Peccato che a scendere sia solo l’Italia: tutti gli altri Paesi dell’Ocse non fanno che salire. Il grafico qui sotto mostra l’andamento divergente del Pil reale di diversi Stati appartenenti all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo. Il nostro è rappresentato da quella linea verde che scende, scende, scende da tre anni a questa parte.
Dopo il crollo del 2008, l’Italia sembrava aver imboccato la strada della ripresa, in linea con l’andamento di altri Paesi come la Gran Bretagna. Poi, però, il tricolore ha tradito le promesse e oggi il Pil reale è più basso anche rispetto a quello degli anni più cupi della crisi. Persino il Giappone, che negli ultimi 20 anni era diventato quasi lo zimbello economico della comunità internazionale, è riuscito a tornare ai livelli pre-2008.
Guardando il grafico viene spontaneo chiedersi: perché tutti gli altri paesi del G7 salgono, e noi scendiamo? Dare una risposta è possibile, anche se non si tratta certo di una risposta univoca.
Se il problema dell’Italia risiedesse in un solo fattore critico, forse sarebbe più facile anche trovare la ricetta normativa o politica per risolvere tutti i nostri guai. In realtà le difficoltà sono più d’una, e si influenzano a vicenda. Per esempio: l’alto tasso di inoccupazione (in Italia abbiamo il 44% di popolazione inattiva, ovvero che non lavora e non cerca lavoro, stando alle ultime rilevazioni Istat) è frutto della crisi, o ne è una delle cause? Probabilmente ambo le cose, poiché chi non lavora (o chi lavora poco e con poche garanzie) è costretto a ridurre i consumi, non può comprare casa, non può sostenere una famiglia. E così si innesca una spirale negativa in cui è difficile individuare se sia nato prima l’uovo o la gallina.
Se guardiamo a fattori strutturali, gli studi e le indagini che vengono di volta in volta pubblicati ci rimproverano sempre le solite carenze, quindi è probabile che un fondo di verità ci sia. Il costo della burocrazia per chi vuole fare impresa è molto alto sia in termini di tempo, sia di soldi, sia (ancora peggio) di incertezza normativa. Stando a dati della Cgia di Mestre, il cattivo funzionamento della Pubblica Amministrazione costa a ogni società in media 7mila euro all’anno. La nostra burocrazia sarebbe la meno efficiente d’Europa, dietro solo a quella della Grecia e di Malta.
Certo, gli italiani per fortuna hanno ancora una vocazione da imprenditori e startuppari. Ma la difficoltà di fare affari in Italia significa anche una bassa capacità di attrarre investimenti dall’estero. I dati della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo parlano chiaro: il nostro Paese avrà forse recuperato terreno, ma lo stock complessivo è pari ad appena l’1,6% del valore mondiale, contro ad esempio il 2,8% della Spagna o il 3,3% della Germania.
Tra gli altri fattori che non aiutano la competitività italiana (e quindi la crescita del Pil) non dimentichiamo certo il basso livello di investimenti in ricerca e sviluppo e in innovazione. L’ultimo rapporto della Commissione Europea boccia l’Italia su questo fronte e mette in evidenza il legame diretto tra crescita del Pil e spesa per le attività di R&S.
C’è poi il problema del costo dell’energia, che pesa non poco sulle imprese italiane. Non tanto su quelle grandi, ma proprio sulle Pmi che rappresentano più del 90% del tessuto economico italiano. Sono loro, infatti, a pagare l’elettricità molto più della media europea. Stando a dati Eurostat, l’Italia è al terzo posto in Europa per il costo dell’energia alle imprese, mentre è nella media per quanto riguarda i prezzi del gas. A gravare sulle bollette della luce sarebbe sia il peso della tassazione, sia gli alti costi di produzione dell’energia, meno competitivi rispetto a quelli di altri Paesi. Attenzione: la Germania, la “locomotiva d’Europa”, ha prezzi ancora più salati dei nostri, anche a causa degli elevati incentivi stanziati per le rinnovabili (i cui fondi provengono proprio dalle bollette energetiche).
Che cosa ci resta? Le esportazioni, che per fortuna reggono (seppure tra alti e bassi) e, trainate dalla forza del brand made in Italy, raggiungono il 2,79% del totale mondiale dei commerci esteri (secondo l’ultimo rapporto Ice-Istat). E il turismo, che però non riusciamo proprio a valorizzare, tanto che la quota di mercato dell’Italia (secondo uno studio della Banca d’Italia) è scesa addirittura dal 6,8% del 1997 (sul controvalore globale totale) al 3,7% nel 2015.
Insomma… c’è poco da dire
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