Cosa c’è dietro il dibattito sull’identità del Pd? Chiariamo subito che l’identità di un partito riformista non comincia già da esperienze di buongoverno, come pensa qualche presuntuoso politologo sempre pronto a dire la sua con un ‘elzeviro’ sulla prima pagina di Repubblica… ma, dalla visione e dalle proposte con le quali il Partito arriva al governo. Tant’è che, oggi, scrivere sulla ricerca dell’identità perduta del Partito Democratico è pressoché una “mission impossible”. Il Partito Democratico, quello realmente esistente, a quel che appare non sembra aver mai avuto nessuna precisa identità. Oserei affermare che nato programmaticamente per cancellare l’identità dei comunisti, che ci avevano già messo moltissimo da parte loro e con successo, erano anche riusciti a tenere fuori qualsiasi identità socialista, mentre i cattolici democratici si accontentarono dell’ancora di salvezza loro offerta dal seminuovo partito, si accomodarono nei posti di governo ai quali erano abituati e non sentirono nessun bisogno di rielaborare la loro identità né di contribuire a una identità nuova, riformista/riformatrice. Fu una vera e propria “fusione fredda”. Qualche fiancheggiatore, la cui cultura economica, più o meno ampia e pur valida che sia, non poteva supplire alla carenza assoluta di cultura politica, così che si era accontentato di disegnare alla meno peggio una identità liberal-socialista; con i liberali di fatto inesistenti e soprattutto senza socialisti ingombranti. Adesso, sembra che l’identità del Pd, a sentire quei qualcuno, oggi, si possa ridefinire tenendo lontani i pentastellati di ogni ordine e grado e avvicinandosi, anzi prostrandosi ai renziani e ai calendiani, della cui cultura politica e costituzionale è peraltro non solo lecito, ma direi imperativo dubitare. Per ora, meglio che i piddini (sic!) si (pre)occupino del Manifesto dei Valori. Attualmente, l’incipit è sconfortantemente simil-berlusconiano: “Noi, i Democratici, amiamo l‘Italia”. Forse, un partito riformista dovrebbe subito dare a sé e agli italiani, patrioti o no che siano, una prospettiva un po’ più limpida: “Noi, i Democratici, desideriamo una Italia migliore” e poi indicare in ordine di priorità in che modo, con quali politiche, con il sostegno di quali ceti, miglioreranno l’Italia. Non è il mio compito, ma lo penso e lo dico, perché mi sembra sempre più necessario, nessuna Italia sarà mai migliore se si allontana dall’Europa e dalla nostra Costituzione. Quello che vedo (almeno finora) è che, comunque, il dibattito sull’identità Pd è una cortina fumogena per nascondere e salvare le correnti, chiedo scusa, le diverse “sensibilità” che, insomma, lo abbiamo imparato tutti (meno chi scrive), sono una ricchezza, un patrimonio prezioso, l’Eden del pluralismo gioioso. Infatti, esistono correnti nella Spd, nel Partito Laburista e, prova provata e definitiva, nel Partito Democratico Usa dove, utile a sapersi, i Rappresentanti sono eletti, mai paracadutati, in collegi uninominali. Davvero quelle correnti sono in qualche modo assimilabili alle correnti nel Pd? E quali sarebbero poi le brillanti idee che sono emerse dalle correnti e che vengono più o meno periodicamente a occupare il centro del dibattito politico? Una, novità per la verità c’è. Benvenuta Elly Schlein, verso quale identità orienterai il Pd? Credi che esista una identità “movimentista” che qualcuno ti attribuisce? Che cosa sai di come si organizza e funziona un partito politico? Ritieni utile imparare qualcosa in materia oppure chiederai a Bonaccini, il ticket sembrerebbe già deciso (da chi?) sarà Schlein-Bonaccini, giusto? L’indicazione del ticket non si trova già nello Statuto vigente? Chi risponderà alle mie domande? Comunque, se ciò avverrà sarà ad ogni buon conto troppo tardi e, forse, troppo poco… Tuttavia, don’t worry. Non è l’istinto, ma quanto la feroce determinazione delle correnti che assicura la sopravvivenza di questo Pd: diritti, Europa, lotta alle diseguaglianze. Avanti popolo (delle sedicenti primarie)… Ma proviamo ad andare oltre le correnti e guardiamo in faccia il nucleo della discussione in corso a partire dalla sintesi offerta da alcuni titoli, di articoli che mettono il naso nel profondo della discussione congressuale in corso nel Pd. Lo fanno dando l’impressione che questo dibattito sia ferocemente incentrato sul ritorno del Pd a teorie ideologiche risalenti a Karl Marx & C.. Il dibattito sulle radici anticapitaliste del Partito democratico va assumendo, giorno dopo giorno, un tono surreale e rischia (no, anzi vuole) accreditare il luogo comune secondo cui il progetto della formazione del partito sarebbe stato un fallimento sin dall’inizio, avendo avuto la pretesa di unire due tradizioni, quella post-comunista e quella post-democristiana, che insieme non potevano stare e che avrebbero fatto meglio a rimanere divise. E come spesso accade in politica, il luogo comune coniato dagli avversari è stato progressivamente fatto proprio dai suoi bersagli, cioè da buona parte dei fondatori del Partito democratico. E da qui che riparte la tradizionale e funzionale spiegazione, che attribuisce a Matteo Renzi lo snaturamento del Partito democratico, che da lui sarebbe stato trasformato di fatto in un partito neoliberista rispetto a un mitico passato socialista e rivoluzionario. Sia chiaro a tutti, che la cosa è vera, seppur continua ad essere discussa e negata dall’interessato e dai sui adepti restati in questi anni nel Pd per resistere, resistere, resistere… al ritorno dei ‘comunisti’. Ma dai!? Il controcanto oggi mette in rilievo che il Manifesto dei valori steso all’atto della sua fondazione già conteneva simili indicazioni di accettazione da parte del Pd del Capitalismo senza alcuna remora… In proposito il gioco delle parti ha raggiunto negli ultimi giorni vette inarrivabili. Il resoconto del dibattito pubblicato da tutti i giornali non lascia spazio a dubbi circa il significato dell’operazione: ci sono Roberto Speranza e Andrea Orlando che se la prendono con il neoliberismo di cui sarebbe impregnata la carta fondativa fin dal 2007 (difetto di cui sembrano essersi accorti solo nel 2022, e che comunque non ha impedito al primo di fare il parlamentare e anche il capogruppo del Partito democratico fino al 2015, al secondo di fare il parlamentare e il ministro, praticamente a tutto, fino all’altro ieri); c’è poi Gianni Cuperlo che cita l’undicesima tesi su Feuerbach di Karl Marx: «I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo», ma a dire il vero le cronache non specificano a quale traduzione si sia attenuto Cuperlo, ammesso che non l’abbia citata direttamente in tedesco); c’è poi la neoparlamentare Caterina Cerroni, coordinatrice dei Giovani democratici, che confida: «Leggevo Chomsky che citava Lenin, secondo cui senza teoria rivoluzionaria non esiste alcuna pratica rivoluzionaria» (dove la crisi dell’idea rivoluzionaria è dimostrata soprattutto dalla pigrizia di non andarsi a cercare nemmeno la citazione alla fonte diretta). Tutto questo surreale florilegio di Marx e Lenin viene ora perlopiù interpretato come un ritorno alle origini. Per cui alla fine la soluzione sta nell’ennesima scissione tra le due componenti che costituirono a suo tempo il Pd. Per chiarire quale fosse la teoria rivoluzionaria dei vertici del Partito democratico prima dell’arrivo di Renzi basterebbe ricordare come Pier Luigi Bersani, già famoso come Ministro per le sue famose ‘lenzuolate’ (privatizzazioni), già all’inizio del 2011, non si facesse scrupolo di esortare a una comune alleanza anche un «terzo polo» guidato da Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini (altro che Renzi e Calenda), per non parlare del modo in cui, alla fine di quello stesso anno, decideva di appoggiare l’ascesa a Palazzo Chigi di Mario Monti (con un governo tecnico assai più conservatore e incline all’austerità di quello guidato da Mario Draghi) e insisteva, anche contro una parte della sua segreteria, perché arrivasse fino al termine della legislatura. Una linea sintetizzata da Massimo D’Alema nel bizzarro slogan «Con Monti, oltre Monti», di cui ha lasciato testimonianza anche in un libro-intervista, scritto appena in tempo per la campagna elettorale del 2013 (Controcorrente, Laterza). Che ci azzecca tutto ciò con l’anticapitalismo odierno del Pd? Tra i pochissimi che allora provarono a correggere quella linea, a onore del vero, c’erano Stefano Fassina e Matteo Orfini. Certamente non c’era Enrico Letta, di cui resta memorabile il biglietto inviato al neopresidente del Consiglio Monti in parlamento, prontamente catturato dai fotografi, in cui definiva il nuovo esecutivo «un miracolo» (per la precisione, perché anche il tono conta, il messaggio si concludeva con queste parole: «Per ora mi sembra tutto un miracolo! E allora i miracoli esistono!») La reinvenzione del profilo politico di Letta è infatti la più sbalorditiva di tutte. Ma è ancora niente rispetto al gioco di prestigio con cui, dopo avere eguagliato (senza particolari responsabilità) cinque anni dopo il risultato più disastroso della storia del partito (quello del Partito democratico renziano del 2018), ha pensato bene che in attesa dell’inevitabile Congresso, che lo sostituisse al vertice del Partito, lui e l’intero gruppo dirigente come sempre (non) uscente dovessero organizzare nel frattempo nientemeno che la rifondazione del Pd attuale in un nuovo Pd. Orbene il summenzionato dibattito para-leninista paradossalmente kafkiano, nel tentativo di definire visioni e orizzonti tutt’alto che probabili e veritieri, è la conseguenza inevitabile di questo gioco di specchi tra correnti interne, ma anche dell’inerzia di chi (la base) dovrebbe pretendere un vero ricambio e si lascia intortare come un allocco da tutto ciò. Senza capire che l’esito ultimo di tanti magniloquenti discorsi su Marx, Lenin e la necessità di cambiare il mondo è solo l’ennesimo tentativo di demolizione del Pd in quanto tale, cioè in quanto possibile partito comunque capace di rappresentare la grande maggioranza riformista liberal-socialista del centrosinistra (contrariamente a chi sostiene che il riformismo è liberale o non è… un luogo comune, per escludere che il Partito democratico non è infatti il partito unico del centrosinistra, ma c’e anche il Terzo polo e oggi anche i 5stelle addirittura più a sinistra della sinistra Pd. Tutti preoccupati di perdere il congresso del partito (quello che c’è), i soliti responsabili dell’ennesima disfatta elettorale, stanno provando dunque a inventarsene un altro in questa singolare «fase costituente» preliminare, per cercare di rimescolare le carte ancora una volta. E così, per giustificare la fondazione di un nuovo soggetto, implicitamente e/o esplicitamente hanno bisogno di certificare il fallimento del partito attuale. Se il Partito democratico ha potuto esercitare un ruolo centrale nella politica italiana pur non avendo mai pienamente vinto le elezioni, se i suoi esponenti hanno potuto fare tante volte i ministri, se i suoi gruppi dirigenti hanno potuto fare e disfare tanti governi, la ragione sta proprio nella scelta di lasciarsi alle spalle partiti e partitini di centro, di sinistra e di centrosinistra – quelli sì falliti – buoni solo a farsi la guerra tra loro. Eppure, di questo passo, è proprio lì che rischiano tutti quanti di tornare. «Pd o Dp?»: la battuta non è del tutto banale, perché anche se sembra incredibile scivolare dal fondatore del Partito democratico Walter Veltroni a quello di Democrazia proletaria Mario Capanna sta tornando a galla una “critica” del Capitalismo, che alcuni (gli ex-renziani) sostengono alligni da sempre come un rampicante su qualche muro del Nazareno. Ma forse – ragiona qualcuno – è persino meglio che «i matti» (definizione non mia) siano usciti subito allo scoperto così da determinare una reazione contraria e si possa passare a una fase più seria della discussione. Ieri c’è stata una prima risposta e ci sarà ulteriormente nei prossimi giorni vista la candidatura ufficiale della Elly Schlein e dello schieramento che si predispone a sorreggerla. Certo è che ora che la nave è senza timoniere dalla stiva esce di tutto, compresa questa trita riedizione di Marx e Lenin – ma questo è solo colore – e i vari assalitori del profilo riformatore del partito creato al Lingotto con quel loro: «Bisogna espungere il liberismo che si è insinuato nel Partito democratico»… di fatto si oppongono alla riproposizione delle centralità politiche sulle questioni del lavoro, del salario, della giustizia sociale e della lotta alle diseguaglianze tentando di far fare un possibile salto all’indietro proprio del riformismo del Pd… La missione di una sinistra moderna, deve avere due capisaldi: la riproposizione di un “Partito del Paese”, come una grande forza nazionale che: “si manifesta nel pensare la propria identità e la propria politica non già in termini di rappresentanza parziale di segmenti più o meno grandi della società, ma come proiezione della sua profonda aderenza alle articolazioni e alle autonomie civili, sociali e istituzionali proprie del pluralismo della storia italiana in una visione più ampia dell’interesse generale”. E il secondo caposaldo sta nella parola “emancipazione”, di fronte a “diseguaglianze che aumentano”, “tendenza inaccettabile” nel cui “contrasto è il compito del nuovo riformismo”. Emancipazione, non “protezione” sociale che, come avrebbe spiegato il vecchio Marx, è il cuore della sinistra perché è il lavoro che dà cittadinanza – non l’assistenzialismo – e perché l’orizzonte è la redistribuzione della ricchezza (Welfare) e del potere (democrazia). È l’idea antica, propria delle migliori espressioni della Sinistra italiana, che, per realizzare una trasformazione, non basta chiudersi in un universo rivendicativo e corporativo, ma, partendo da un punto di vista e da un radicamento sociale, farsi carico di una visione più generale. Costruire politicamente un popolo, stando nel gorgo dei suoi bisogni, delle sue contraddizioni e dei suoi conflitti. In una situazione in cui questa funzione nazionale è stata tradita da destra e da sinistra – da Renzi che ha trasformato il riformismo sociale e civile del Pd in un progetto ‘individuale’ di potere rendendo ‘maledetto’ lo stesso termine e nonché dai filo Cinque stelle che hanno confuso il popolo col populismo e l’emancipazione col pauperismo. L’altro imbroglio sta nell’ipocrisia tattica della discussione. Che non prende di petto la sconfitta, intesa come analisi dello smarrimento di una missione e di un radicamento, ma la piega al gioco politicista. Ecco perché è complicato un ragionamento sereno attorno a un nuovo Manifesto politico a Congresso iniziato, ove è evidente il tentativo di alcuni di scrivere un documento “anticapitalista” per condizionare un Segretario riformista eletto dai gazebo e degli altri di lasciare le cose come stanno, in attesa dei gazebo. Può un luogo, senza un nuovo mandato, cambiare il Dna di un partito mentre, nel contempo, i candidati chiedono a loro volta un mandato per governarlo? E così si assiste a una giostra destinata a girare su sé stessa, fino al momento in cui nei gazebo iscritti, non iscritti, passanti sceglieranno il segretario del partito tra candidati, una dei quali (Elly Schlein) si è iscritta per l’occasione, di fatto una innovazione clamorosa che vale più di cento manifesti e mille statuti. In questo casino ancora non c’è uno straccio di discussione sul merito: da un lato la vocazione minoritaria di Elly Schlein che, archiviato Articolo 1, pare essere Articolo 2; dall’altro una rimasticatura della vocazione maggioritaria, ancora priva di uno slancio di innovazione programmatica. La radicalità come chiacchiera ideologica, il riformismo come amministrazione dell’esistente. L’opposto dei presupposti per cui era nato il Pd. Forse e il caso di dire: “Aridatece Walter”. Tutto ciò, mi pare francamente la principale necessità politica del Pd, il così detto : “minimo sindacale”, proprio per evitare che i costi delle crisi degli anni passati e di quelli a venire… che qui da noi pesano soprattutto sulle spalle del lavoro dipendente e dei pensionati… ormai in misura insopportabile, continuino con la solita “macelleria sociale” a togliere ulteriormente ai poveri per dare ai ricchi. Ma a parte questo, dai toni emersi nella prima riunione dei “saggi” che hanno l’improvvido compito di scrivere un nuovo Manifesto del partito – giacché ritengono superato e pure «brutto» quello del 2008 scritto da Reichlin, Prodi, Mattarella eccetera – è abbastanza verosimile che continuando così la scissione alla fine diventerebbe inevitabile e bisognerebbe porsi semmai il problema di come gestirla: cosa accomuna le idee di Nadia Urbinati a quelle del documento laburista di Marco Bentivogli? O fra la linea di Peppe Provenzano e quella di Giorgio Gori? Qui è veramente difficile il caro vecchio compito dei mediatori, quello che tradizionalmente alla fine s’impone “per il bene del partito”, giacché è arduo fare sintesi tra chi vuole (ancora!) il capitalismo così com’è e chi ritiene che il medesimo capitalismo abbia invece bisogno di riforme, che ne temperino le ingiustizie sempre più grandi che colpiscono sempre i soliti ceti sociali spingendoli ad un conflitto tra loro. Questo è il mondo in cui già viviamo e vivremo ancora per parecchio tempo, visto il crescere imperioso delle diseguaglianze e dell’area della povertà anche qui da noi in Occidente. C’è chi sostiene che: «Il messaggio degli elettori non è “cambiate il Manifesto”, casomai è “cambiate la classe dirigente”», aggiungendo che: «Avremmo bisogno di un’economia più dinamica e invece discutiamo dell’ordo-liberismo». Che vorrà dire? Forse lo capiremo nel proseguimento del confronto congressuale. Nella confusione generale resta secondo me un mistero… perché i così detti “anticapitalisti” tipo Andrea Orlando, Gianni Cuperlo, Laura Boldrini, che nella citata riunione hanno avuto il fragoroso apporto di Nadia Urbinati e di Emanuele Felice, non appoggino ancora chiaramente Elly Schlein, ad oggi è la candidatura sicuramente più di sinistra che è stata formalizzata. Tant’è che la eventuale vittoria della neodeputata bolognese – ha annunciato Gori – metterebbe in discussione la sua appartenenza al Partito democratico. In azione e Italia viva, lo accoglierebbero a braccia aperte… Vedremo quello che succederà nelle prossime riunioni del Comitatone, ma se il buongiorno si vede dal mattino è prevedibile come minimo che il Pd si spaccherà. Può darsi che sia stata una falsa partenza, può invece darsi che sia stato l’inizio della fine, la “deriva francese”, appunto una Democrazia proletaria 2.0, che darebbe forza a Giuseppe Conte e paradossalmente anche a Calenda e Renzi, che proprio su questa rottura scommettono per portare avanti le loro formazioni politiche ancora scarse in termini di voti per potersi proporre come delle alternative all’attuale governo…
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