Politica: Congresso, il candidato Bonaccini e la terra promessa per il Pd…

Stefano Bonaccini: “Mi candido…” ha così rotto gli indugi e si è candidato alla segreteria del Pd. Correnti, pressioni e il percorso per un dopo Letta che si annuncia tutt’altro che facile. Le incognite si susseguono. E per provare a districarci in questo ginepraio, Stefano Bonaccini con il pizzetto e gli occhiali a goccia, lancia la sfida per dimostrare che il teorema emiliano sia esportabile anche a Roma. “Compagni e compagne” non glielo si sentiva dire da tempo. Il vecchio saluto lo ha rispolverato a Campogalliano, nel modenese, da dove viene e dove vive, davanti agli amici, alla famiglia (incluso il cane Romeo). Di solito, per entrare in connessione emotiva con la platea, usa un’altra chiave: “Ma voi pensate che nei bar parlino di questo?”. Ripetuta costantemente negli ultimi tempi, a sottolineare la proverbiale distanza tra eletti ed elettori. Ovvero il deserto che tutta la politica si ricorda ogni giorno di dover attraversare, senza quasi mai riuscirci. Un’impresa che Bonaccini almeno una volta portò a termine, mobilitando davvero l’elettorato dell’Emilia-Romagna per sbarrare la strada a Salvini, riconfermandosi presidente della Regione a inizio 2020. C’è chi commenta: “O il rilancio il Pd lo cerca e lo trova innanzitutto al suo interno o è destinato a perdersi comunque appresso ad altri”. Dice Arturo Parisi ex ministro dem ai tempi dell’Ulivo di Prodi che accenna a che tipo di percorso prevede debba percorrere il governatore della regione Emilia-Romagna. ”Vediamo intanto questo suo primo passo: il suo circolo, la piazza che lo ha visto crescere, la sua famiglia. Già dice molto. È un ripartire dalla propria storia. Dalla propria esperienza: di persona e di amministratore”. E perché no (sottolineo io) dalla contestazione aperta di una parte: “dei dirigenti di primo piano del partito quelli che in sicurezza si sono candidati nei listini e non nei collegi uninominali”, lontani dalle proprie comunità di provenienza. Una partenza controvento. Figlia di una scelta dichiaratamente consapevole. “Mi è abbastanza chiaro che non avrò il sostegno di molti nel gruppo dirigente nazionale” dice nel suo discorso di candidatura. Per uno figlio del mainstream del pci-pds-ds emiliano da Bersani a Errani, diciamo pure, sul piano personale e politico, è già una evidente discontinuità. Una discontinuità che cerca le sue radici in quella che 15 anni fa il Pd promise ma non mantenne. Se si potesse dirla con uno slogan, sembrerebbe la proposta di “un ritorno al futuro”. Rispetto a un tempo rispetto al quale il futuro vede ‘i Congressi e le Assemblee Pd’ non concludersi più all’unanimità. Sempre che ancora una volta il gruppone dirigente non decida di arrendersi già ora alla probabilità della sua vittoria per neutralizzarla rendendola ineluttabile. Lo scetticismo crescente sullo scontro con Elly Schlein, e la necessità di un partito a ispirazione federalista che si arricchisce con le esperienze dei governi locali: “Di questo tipo di democrazia il Pd dispone forse come nessun altro partito” dice Bonaccini, in questo contesto di un derby che lo vedrà ‘sfidare’ la sua vice Schlein. C’è il rischio di un cortocircuito? Chi sfida chi è tutto da vedere. Di certo il percorso iniziale evocato da Letta alla sua acclamazione a Segretario, poi esplicitato ancora dopo la recente dura sconfitta politica, e finalmente sancito dal voto della Assemblea Nazionale del 19 novembre, non sembra annunciare una candidatura come quella di Bonaccini, o, meglio una candidatura proposta in questi termini. Dire però che oltre che in funzione del ricongiungimento con Bersani e Speranza e con il loro Art.1 e la definitiva rottura con Renzi, questo percorso fosse pensato sulla misura di una Elly Schlein, che ora diventerebbe la rappresentante delle ragioni della Ditta contro lo stesso Bonaccini, mi sembra veramente troppo. Anche se non possiamo dimenticare che alla vigilia della sconfitta è stato Letta a portare in prima fila sul palco del Partito in occasione della chiusura della campagna elettorale come unica “candidata progressista” una non iscritta al Pd come Elly Schlein proponendola come icona dichiarata dei diritti civili e consentendole di ripetere la sua difesa del Reddito di Cittadinanza il riconoscimento dei meriti del concorrente M5S. Se si chiede a Parisi: “E’ in gioco, secondo Lei nel voto alle primarie che ci saranno il prossimo febbraio la vita stessa del partito, per una possibile ulteriore scissione nel Pd? Ci si sente rispondere: “Vita è troppo. Considerato il radicamento e la ancora diffusa presenza del personale Pd nelle amministrazioni locali piuttosto ad un ulteriore e lento declino”. In effetti, sta proprio in questo il problema del Pd. Il ridursi della speranza nel futuro ma allo stesso tempo l’assenza di una corrispondente disperazione. Il pessimismo sul futuro del partito non è infatti incompatibile con l’ottimismo sul presente dei singoli dirigenti. Ognuno di loro pensa infatti di poter garantire ancora un futuro a sé stesso. Se non nel proprio territorio in altri ancora favorevoli, sempre e fino a quando i dirigenti di questi territori lo consentiranno. È soprattutto a questo che servono le correnti. Questo in generale. È in questa dissociazione tra l’interesse collettivo e quello individuale che sta la relativa tranquillità che finora accompagnato l’elaborazione della recente sconfitta, e soprattutto di quelle avvenute prima nel 2013 e nel 2018. Prima sostanzialmente negata attraverso il ridimensionamento della vittoria della destra, poi declassata a sconfitta non catastrofica… Pensando sempre che quindi ci fosse tempo per correggere la rotta. Non è così. Seppure non siano i tempi del percorso congressuale il problema, tempi che comunque restano, visto i ritardi accumulati anche rispetto alle passate sconfitte, sicuramente insufficienti a un confronto serio, associato alla pretesa di un congresso sia che voglia essere “costituente” di un nuovo partito o invece semplicemente “ricostituente” di uno vecchio. Dice Del Rio: Al Congresso:  “Rifondiamo il partito, ma teniamoci stretti nome e simbolo”. L’ex ministro dem risponde alla proposta del segretario Letta: “Sulle alleanze il percorso con i bersaniani è già iniziato. Vedremo se si potrà lavorare di nuovo anche con i 5S”.  A mancare è invece il tempo, il ritmo lo spessore del confronto, della riflessione e della scelta. Quale essa sia. Non si vorrebbe che si bruciassero i tempi e allo stesso tempo sprecasse il tempo. Ma se questo dovesse capitare sarebbe perché nessuno del gruppo dirigente può curare una malattia che non riconosce di avere. La perdita come dice Gianni Cuperlo della “Reputazione”. Cosa essenziale per la credibilità di chiunque faccia parte di quel gruppo dirigente. Ora e sempre reputazione! Il Pd deve smantellare la dirigenza per uscire dalla crisi profonda in cui si trova. Fa bene Bonaccini ad evocare anche lui una lunga traversata di un deserto destinata a durare ben oltre l’elezione del nuovo segretario. E fanno bene tutti a riconoscere che nell’immediato tutto il problema sta nella scelta del Mosè di turno. Con la speranza che almeno lui creda e sia capace di evocare una Terra Promessa da raggiungere. Altrimenti si dovrebbe riconoscere non solo che si siano perse le elezioni degli ultimi anni ma che il Pd si sia proprio persa l’anima. Nel Pd, non è un mistero, che c’è ancora una parte che ambirebbe ad andare a braccetto con il Movimento 5 Stelle. Che pensa che questa possa essere l’unica strada vincente per il ‘rilancio’ del Pd. E non che o il rilancio il Pd lo cerca e lo trova innanzitutto al suo interno o è destinato a perdersi comunque appresso ad altri. Quali che siano questi altri. C’è chi come il coordinatore dei sindaci dem, Matteo Ricci, chiede a gran voce più spazio per gli amministratori locali nel Pd. Dicendo che è dai territori che potrà arrivare quell’impulso che si cerca per il dopo-Letta. Non solo lui ma anche lo stesso Bonaccini sta evocando un modello alternativo a quello accentrato attorno ad un “caminetto” di capi che al Nazzareno guidano dalle loro correnti il Partito. Un partito ad ispirazione federalista che muove non dalle varie identità alternative ridotte a rendite che giustificando il comando alimentano le diverse obbedienze, ma dalle esperienze dei governi locali. Dalla capacità degli amministratori di partire dalla soluzione dei problemi, dalla tensione a cercare su questa il consenso, dalla consapevolezza che l’autorità si esercita nell’interesse di tutti e quindi a tutti deve rivolgersi assicurandosi comunque il sostegno della maggioranza dei cittadini. Un altro  candidato ispirato da questa visione potrebbe essere Dario Nardella. In effetti, di questo tipo di democrazia il Pd dispone forse come nessun altro partito di un personale quantitativamente esteso e qualitativamente competente. Un personale cresciuto grazie a un trentennio di esperienza di democrazia maggioritaria aperta dalla riforma del governo locale. È arrivato il momento che sia messo pienamente alla prova anche a livello nazionale? Credo che se questo è realmente alla fine il nucleo vero del congresso del Pd, di effettivamente “costituente” non ci sia niente nell’assise congressuale che sta svolgendosi e che non sia nemmeno una vera cura “ricostituente”. Non è attraverso ciò che il Pd potrà ritrovare la sua “anima” con le necessarie ragioni di restare uniti, questa è la strada di una, a questo punto della storia, rapida dissoluzione… attraverso un’ulteriore scissione. Quello che manca al Pd (ma direi a tutti i partiti o movimenti e quant’altro ancora in campo) sono le ragioni stesse dello stare insieme e aver passione e una identità politica che offra una visione di vita e un’immagine di comunità popolare (non populista né meno che meno sovranista) al popolo italiano… in Europa e nel Mondo…

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