Politica: cosa serve per capire che «non si è di sinistra se non si combatte la disuguaglianza…»

L’ennesima vittoria della Destra (qui in Italia e in più Paesi d’Europa ma, si potrebbe dire in buona parte del mondo… Il vento di destra spira sempre più forte in tutta Europa e non solo. I risultati delle amministrative in Italia e la vittoria in Spagna, che ha portato alla caduta del governo nel Paese iberico, confermano un trend che va avanti ormai da almeno un decennio nel Vecchio Continente e che ha trovato linfa vitale nelle nuove emergenze alle quali i governi si sono trovati a far fronte: Covid e guerra in Ucraina su tutti. Una tendenza confermata dalle ultime indiscrezioni riguardanti la strategia che aleggia nella testa del presidente del Partito Popolare Europeo, Manfred Weber: tentare l’avvicinamento ai Conservatori di Giorgia Meloni per una nuova coalizione europea che guardi alle formazioni di destra. Una destra che non teme di definirsi tale, dovrebbe permetterci di aprire una riflessione profonda su cosa è o dovrebbe essere oggi la Sinistra. Ecco a riguardo alcuni punti fermi. Poiché la vita ci ha allenato a trovare opportunità anche nei guai, la vittoria della destra-centro almeno un’opportunità ce la dà. Sdogana definitivamente il termine “destra”, visto che Fratelli d’Italia, è un partito orgogliosamente di destra ed è la spina dorsale della coalizione vincitrice, avendole portato quasi il 60% dei voti raccolti; destra conservatrice neoliberista e destra autoritaria, che cercano una convivenza, come altrove nel mondo. Ma qui ci interessa l’altra faccia della medaglia: l’opportunità di sdoganare, allora, anche il termine “Sinistra”. Intendiamoci. Sinistra non è parola che apre magicamente chissà quali porte. Forse lo fa per una parte della mia generazione (sono 75). Ma suscita sguardi sospettosi in larghe masse di giovani che pure sono in tutto e per tutto impegnati contro le ingiustizie. Non sorprenda. Nascosta dal prefisso “centro-”, quando non irrisa come un rudere, essa è stata usata spesso per coprire azioni che proponevano in realtà la conservazione o il rammendo dell’esistente. Sdoganare la “sinistra”, dunque, non ci deve interessare per la parola, ma per le idee che ci possono stare dietro. Di questo vorrei dire qualcosa. Perché la possibilità di affrontare le grandi disuguaglianze del nostro tempo, di ricacciare mostri e paure, di ritrovare un rapporto armonico con l’ecosistema dipende da quelle idee, che chiamerò per l’appunto “di sinistra”. Dalla possibilità che, oltre a essere praticate da un vasto fermento di pratiche sociali, imprenditoriali e di vita, a cui continuamente io e molti altri facciamo riferimento, idee che siano il patrimonio dinamico di un Partito di sinistra organizzato che purtroppo non c’è più. Invece di muovere dai ceppi originari di quelle idee – tanto si capirà subito che il riferimento è all’incontro antifascista fra il meglio delle culture liberale, social-comunista e cristiano/sociale-cattolico/democratica, che produce l’idea di “libertà sostanziale” dell’articolo 3 della Costituzione – di che si tratta? Lo faccio senza pensare di saper fissare qui o altrove i canoni contemporanei del pensiero di sinistra. Ma al tempo stesso convinto, dal dialogo tra Fabrizio Barca con Fulvio Lorefice nel suo saggio “Disuguaglianze e Conflitto un anno dopo”, perchè dal pensiero e dall’azione di tanti e tante possiamo ricavare alcuni, chiari tratti. Diciamolo prima in generale. Essere – anche senza saperlo o volerlo dire – “di sinistra” vuol dire osare e agire, per attuare la visione di un modo alternativo, più giusto di vivere. Ritenendo che, di fronte all’entità delle disuguaglianze, al succedersi parossistico di crisi, all’evidente insostenibilità del nostro attuale modo di produzione e di organizzazione della vita, si debba e si possa cambiare paradigma, con urgenza e radicalità; anziché eternamente ricucire, costruire resilienza attorno a una normalità che conviene solo a pochi ed è insostenibile per molti. Questa impostazione generale muove dal recupero di un’idea di noi umani, lontana sia dal grottesco riduzionismo neoliberista, che si inventa la nostra specie come mossa solo dall’egoismo, sia dall’arrogante deriva iper-illuminista, che ci immagina capaci di prevedere e costruire il futuro in modo quasi deterministico. In realtà, siamo intrisi anche di un istinto al mutuo soccorso, alla fratellanza e sorellanza, a comportamenti di reciprocità e dono: il tema è lavorare a costruire dispositivi che ci spingano, che ci rendano possibile valorizzare questa parte di noi, senza nascondere nel cinismo la nostra paura di non riuscirci. Ma nel fare ciò, dobbiamo ricordarci che siamo in grado di prevedere solo in modo assai impreciso l’effetto delle nostre azioni e che i processi di cambiamento non sono lineari e dunque che sempre dobbiamo attrezzarci a intercettare in tempo l’imprevisto e adattarci a esso. Su queste basi possono poggiare tre fra i tratti più significativi di un pensiero e di un’azione personale, collettiva o pubblica “di sinistra”. Prima di tutto, è “di sinistra” considerare primario il riequilibrio di potere come strumento per sanare le molteplici subalternità che si intersecano e compongono nella società: la subalternità di chi controlla solo il proprio lavoro (e non anche il capitale, materiale e immateriale, di cui il lavoro ha bisogno per essere produttivo), delle donne in un contesto che resta patriarcale, dei gruppi etnici minoritari o di recente migrazione, dell’intero ecosistema soggetto alla specie che l’evoluzione culturale ha reso temporaneamente più potente. È questo il tratto di moltissime pratiche e proposte che fanno parte del patrimonio sottoutilizzato del Paese: strumenti per innalzare i salari, per stroncare il lavoro irregolare e precario, per reinserire in società i più poveri o fragili, per eliminare il part-time involontario delle donne, per liberarle da oneri squilibrati e obbligatori di cura, per dare diritti e voce indipendentemente dall’origine etnica, per produrre energia in modo comunitario, per consentire a ogni persona di ragionare sul proprio genere. È questo anche il tratto che rende chi è “di sinistra” avverso a ogni forma di concentrazione del controllo e favorevole, nel mercato, alla concorrenza, nell’agone democratico, al dialogo sociale ad ogni costo. Il che ci porta agli altri due tratti. Essere e agire “di sinistra” vuol dire ritenere e agire affinché ogni forma di conoscenza sia considerata bene primario comune dell’umanità. Ne discende la considerazione dell’educazione come diritto primario moltiplicatore a sua volta di diritti individuali e collettivi da assicurare attraverso un servizio universale pubblico, dalla primissima età, compensando differenze di origine sociale e demolendo stereotipi di genere e “razza” (e le sue declinazioni: etnia, ceppo) e lungo tutta la vita. Ma anche la costruzione di dispositivi che garantiscano a tutti e tutte i benefici derivanti dalla ricerca, il contrario di quanto avviene oggi, come la pandemia ha rimarcato e che consentano un’evoluzione della trasformazione digitale a favore, non a sfavore, della giustizia sociale. Ed ecco qui, di nuovo, pratiche e proposte che vanno in questa direzione: il diffondersi dei patti educativi territoriali, la proposta di dar vita a un’infrastruttura pubblica europea della salute che ricerchi e sviluppi farmaci senza alcuna forma di proprietà intellettuale, la proposta di una revisione dell’accordo internazionale Trips sulla proprietà intellettuale, le idee per dare corpo alla regolamentazione europea sull’uso di dati, pubblici e privati, e di algoritmi, che supera i modelli di Usa e Cina. Infine, c’è il metodo con cui fare tutto questo. Essere “di sinistra” vuol dire credere e praticare il metodo del confronto pubblico aperto, informato, acceso – dove tutti abbiamo voce – e ragionevole – dove si entra nella testa e nella pancia delle persone con cui ti confronti. È un metodo che recupera a un tempo il conflitto, come mezzo fondamentale della democrazia, e il compromesso, come ricerca di un’intersezione possibile fra interessi e visioni del mondo diversi. Attenzione, un compromesso che può venire solo a esito di un confronto in cui si è scavato nelle reciproche contraddizioni, si sono fatti valere e si sono modificati i rapporti di forza, si sono prodotti cambiamenti nelle idee. Poggia su queste basi un disegno e un’attuazione delle politiche pubbliche per i servizi fondamentali che sia a misura delle persone nei luoghi, attraverso una scossa alla rigidità amministrativistica delle nostre norme, alla monopolizzazione dei dati e alla macchina della Pa. Tutto il contrario di ciò che abbiamo visto fare di recente nel disegno e attuazione del Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza. Non ci sono volute molte righe né parole per riassumere cosa può voler dire “essere di sinistra” e fare esempi pratici. Si può certo fare di meglio. Ma se fosse attorno a cose come queste che avvenisse da domani il confronto dentro e fuori le diverse formazioni del (centro-)sinistra, forse una luce apparirebbe all’orizzonte. Invece, la sinistra viene sconfitta elettoralmente almeno da un decennio, perché è ormai incapace di criticare il sistema economico dominato dal mercato dei consumi e di indicare una strada della ripresa di uno sviluppo possibile che preservi l’ambiente e ridistribuisca la ricchezza in modo più equo evitando conflitti divisivi e lo scoppio ulteriore di guerre tra le vecchie e nuove aree geopolitiche… Si è così formato il primo governo italiano presieduto da una donna, e da una giovane donna. E questo è un fatto storico, piaccia o no. Meditino coloro che di successi simili non sono stati capaci. Per ora il “sovranismo” ha partorito un forte incoraggiamento per la dieta mediterranea e il “made in Italy”, e un vetero-paternalismo il solito, retorico appello al Dovere e al Merito. I grandi rischi per la nostra democrazia non mi sembrano proprio venire da questa destra. Ne vedo piuttosto per questa destra stessa quando dovrà affrontare debito e tasse. Se poi volesse metter mano a diritti ormai acquisiti dal comun sentire l’attuale consenso non durerebbe a lungo. Ma non mi pare che il/la Presidente sia persona poco perspicace. E francamente, mi appassionerebbe maggiormente sapere che cosa intendano fare le opposizioni. Attendere lungo il fiume il cadavere dell’avversario, magari nell’attesa che ci pensino “potenze alleate”? O piuttosto su alcuni problemi-chiave nutrono la virtuosa intenzione di tentare un accordo? Quali siano è noto a tutti: la difesa dei redditi più bassi soffocati nella morsa di inflazione e recessione, senza dover incidere ulteriormente sul debito; quindi, una manovra fiscale fortemente redistributiva; una profonda revisione dei meccanismi del reddito di cittadinanza, proprio allo scopo di difenderlo dagli attacchi liquidatori da parte del governo Meloni; una politica attiva dell’immigrazione, se vogliamo salvare migliaia e migliaia di imprese e settori della nostra economia. E infine almeno un minimo comun denominatore in politica estera: la coscienza del tremendo pericolo che si corre se continua la guerra e se questa finisce col diventare a tutti gli effetti una guerra tra Nato e Russia. Le attuali opposizioni avrebbero il dovere di formare una opposizione con proposte concrete su tutti questi temi; ma come potrebbero riuscirvi senza un “federatore” tra loro? Anzi, esse sono apparse dopo l’ennesima batosta elettorale dei giorni scorsi ancora più divise di prima. E il dramma è che queste divisioni non hanno motivi tattici, ma sono l’effetto di una crisi culturale e politica che le affligge tutte quante e viene da molto lontano. Essa è parte di quella crisi che ha colpito tutte le forze della Sinistra europea dopo la caduta del Muro. Una rincorsa spesso affannosa a mascherare con un po’ di pensiero liberale il liberismo neoconservatore proveniente dal Campidoglio americano. Con conseguenti “liberalizzazioni” giunte fino al limite di “metter sul mercato” beni comuni, di confondere dappertutto res publica e res privata. L’arrendersi agli effetti della globalizzazione in termini di aumento delle disuguaglianze, della “distanza sociale”, illudendosi di poterli correggere con qualche placebo. Nessuna efficace azione nell’ambito dell’Unione europea perché valessero i pilastri della solidarietà e sussidiarietà accanto, almeno, al dogma della stabilità – e ciò fino all’emergenza Covid. È stata perduta la sfida di una Sinistra europea all’altezza della nuova epoca inaugurata con la fine della terza guerra mondiale (la guerra fredda). Le sue macerie un po’ in tutti i paesi europei sono lì a dimostrarlo. Ma sfide di questo genere si perdono sempre quando si smarrisce il “filo buono” del proprio passato. Quel passato era anche pensiero critico, capacità di interpretare le contraddizioni del sistema economico e sociale del proprio tempo, prassi volta a liberare classi e individui da ogni subalternità politica alle “leggi” che questo sistema vorrebbe imporre quasi come naturali. All’assenza di questo sforzo critico si è rimediato, anche durante la campagna elettorale, oggi ancora, col mantra ormai patetico del pericolo fascista. Eppure, già quel Pasolini che qualche leader o ex leader della sinistra nostrana finge tanto di amare diceva già mezzo secolo fa che il fascismo attuale non è quello archeologico del saluto romano e della camicia nera, ma quello della normalità omologante, del neocapitalismo senza patrie, del feticismo consumistico. Un pericolo, dunque, ammesso lo si ritenga tale, che non ha più alcun senso chiamare fascismo. È il dominio concertato delle gper la gestione della perenne emergenza prodotta dalla loro stessa logica di indefinito continuo sviluppo. I totalitarismi novecenteschi non servono più. La domanda di sicurezza, ansiosa di soffocare ogni parola che ci suoni straniera, che ci sembri mettere a rischio la nostra casa, viene fatta emergere con prepotenza dall’individuo stesso, nella sua perfetta solitudine fatta di infinite connessioni. Lo sgretolamento della Sinistra europea deriva logicamente dall’impotenza critica nei confronti di questo stato di cose, dall’ignorare perfino la domanda sulla sua possibile trasformazione. Concludendo: se il Pd non porrà questa domanda alla base del suo confronto interno e di quello del Paese, questo non segnerà che l’atto finale della storia della Sinistra italiana in quanto forza politica. La cultura di Sinistra aveva alla sua base la contestazione del potere dominante… Le tre cose da fare subito dopo la l’ennesima sconfitta. Scrive Gianni Cuperlo su Domani: “C’è una leader in sella che rivendica discontinuità. Ma un partito non si regge su una logica maggioritaria. Ha bisogno di cercare sempre la sintesi migliore tra le idee e le proposte che quella comunità è in grado di produrre. Recuperiamo l’anima del migliore centrosinistra di questi trent’anni, la spinta dal basso generata dal primo Ulivo di Romano Prodi e Walter Veltroni. Allora furono i “Comitati per l’Italia che vogliamo”. Non si può ripartire dall’attesa beckettiana di piazze e palchi dove Conte accetti di salire in compagnia del Pd- Senza una larga alleanza sociale e culturale, l’alternativa è lontana. Il Pd, tra i pochi partiti rimasti a presidiare un po’ di territorio, non ha di che pagare le spese per aprire le sue sedi. Il disegno inquietante della destra si contrasta restituendo la politica al popolo. Se il Pd non riparte da qui il suo destino e quello del Paese è definitivamente segnato…

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