Negli ultimi dieci giorni è successo di tutto: dagli stati generali della natalità insieme con il Papa alla patria indicata come mamma alla adunata degli Alpini, dalla riforma forzata della Costituzione al cognato Lollobrigida che insiste sul recupero del concetto di etnia. Dio, Patria, Famiglia, Costituzione, Rai. Giorgia Meloni sta scambiando la politica italiana per un ottovolante su quale far correre a velocità pazzesca la sua leadership. In questi ultimi «dieci incredibili giorni», come nell’omonimo film di Claude Chabrol, al netto della ferma e giusta posizione sull’Ucraina ribadita direttamente a Zelensky (posizione peraltro espressa dal Presidente della Repubblica e dal Parlamento), è successo di tutto, con la presidente del Consiglio che ha impresso una accelerazione spericolata alla sua cosiddetta costruzione di un’egemonia che per ora beninteso è solo occupazione del potere e dominio sui suoi alleati. Il caso-Fazio è ovviamente la gigantesca punta di un iceberg che consiste nell’occupazione totale della Rai e forse in sé non è nemmeno l’obiettivo per lei più importante, al massimo un trofeo che spaventi gli avversari e soprattutto un bel regalo per Matteo Salvini che da sempre lo odia (rimarrà nella storia della volgarità istituzionale il «Ciao belli» riferito a Fazio e Littizzetto) e comunque come avrebbe detto Claudio Scajola anche per lei è un rompicoglioni in meno, lui e i suoi continui inviti a politici e giornalisti di sinistra. È anche vero che il conduttore di “Che tempo che fa” è stato lasciato completamente solo, non solo dal Pd, che lo ha sempre visto come un personaggio più che amico, ma a quanto pare anche dal presidente dimissionario Carlo Fuortes che per ragioni almeno per noi imperscrutabili non ha mai firmato il contratto che pure era pronto da tempo e c’è chi dice che non abbia voluto «chiudere» positivamente con Fazio proprio come strizzatina d’occhi a Meloni. Sia come sia, sta di fatto che con questo allineamento di pianeti all’inventore di Che tempo che fa non è restato altro da fare che lasciare l’azienda dopo 40 anni per trasmigrare a Discovery, dove prevedibilmente ogni domenica sera rifilerà umiliazioni su umiliazioni a chi prenderà il suo posto in Rai: perché è del tutto evidente che la cacciata di Fazio non è un bel segnale per la marea di telespettatori che la Rai è destinata a perdere, e con loro anche tanti bei soldini che derivavano dalla pubblicità di una trasmissione con grandi ascolti – siamo ai limiti del danni erariale – ma di tutto questo a Salvini e Meloni frega poco, a cospetto di una epurazione che ha un peso simbolico almeno pari a quello decretato a suo tempo da Silvio Berlusconi ai danni di Enzo Biagi e Michele Santoro e che suona come un monito violentissimo per chi volesse mettersi contro i governanti del Paese. E certamente siamo solo all’antipasto di una complessa operazione di occupazione di tutti i posti-chiave del servizio pubblico e di altri enti culturali di primaria importanza, come si è già visti con il pur brillante Alessandro Giuli al Maxxi di Roma e probabilmente si vedrà con Pietrangelo Buttafuoco alla Biennale di Venezia. Siamo alla versione più rozza del concetto di egemonia: dicono che i ragazzi della nouvelle vague della destra leggano molto Gramsci ma evidentemente senza capirlo, se credono che il pensatore sardo pensasse al «potere culturale» e non invece a una assai complessa lettura del movimento storico fondata sui cambiamenti «molecolari» nella società e nello Stato. Ma lasciamo perdere la dottrina. La realtà politica ci sta dicendo che Meloni sta tentando di instillare nell’opinione pubblica concetti e «valori» che in questi decenni avevano perduto molto terreno: il nazionalismo prima di tutto (di volta in volta declinata come Nazione o Patria, una Patria ieri addirittura decantata dalla premier come «una seconda mamma» all’adunata degli Alpini) di contro alla mondializzazione, all’apertura, all’europeismo, alla mescolanza – vedi il grottesco recupero del concetto di etnia da parte del ministro dell’Agricoltura Lollobrigida; poi la Famiglia intesa nella maniera più tradizionale, lo si è visto agli Stati generali della natalità alla presenza del Pontefice, con un fortissima caratterizzazione polemica verso tutte le forme contemporanee di libertà di donne e uomini. Vedremo se parallelamente al recupero di un linguaggio oscurantista si porrà mano a un qualche intervento «culturale» sulla religione cattolica in chiave regressiva potenzialmente preconciliare: ce n’è qualche indizio, vedi alla voce Eugenia Roccella. E infine la riforma della Costituzione, nel senso di una possibile torsione populista sottoforma di presidenzialismo, un fascicolo che per la verità è stato aperto senza grandi entusiasmi di pubblico e di critica. Nell’insieme, dunque, si può agevolmente cogliere il senso generale di un assalto non solo al potere ma alla modernità e alla conquista della cultura contemporanea nonché ai valori più aperti della società italiana. Giorgia Meloni per far questo ha sgranato le marce e procede a velocità folle. Il che a una leader giovane e ambiziosa può attagliarsi. Sta venendo avanti dunque un progetto che va preso sul serio, per quanto scomposte risultino certe mosse, come quella, eclatante, contro Fabio Fazio. Corre forte, Giorgia. Forse troppo. Perché l’esagerazione può esporla a rischi incalcolabili di rottura con una parte fondamentale del Paese.
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