Un paradosso: i Pubblici Ministeri e anche buona parte della stampa evitino atteggiamenti e pronunce che ledano la credibilità e il prestigio del potere giudiziario. E soprattutto, la politica non agiti sgangherate ipotesi di commissioni d’inchiesta punitive che aumentano la confusione sul senso della legge. Cerchino la chiarezza in questo caotico mondo giuridico, che pesa sempre di più sulla conduzione umana di ognuno di noi. Meglio tardi che mai. All’indomani dell’ultima clamorosa assoluzione di Silvio Berlusconi dall’accusa di aver corrotto le testimoni delle sue cene eleganti, Carlo Bonini scrive su Repubblica che: «intossicato dal codice penale, quale unica bussola dell’agire umano, e da una Politica “irresponsabile”, il Paese non è più in grado di pretendere e ottenere le dimissioni di un parlamentare o di un amministratore pubblico in nome di qualcosa di diverso che non sia un avviso di garanzia o una sentenza di condanna». Si tratta di un’ammissione importante che proviene da uno dei più convinti sostenitori in passato della funzione salvifica delle procure. In generale, per circa un trentennio una robusta componente della stampa e dell’opinione pubblica ha delegato ai procuratori una funzione di supervisione non solo puramente legalitaria, come sarebbe giusto, ma anche prettamente etica e di guida morale. Un ruolo che parificava i pm a quello dei colonnelli turchi custodi dell’eredità laica di Ataturk o degli ufficiali dell’esercito portoghese eroi della gloriosa Rivoluzione dei garofani. Il fallimento rovinoso delle varie inchieste sui vizi privati di un leader politico potrebbe rivelarsi positivo se restituirà la magistratura al suo ruolo costituzionale di élite tecnica dedita all’erogazione di un pubblico servizio. Ciò non deve far dimenticare errori ed eccessi commessi, soprattutto al fine di evitarne di futuri. Ma, lasciamo perdere, per amor di verità, le sgangherate ipotesi di commissioni d’inchiesta punitive. Le accuse etiche contro Berlusconi si sono arenate essenzialmente per le decisioni assunte da vari giudici di merito che hanno respinto come infondato il castello di accuse dei pm. E ciò dovrebbe bastare a fermare gli sguaiati vendicatori di un’inesistente persecuzione. Sarebbe opportuno chiedersi come mai nell’ultima indagine, la procura milanese si sia avventurata a sostenere un’ipotesi di accusa destituita in radice di ogni fondamento e destinata a un inevitabile fallimento. Ciò che deplorevolmente cronisti pur bravi come Nello Trocchia hanno descritto come «un cavillo» riguarda una delle espressioni più profonde del diritto di difesa: il silenzio per non accusarsi. Questa prerogativa è riconosciuta in tutti gli stati di diritto ed è lo scudo contro le pratiche che in passato legittimavano la tortura per spingere l’accusato a confessare. Le cosiddette «olgettine» (termine dispregiativo che contiene in sé una condanna etica) sono state “costrette” a rispondere sotto il vincolo di giuramento e col rischio poi avveratosi di un’incriminazione quando erano già nella condizione di indagate per il reato di falsa testimonianza a favore di Berlusconi in un altro processo sulle cene eleganti. Dunque sono state poste di fronte al dilemma tra dire “la verità” (o ciò che era ritenuta tale dagli inquirenti) su ciò che era accaduto nelle leggendarie notti di Arcore, e dunque confessare di aver mentito nell’aver taciuto i rituali dei festini, oppure continuare a negare ed essere comunque incriminate come poi è avvenuto per un diverso reato: la corruzione. Fortunatamente le amiche di Berlusconi sono protette da una regola di civiltà. Che vale per tutti i liberi cittadini di uno Stato di diritto. Dice una solenne sciocchezza chi, come Marco Travaglio, parla a vanvera di obbligo a dire il vero in altri paesi pure per gli accusati. Nel diritto anglosassone l’obbligo scatta solo se l’imputato accetta o chiede di essere interrogato, senza che alcuno lo possa costringere. Piuttosto che evocare come giustificazione dell’assoluzione di una Giustizia per definizione cieca «motivi prettamente giuridici» (neanche fossero appunto “cavilli”), il presidente del tribunale di Milano, Fabio Roja, potrebbe spiegare come mai si è arrivati a un processo lungo, dispendioso e defatigante quando, assai banalmente, avrebbe dovuto fermarsi in sede di indagini preliminari. Sarebbe opportuno che Roja accertasse come mai il giudice dell’udienza preliminare di Milano sia incorso, insieme con la procura, in un banale infortunio ed errore di diritto violando l’articolo 384 del codice penale. Parliamo di un principio protetto dalla Costituzione. Di recente la stessa Consulta ha ribadito necessario difendere il diritto a non accusarsi tacendo non solo nei processi penali, ma anche in quelli amministrativi, come le indagini della Consob. La magistratura deve fare un’autoanalisi ed evitare atteggiamenti e pronunce che ledano la sua credibilità e il suo prestigio. Ma deve essere altrettanto chiaro che non si può dare via libera a progetti punitivi e di sottomissione contro di essa. Carlo Bonini definisce l’attuale Guardasigilli Carlo Nordio «un maggiordomo» di Giorgia Meloni, neanche fosse la controfigura del malinconico e crepuscolare domestico James Stevens, immortalato da Anthony Hopkins in “Quel che resta del giorno”. D’altra parte, tale esigenza non può coprire pericolosi regolamenti di conti o progetti di rivalsa della politica contro la libertà dei magistrati. Nello stesso giorno in cui il Tribunale di Milano emetteva la sua sentenza, alla Camera venivano presentati in pompa magna i progetti di riforma dell’ordinamento giudiziario. Erano presenti esponenti di diverse forze politiche favorevoli al cambiamento, ma mancava proprio il partito di maggioranza relativo in cui milita il Guardasigilli che, almeno a parole, è favorevole alla riforma. Un’assenza che pone interrogativi su quali siano i reali disegni del Governo Meloni soprattutto in funzione della sbandierata voglia di rivincita e delle polemiche sul caso Cospito che vede il vice di Nordio, Andrea Delmastro Delle Vedove, sotto indagine. Si suole dire che la Giustizia è cieca. Rendendo lecito chiedersi “cosa vede un cieco?” Concludendo, è bene ragionare sulla “confusione del senso della legge” che domina il dibattito politico italiano, lo fa Massimo Recalcati, che sempre su Repubblica scrive: «Contrabbandare come una piena assoluzione una sentenza che s’impernia su di un vizio di procedura, è un esempio di piena contraffazione della verità. Il non rispetto delle regole, come hanno ritenuto i giudici, non può rimuovere il senso della Legge e la verità che esso comporta. Pagare dei testimoni per dire il falso può anche essere un comportamento assolto per un vizio di procedura – i testimoni sarebbero stati degli indagati e dunque avrebbero avuto diritto ad una difesa che non è stata loro concessa -, ma resta un chiaro comportamento “fuorilegge”. Il fatto che questa evidenza venga occultata è un segnale che riguarda la degradazione perversa del senso della Legge che caratterizza non tanto il caso Berlusconi, ma una tendenza di fondo del nostro tempo. Quale è, infatti, la differenza tra le regole e la Legge? Le prime sono impedimenti esterni di tipo formale che siamo tenuti a rispettare nel nome di una convivenza civile. La seconda, come direbbe la Torah nel suo principale insegnamento: “è scritta nella carne del cuore”. Essa riguarda il senso dell’impossibile: non si può avere tutto, essere tutto, godere di tutto, sapere tutto. La finalità più profonda della Legge dovrebbe essere quella di custodire il senso dell’impossibile come fondamento della possibilità della vita collettiva e individuale. Diversamente nel nostro tempo la moltiplicazione delle regole si fonda sull’evaporazione del senso della Legge come custode del senso dell’impossibile. Non è Berlusconi il problema, ma una tendenza assai più generale che corrompe il nostro tempo». A riguardo è bene che le forze autenticamente riformiste e garantiste siano vigili…
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