Politica: è possibile un (nuovo) socialismo per il ventunesimo secolo? Qual è l’idea di progresso ai nostri giorni ed esiste una sinistra globale? Il fiato corto della discussione congressuale del Pd dà l’impressione che proprio non ci siamo. Un problema in più la corruzione…

Parte prima

“Abbandonato l’obiettivo di un superamento del capitalismo, l’area riformista ha sposato un approccio che l’ha resa capace di assumersi anche responsabilità di governo. In questi anni si è parlato moltissimo di sovranismo, forma contemporanea del populismo. E dei tanti interrogativi che questa offerta politica porta con sé. Assai meno si è discusso delle trasformazioni intervenute nella sinistra. Quasi dando per scontato che problemi e contraddizioni abbiano a che fare esclusivamente con la destra. Uno strabismo che non ha fatto ne fa bene al dibattito politico”. Così scriveva Mauro Magatti sul Corriere dell’11 novembre 2022. Per «progressismo» si può intendere la forma più radicale di quella cultura sociopolitica diventata prevalente nella sinistra internazionale a partire dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine del socialismo reale. Nel corso degli anni, e soprattutto a seguito della presidenza Clinton, tale cultura ha preso piede non solo nelle élites dei partiti di sinistra, ma anche nei ceti intellettuali ed economici occidentali che hanno beneficiato maggiormente dei processi legati alla globalizzazione. Abbandonata così l’idea di un superamento del capitalismo, il progressismo ha sposato un approccio ‘riformista’ che lo ha reso sicuramente capace di assumersi importanti responsabilità di governo. Questa metamorfosi ha però avuto i suoi risvolti problematici. Come si è visto e si vede nella crescente difficoltà a tenere i contatti con i ceti popolari, che, in Italia ma non solo, ormai guardano sempre più a destra. È la centralità del cambiamento — visto come chiave per risolvere i problemi sociali e contrastare le spinte conservatrici — a caratterizzare il progressismo. Cambiamento promosso da due driver tra loro in relazione: la ricerca e l’innovazione in campo economico e i diritti individuali in campo sociale. L’orizzonte è quello della costruzione di una società aperta: tanto nei suoi confini (con una predilezione verso una visione cosmopolita) quanto nei suoi riferimenti culturali (con l’insistenza sui valori della tolleranza e del pluralismo) e nei modi di vivere (con la sottolineatura della autodeterminazione morale del singolo individuo). All’idea di un cambiamento di sistema — tipica della sinistra del Novecento — il progressismo sostituisce l’idea di una continua trasformazione interna nella direzione di una maggiore libertà per tutti (a partire dalle donne). Dove la stessa uguaglianza — che Bobbio indicava come tratto distintivo della sinistra — viene ripensata in termini di accesso alle opportunità. Il problema che ne discende: è che il progressismo tende a rigettare l’idea stessa di limite, visto solo come riduttore di possibilità. Lungo questa linea, esso si espone a posizioni radicali: un conto è la spinta inesauribile a superare gli equilibri esistenti; o la tensione verso un continuo miglioramento. Un altro conto è promuovere attivamente un mondo in cui non c’è più forma istituzionale, legame sodale e misura economica equa tra ceti sociali. E che quindi non possono che aumentare la frammentazione, la disgregazione, l’entropia. Come tutti i rimossi, il limite peraltro ritorna nella sua cattiva interpretazione. In fondo, il sovranismo — quando invoca la chiusura dei confini, quando stigmatizza lo straniero, quando ammette solo la famiglia tradizionale — altro non è che la reazione speculare al progressismo. Da questo snodo derivano alcune delle principali difficoltà in cui la sinistra si trova impelagata. In primo luogo, un’idea di libertà individuale che fatica a combinarsi con la solidarietà. Il problema nasce nel momento in cui ci si dimentica che libertà e legame sono polarità in tensione che vanno sempre ridisegnate, ma che non possono essere disgiunte. La libertà esige di combattere tutte le forme di ingiustizia e oppressione. Ma non consiste nell’aspirazione a sciogliersi da tutti i legami. Il problema della libertà non è «non avere limiti», ma decidere quali relazioni (liberanti o oppressive) accettare, rifiutare o mettere al mondo. La responsabilità (e quindi il legame con l’altro e con il senso) non riduce la libertà, ma è la condizione per prendere forma. Che, come tale, non può che essere disegnata da limiti (per quanto porosi e transitabili). In secondo luogo, la centratura sul cambiamento porta il progressismo — nato nella fase ascendente della globalizzazione — ad avere un’idea unilateralmente positiva del processo di innovazione, specificatamente di quella tecnologica. Va da sé che la tecnica, oltre a essere essenziale per una società avanzata, è una preziosa alleata per migliorare la condizioni di vita. Ma ciò non significa dimenticare che la tecnologia è un «farmaco» che mentre guarisce, intossica; mentre abilita, disabilita; mentre affascina, spaventa. Ambivalenza particolarmente evidente oggi quando la tecnologia, insieme ai suoi prodigiosi successi, pone gravi questioni in termini sociali (la disoccupazione) e ambientali (l’inquinamento). Non a caso, sono i gruppi culturalmente ed economicamente più arretrati che, sentendosi esclusi o minacciati, finiscono per cadere nelle braccia dei conservatori. Infine, mentre propugna il ritorno a un rapporto più equilibrato con la natura — con l’attenzione al «bio», al «km 0», al «green» — in nome del superamento della visione antropocentrica che ha caratterizzato gli ultimi secoli, al tempo stesso il progressismo è assai meno restrittivo quando si parla di intervento tecnico sulla vita umana. L’autodeterminazione individuale diventa qui il principio di riferimento assoluto, col solo vincolo della possibilità tecnica. Eppure, è proprio il limite — da intendersi non come chiusura ma come soglia che mette in relazione, che fa riflettere e che apre al suo fruttuoso superamento piuttosto che a una cancellazione — a costituire il cuore della questione della sostenibilità: in fondo, diventare sostenibili significa prendere atto che ogni sovranità (politica, economica, organizzativa, individuale) non può che essere «limitata» dalla relazione di interdipendenza con ciò che la circonda. È a partire da qui che la riflessione sulla sinistra dovrebbe, ricominciare. Ritornare alle origini del socialismo, pur nell’irripetibile contesto storico nel quale si è sviluppato, può indicare però la direzione per uscire dalla palude di una sinistra priva di significato. I valori espressi dal socialismo di ieri, ridisegnati sulla intramontabile bandiera della rivoluzione americana e di quella francese – libertà, fraternità, uguaglianza – restano ancora il faro orientativo del socialismo oggi, naturalmente nei significati nuovi che le trasformazioni del mondo hanno imposto in un percorso lungo due secoli di storia. È però proprio sulla consapevolezza di queste trasformazioni che va fissata la nuova identità socialista. Alla fine dell’Ottocento il movimento e poi il partito socialista si erano confrontati con la nascita della società di massa originata dalla rivoluzione industriale. Ai bisogni e alle aspettative del proletariato avevano cercato di dare risposte, facendo un’opera di proselitismo e di educazione che puntava all’inclusione di ogni strato della popolazione: gli alfabeti e gli analfabeti, gli operai, i contadini, i ceti medi e piccoli, non tutti allo stesso livello di sviluppo e di consapevolezza di sé. Riunirli nei grandi contenitori collettivi dei partiti e dei sindacati era stata una risposta armonica alla stessa struttura dell’economia nel pieno dell’industrializzazione di cui motori erano le fabbriche con migliaia di manovali e di tecnici. Oggi questa società organizzata per grandi comparti collettivi è scomparsa. La società nata dalla rivoluzione tecnologica appare assai più frammentata del passato e più difficile da organizzare e da governare. Si tratta, di un ostacolo che appare tanto più insuperabile se non ci si libera dai parametri di lettura novecenteschi con i quali si cerca invano di interpretare la realtà del presente. Vale naturalmente per i più anziani, allevati nella cultura del Novecento, ma vale anche per i dirigenti politici più giovani che mostrano uno spirito di conservazione incompatibile con il socialismo da sempre innovatore e proiettato nel futuro. Troppo a lungo il Pds, i Ds e lo stesso Pd hanno vissuto sulla rendita organizzativa del vecchio Pci e del “buon governo” nelle regioni rosse (sempre più ristrette territorialmente), guidate da amministratori locali cresciuti sull’eredità dei padri comunisti e socialisti. Adesso l’identità va trovata invece su quanto di nuovo si muove nonostante tutto nel paese, il più lontano possibile, però, dai palazzi romani dove spontaneamente inizia a riunirsi e a organizzarsi fuori dai recinti partitici la società del duemila, a cominciare dai settori più sensibili… Questo lungo post, scritto, nel tentativo di dare anche un ausilio teorico oltre che pratico al dibattito politico nell’ambito del Congresso “costituente” in corso nel Pd, formula, una critica sostanziale ai guasti del capitalismo finanziario neoliberista dell’ultimo ventennio… ed è stato costruito, consultando numerosi saggi economici e altrettanti numerosi articoli economici apparsi negli ultimi due/tre anni su Blog di Associazioni, Sindacati, Riviste di critica sociale varie, e in particolare su “Eguaglianza & Libertà” e sulla rivista “Left – un pensiero nuovo a sinistra”, che rappresentano sicuramente un plus nel panorama ampio di un dibattito culturale sui problemi politici economici e sociali e di conseguenza anche elettorali della Sinistra e per meglio dire della cultura del Socialismo a livello internazionale… Quindi il “socialismo” è tornato?! Per decenni questa parola è stata considerata imbarazzante, un deprecabile fallimento e una reliquia di un’era passata. Oggi, sembrerebbe a non esserlo più! Politici come Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez indossano l’etichetta di ‘Socialisti’ con fierezza e guadagnano supporto, mentre organizzazioni come i “Democratic socialists of America” accolgono frotte di nuovi membri. Ma che cosa intendono esattamente per “socialismo”? Seppur benvenuto, l’entusiasmo per la parola non si traduce automaticamente in serie riflessioni sul suo significato. Che cosa significa o dovrebbe significare “socialismo” ai giorni nostri? Il progetto di ripensare un socialismo per il ventunesimo secolo è di per sé un lavoro piuttosto impegnativo, fin troppo perché una sola persona o persino un singolo gruppo di persone si impegni nella sua teorizzazione. Se il lavoro verrà completato (ed è un grande “se”), sarà attraverso gli sforzi combinati di attivisti e teorici, mentre intuizioni acquisite attraverso la lotta sociale si uniscono e si potenziano con il pensiero programmatico e con l’organizzazione politica… Ciò nonostante, consideriamo tre serie di brevi riflessioni che sembrano in linea con quello fin qui detto. Queste hanno a che fare con i confini istituzionali, il surplus sociale e il ruolo dei mercati. I problemi dei confini sono importanti almeno quanto quelli che riguardano l’organizzazione interna delle “sfere” che prendiamo per date (come «l’economico» e «il politico»). Invece di focalizzarsi esclusivamente o unilateralmente sull’organizzazione dell’economia, i socialisti avrebbero bisogno di riflettere sulla relazione dell’economia con il suo retroterra di possibilità: con la riproduzione sociale, con il naturale non umano, con le forme non capitalizzate di benessere e potere pubblico. Se il socialismo deve superare tutte le forme istituzionalizzate di irrazionalità, ingiustizia e non libertà capitaliste, deve re-immaginare i rapporti tra produzione e riproduzione, società e natura, e sociale e politico… Il discorso da teorico si fa pratico e, ha bisogno, di riferimenti intellettuali che sono a riguardo strutturati. [1] Nancy Fraser è una critica teorica, una femminista e docente di filosofia alla The New School di New York City. Il suo ultimo libro è “Femminismo per il 99%”, sul ruolo del femminismo in una possibile rivoluzione del sistema capitalista. Il 1° ottobre u.s. Nancy Fraser è stata ospite del Museo Macro di Roma in occasione di una rassegna di eventi a cura di Castelvecchi Editore e Filosofia in movimento. La sua lectio magistralis è intitolata “Cosa dovrebbe significare il socialismo nel XXI secolo”. Ed eccoci subito arrivati al problema delle disuguaglianze e qui il futuro del capitalismo chiederebbe altresì una rilettura di [2] di Thomas Piketty (“Il capitale nel XXI secolo” e “Capitale e ideologia”) e anche di [3] Joseph E. Stiglitz (“La globalizzazione che funziona” e “Il prezzo della disuguaglianza”).

(continua)

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