Attorno alle nostre questioni economiche c’è sempre: “Molto rumore per nulla”. Occorre analizzare almeno gli ultimi 25 anni della nostra storia tra riforme abortite e ristagno economico per capire come siamo finiti in questa grave situazione… L’ultimo decennio è stato il peggiore per l’economia italiana dal 1948. Il nostro Paese non si è ripreso del tutto dalla grande crisi finanziaria del 2007/2008 e il prodotto interno lordo è ancora sotto i livelli di dodici anni fa. Ognuno ha il suo personale e fantasioso capro espiatorio: il destino, la globalizzazione, le banche, il gruppo Bilderberg, l’euro. Ma i problemi dell’Italia partono da molto lontano. E forse non hanno una sola causa. Sono almeno venticinque anni che la nostra economia va più lentamente degli altri Paesi del mondo. Nel 2019 la crescita è a zero, il deficit annuale e il debito pubblico aumentano, i cittadini consumano poco, le banche prestano sempre di meno e le imprese diminuiscono gli investimenti. In una parola: stagnazione. Perché l’Italia è finita in questo vicolo cieco? E potrà uscirne prima o poi? Dal mercato del lavoro al sistema educativo, dal funzionamento della giustizia agli investimenti infrastrutturali sono tanti i dilemmi, i limiti e i tentativi della classe politica di riformare l’Italia, quasi sempre estemporanei e discontinui: «I problemi dell’Italia vengono da lontano. Non è facile trovare una soluzione immediata. Mentre nel dibattito politico si cerca la ricetta facile o il capro espiatorio contro cui scagliarsi. Per ripartire bisogna pensare alla vastità e soprattutto complessità di questi problemi perché dieci anni di stasi economica iniziano a essere tanti». ccorre far ripartire l’Italia. Ma come? L’Europa, una crescita economica inclusiva e un risanamento fiscale sono le tre stelle polari che dovrebbero guidare la politica economica, a prescindere dagli orientamenti culturali e politici di chi governa e di chi è all’opposizione. Nessuna proposta di un’agenda di governo (ci mancherebbe altro) ma un contributo al dibattito su un possibile rilancio economico del nostro Bel Paese. Da dove si comincia? Direi… dal capitale umano. Deve tornare a essere una priorità nazionale. Il livello di conoscenza e di competenza della popolazione italiana è alquanto basso. Da noi, circa un quarto (25%) della popolazione adulta ha una laurea, contro la media del 40% dei Paesi avanzati comparabili al nostro per livello di sviluppo. Il problema non è solo la quantità ma la qualità della formazione. Un Paese avanzato deve essere anche all’avanguardia dello sviluppo tecnologico. Non si può essere ricchi a lungo se non si è tra i più avanzati nell’innovazione. Inoltre, bisogna tenere una posizione di buon senso, ma che forse può sembrare provocatoria in questi tempi sovranisti, dicendo chiaramente, più chiaramente di come i nostri politici fanno che: l’unica collocazione possibile dell’Italia è in Europa. Più che una considerazione politica è geografica. L’Italia è un Paese relativamente piccolo all’interno dell’Europa. Non avrebbe la possibilità d’immaginare una eventuale uscita felice dall’Unione europea. Perché a differenza del Regno Unito che sta attuando con molta molta difficoltà e più di qualche ripensamento la sua Brexit, non abbiamo un passato consolidato di relazioni commerciali extraeuropee. Per storia, cultura, economia e finanza la nostra Penisola è interconnessa con il Vecchio Continente. Sarebbe difficile rilanciarsi da soli partendo da zero. Così com’è stato difficile in questi anni governare l’emergenza immigrazione. L’Italia finora non ha governato il fenomeno migratorio. L’ha subito. Sono arrivate migliaia di persone che non potranno essere rimpatriate tutte. Sarebbe non solo inumano ma impossibile. E in questi anni ci sono state tante regolarizzazioni. I governi di qualsiasi colore hanno investito poco o nulla nell’integrazione perché non sono state in grado di guardare al lungo termine. Per esempio, alle seconde generazioni che ormai sono il 10% degli studenti italiani. La politica che guarda all’oggi e si perde nella retorica buonista o cattivista non è sostenibile. Stiamo creando delle bombe che esploderanno nel futuro. Servirebbe una gestione ragionata che ci faccia trarre il meglio dalle migrazioni che hanno il merito di risolvere in parte il nostro problema di calo delle nascite. Nel 2019 si è parlato molto di imposte: flat tax, plastic tax, web tax, sugar tax, evitare l’aumento dell’Iva. Le coperture da qualche parte bisogna comunque trovarle per diminuire il debito pubblico ma allo stesso tempo non si può deprimere la crescita. Cosa si dovrebbe fare? Ogni gruppo sociale o partito politico ha i suoi totem ma dobbiamo sempre ricordare che la progressività fiscale è un principio costituzionale quindi almeno in questo la politica è vincolata. Per favorire la crescita bisognerebbe tassare di più i consumi e il patrimonio e di meno i redditi da lavoro e da impresa. Così si stimolerebbe l’iniziativa imprenditoriale e l’offerta di lavoro. Dal 2008 a oggi sette governi hanno attuato ricette economiche molto diverse con lo stesso risultato finale: il debito pubblico cresce inesorabilmente, sempre più su. a fine 2019, prima della pandemia, aveva raggiunto i 2.409,9 miliardi (134,7% del PIL) rispetto ai 1.632 (102% del Pil) del 2008. Un periodo durante il quale tutti i partiti e i sindacati hanno aizzato il popolo contro una presunta austerità imposta dalla “matrigna” Europa, lamentandosi dei vincoli del Patto di Stabilità, definiti “stupidi” anche da un autorevole esponente della sinistra (Romano Prodi). Ciononostante, alla faccia dell’austerità, in soli 11 anni, dal 2008, i nostri politici di centro-destra, centro-sinistra e coalizioni gialloverdi e giallorosse sono riusciti ad accumulare ben 777 miliardi di nuovo debito, con un incremento sul 2008 del 47%. Ma a quale cifra sarebbero potuti arrivare se non ci fossero stati i pur flebili paletti europei? Mille miliardi? E pensare che l’8 settembre 2011 il Consiglio dei ministri varò, su proposta del Ministro Tremonti, il disegno di legge costituzionale che prevedeva di introdurre il principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale, cosa che avvenne con la legge costituzionale n. 1/2012 che, all’articolo 81, recita: “Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”. Invece, tutti gli esecutivi che si sono succeduti dal 2012 a oggi hanno sempre trovato una valida quanto pericolosa ragione per spostare la fatidica data del pareggio di bilancio che, ancor oggi, non è neppure all’orizzonte del 2026. Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte 1 e Conte 2 fino ad arrivare all’attuale esecutivo hanno continuato e continuano tuttora a rinviare tale data per – dicono – aiutare le famiglie. Le politiche impostate nel 2018/19 dal governo Conte 1 (reddito di cittadinanza e Quota 100 in primis) sono incappate nel SARS-Cov-2 e, a fine del 2020, il debito ha raggiunto i 2.573,5 miliardi (il 157% del PIL), vale a dire +163,6 miliardi in un solo anno: un record assoluto per l’esecutivo di Giuseppe Conte che, considerando il debito accumulato, la perdita di PIL (8,9%), il rapporto deficit/PIL al 9,6% e il numero di morti per COVID, nelle classifiche internazionali sulla capacità di affrontare la crisi pandemica, portava l’Italia a essere, nel 2020, il terzo peggior Paese al mondo. A fine 2021, pur a fronte di una crescita del PIL del 7,2% e un aumento dell’occupazione di +550mila unità (nuovo metodo di calcolo Istat), il debito raggiunge i 2.678,4 miliardi di euro, con un incremento di altri 104,9 miliardi in 12 mesi, pari – secondo le stime della Banca d’Italia e dell’Istat – al 150,8% del PIL 2021, il 5% in meno rispetto al 2020 ma con un deficit pari al 6,6%. A fine dicembre 2022 (si ricorda che il governo Draghi è rimasto in carica dal 13 febbraio 2021 al 22 ottobre 2022), il debito pubblico ammonta a 2.762 miliardi di euro, cioè +83,6 miliardi, mentre il PIL ai prezzi di mercato è pari a 1.909,15 miliardi, con un aumento del 6,8% rispetto all’anno precedente e un rapporto debito/PIL pari al 144,67%. La NADEF 2022 prevedeva originariamente per il 2023 un indebitamento del 3,9%, aumentato nella revisione al 4,5%; ancora, si fissava il 3,7% per il 2024 e l’1,3% (che è oggettivamente impossibile da raggiungere) nel 2025, con un nuovo debito per circa 90 miliardi nel 2023, 77 miliardi nel 2024, e 70 nel 2025. Cosa hanno sbagliato? Per ridurre il debito pubblico bisogna mettere ordine nei conti fiscali da una parte, ma al tempo stesso facilitare la crescita dell’economia. Non si può pensare di fare solo una delle due cose. Le politiche fiscali non possono dimenticare l’equilibrio dei conti. Magari alcuni provvedimenti economici erano giusti in teoria, ma spesso sono state attuate a strappi, in modo incoerente. Mentre servirebbe prudenza e soprattutto continuità. Non si può pensare di dare una grande spinta all’economia della domanda riducendo tutte le imposte, né incrementando la spesa. Non c’è spazio fiscale disponibile, bisogna essere realisti. Il quesito dei quesiti è: Realismo vuol dire patrimoniale? In generale l’imposta patrimoniale non dovrebbe essere un tabù. Ha pregi e difetti. Ma un conto è avere alcune forme di imposta sul patrimonio in una situazione normale, un altro è pensare che una tassa patrimoniale straordinaria possa risolvere da sola i problemi del debito pubblico italiano. Non è fattibile, sarebbe un quasi default mascherato. Serve un discorso più graduale che rispetti il principio di progressività fiscale: ovvero il risanamento dei conti per un certo periodo di anni dovrebbe essere prevalentemente a carico dei più abbienti. Un altro punto centrale del discorso è aggiornare la Pubblica amministrazione. Brunetta, Madia e Bongiorno ci hanno provato ma forse c’è ancora molto da fare. Come bisogna fare? Riorganizzare la macchina burocratica e i suoi settori in base alle politiche pubbliche di lungo periodo che si vogliono raggiungere. In passato ci si è fissati sul riformare grandi regole generali sul pubblico impiego e i processi amministrativi. Bisogna dare più peso alle agenzie pubbliche che hanno maggiore autonomia e una missione ben precisa. Così si possono responsabilizzare meglio i vertici. Le agenzie fiscali si sono riformate di più e per questo sono efficienti e all’avanguardia nell’utilizzo della tecnologia. Il problema è che la politica abusa dell’espressione “riforme strutturali”. Come se esistesse un’agenda predefinita che si può prendere da qualche vademecum internazionale di regole immediatamente implementabili con effetti positivi sull’economia. Non è così. Ma c’è qualcosa che è andato bene in questo decennio di riforme. Certo, la riforma del sistema universitario ha responsabilizzato di più gli atenei. Il problema però è che sono mancati i finanziamenti. Se gli investimenti fossero stati gli stessi di dieci anni fa ci sarebbe stato un maggiore impatto positivo. Anche la riforma Fornero delle pensioni ha avuto effetti positivi sul tasso di attività e sugli equilibri del sistema previdenziale. Purtroppo, c’è stata una rigidità nel non prevedere flessibilità nei meccanismi di uscita dal mercato del lavoro. Tradotto: gli esodati. Un altro problema di questo decennio è stata la concorrenza. Monopoli secolari in alcuni settori, eccessiva competenza globale in altri. In questi anni le imprese italiane sono state schiacciate da problemi di competitività con i nuovi e tradizionali concorrenti stranieri, ma hanno subito anche gli effetti di un deficit di innovazione, dovuto all’eccessiva frammentazione del sistema produttivo. La quasi totalità delle aziende italiane sono piccole e medie imprese, ma questo non è sinonimo di concorrenza, anzi. Esistono molte clausole a favore delle pmi che rendono alcuni settori dell’economia meno intraprendenti per le imprese che non vogliono solo difendersi ma desiderano crescere e innovarsi. Si può partire da lì per rendere il mercato più dinamico. Si potrebbe reintrodurre un incentivo per le imprese: l’Ace (aiuto alla crescita economica) che il Governo Conte aveva inserito nella Legge di Bilancio. È un sistema che spinge le imprese a indebitarsi meno e ad aumentare invece la loro capitalizzazione. Di solito per un’impresa gli interessi sul debito stesso possono essere detratti dal reddito imponibile. Mentre l’aumento del capitale non viene quasi mai premiato con detrazioni fiscali. Questo provoca una struttura di incentivi perversi per cui l’impresa punta più a indebitarsi anziché rafforzare il proprio capitale. L’Ace blocca invece questo incentivo perverso. Inoltre, Un ultimo consiglio. Serve una riforma seria delle politiche attive del lavoro. E bisogna intervenire anche sulla contrattazione: un’area in cui ancora è stato fatto troppo poco perché rimane centrata sul contratto nazionale più aggirato che applicato. Ecco perché occorre ragionare anche sul salario minimo… Molti contratti, non funzionano non sono efficaci perché non hanno valenza di legge. Quindi non danno garanzie al lavoratore più debole perché non c’è certezza che saranno applicati… Purtroppo non sembra che la politica, sappia veramente che fare e, la nostra economia va verso il disastro…
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