La minoranza, che è già ridotta a comparsa parlamentare da una iniqua legge elettorale di impianto maggioritario (il Rosatellum, di renziana memoria), sarà ammessa a trattare su una bicamerale o una costituente, a condizione che almeno un parlamentare del Pd e del Movimento 5 stelle sostenga il progetto. Altrimenti, ha dichiarato il/la Presidente del Consiglio, verrà avanzata una proposta di maggioranza per l’elezione diretta del Presidente della Repubblica o del Premier, così da imporre “un sistema stabile e rispettoso della volontà dei cittadini”. Come già avvenuto nel 2006 e nel 2016, la razio democratica chiama necessariamente alla difesa dei valori e dell’assetto istituzionale scritto a chiare lettere nella nostra Carta, opponendosi a rinnovate mire di stravolgimento costituzionale, disastrose sia negli esiti perseguiti, sia nelle conseguenze insite in una palese strategia per evitare di risolvere i problemi del Paese – riforma del patto di stabilità, guerra, Pnrr, dossier migrazione, ritardi sul Recovery, rapporti con l’Europa – che ogni giorno diventano più difficili da affrontare. Decisamente meglio, per Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Tajani gettarsi a capofitto nell’ideologia, ignorando, o fingendo di ignorare, che i presidenzialismi, o i semipresidenzialismi, non solo hanno fallito nel dotare le istituzioni democratiche degli strumenti necessari a governare la complessità, ma si sono dimostrati soggetti a mutarsi in tecno-populismi e a scivolare in una definitiva personalizzazione della politica (Berlusconi docet). Nelle ipotesi di premierato in discussione nelle aule parlamentari traspare una forte propensione alla verticalizzazione del potere, nella rassicurante verità che «così comanderà uno solo». È naturale che la cosa sia venduta in questi termini all’opinione pubblica, sia di maggioranza che di opposizione. Ma si rischia di dimenticare o di sottovalutare il fatto che una società complessa — e quella italiana lo è tanto — non può essere governata da un solo meccanismo decisionale. C’è bisogno, invece, di un apparato di governo e di una classe di governo, cioè di un insieme di personaggi che sappiano capire e gestire le diverse variabili (di contenuto e di procedura) del sistema nella sua complessità. Altrimenti chi accentra il potere si trova nella necessità di farsi un proprio apparato di vertice, con fedeli gerarchi o con fidati oligarchi. Sta a noi scegliere tra politica partecipativa e democrazia decidente. Il processo di riforma è approdato nei giorni scorsi in parlamento per l’inizio della discussione e come si evince da quanto si legge, mira a occupare ogni ganglio dello Stato. La strada per chi in Italia vuol dirsi democratico è una sola: quella di una dura opposizione… La Dichiarazione universale dei diritti umani, il progetto di Unione Europea sono state l’esito di una volontà di rinascita dopo il precipizio costituito da due guerre mondiali, l’invenzione dei campi di sterminio, l’uso della bomba atomica contro i civili. Ci separa da quei giorni un lasso di tempo storico brevissimo, che ci pare immenso: una cesura tra dispotismo criminale e democrazia. Ma ecco che quell’argine non appare più così saldo: nazionalismi, richiami identitari, nuovi muri e nuovi campi, una massa di senza diritti in fuga, ridotti a nuda vita da contenere, respingere, allontanare. E di nuovo la minaccia nucleare, guerre, tentazione di uomini soli al comando. Il cupio dissolvi che disastra gli organismi internazionali e destituisce di autorità i possibili mediatori, dall’Onu al Papa, si declina anche sul piano nazionale. Termini guerreschi, militari, bellici si infiltrano e si radicano nella vita pubblica e politica. Retoriche vuote e marziali – di patria e di onore, di umiliazione e di ordine – tornano da un passato che credevamo lontano, insieme a una volontà di procedere all’occupazione del potere, alla conquista di ogni spazio – dalla Rai alle istituzioni culturali, dall’Antimafia alle società partecipate, fino per l’appunto alla “madre di tutte le riforme”, quella che vuole manomettere la Costituzione – relegando la presidenza della Repubblica a un ruolo puramente rappresentativo, svincolandosi da equilibri e bilanciamenti e umiliando i luoghi della democrazia, a cominciare dal Parlamento. Fra i caratteri costitutivi dell’autoritarismo c’è, come scriveva il grande politologo Juan Linz, l’insofferenza verso ogni limite all’esercizio del potere. Ma manifestazione degenerativa dell’autorità legittima è anche un uso della forza statuale che rischia di declinarsi unicamente in repressione, politiche securitarie, militarizzazione della società, criminalizzazione del dissenso. Il governo in carica ha esordito con un decreto che punisce chi partecipa a un rave con una condanna dai tre ai sei anni: un’enormità lunare, se si pensa che la pena per banda armata va dai tre ai nove anni. Ha dichiarato lo stato d’emergenza nazionale sull’immigrazione. In poco più di un anno, ha introdotto quindici nuovi reati o fattispecie di reato, più di uno al mese, di cui otto già entrati in vigore. Indice: Quali nuovi reati sono stati introdotti nel codice penale? Quali sono le novità nel settore ambientale? Ci sono stati cambiamenti per i reati stradali e nautici? Qual è l’impatto di questi cambiamenti? Quali sono le novità introdotte dal decreto Caivano? Che cosa stabilisce il nuovo reato sull’obbligo di istruzione? Ci sono cambiamenti nella normativa sulle armi? Ci sono stati cambiamenti per i reati legati alla droga? Quali altri delitti sono stati introdotti con l’ultimo ddl sicurezza? Qual è lo stato della proposta di legge sulla maternità surrogata? Quali sono i nuovi reati introdotti dal Governo Meloni Decreto “rave” n. 162/2022 (convertito in legge 199/2022). Decreto Cutro n. 20/2023 (convertito in legge 50/2023). Decreto Giustizia n. 105/2023 (convertito in legge 137/2023). Legge 138/2023. Decreto Caivano n. 123/2023 (convertito in legge 159/2023). Proposta di legge su gestazione per altri Approvata dalla Camera il 26 luglio 2023, all’esame del Senato. Ddl Sicurezza approvato dal Consiglio dei ministri del 16 novembre. L’ultimo Ddl sicurezza introduce “una fattispecie aggravata per colui che imbratta o deturpa” beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche “qualora il fatto sia commesso con la finalità di ledere l’onore, il prestigio o il decoro dell’istituzione cui il bene appartiene, con inasprimento della reclusione in caso di recidiva”. Si “aggrava la pena prevista per il delitto d’istigazione a disobbedire alle leggi, se è commesso al fine di far realizzare una rivolta all’interno di un istituto penitenziario”. Si introduce “il delitto di rivolta in istituto penitenziario”. Si prevede anche un reato che punisce, con la pena della reclusione da uno a sei anni, “lo straniero che, durante il trattenimento presso i centri per i rimpatri o la permanenza nelle strutture per richiedenti asilo o altre strutture di accoglienza o di contrasto all’immigrazione illegale, mediante atti di violenza o minaccia, o mediante atti di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti dalle autorità, posti in essere da tre o più persone riunite, promuove, organizza, dirige una rivolta”, dimenticando che si tratta di persone rinchiuse senza aver commesso reato, alle quali verrebbe dunque preclusa anche la resistenza passiva, messa in atto da Gandhi, Andrej Sacharov, Martin Luther King, Vaclav Havel. “Per il solo fatto di partecipare alla rivolta, la pena è della reclusione da uno a quattro anni”. Soglia dopo soglia, vediamo diventare normali espressioni come “guerra globale ai trafficanti”, “reato universale” per il contrasto della gestazione eterologa, “ecoterroristi” per designare giovani ecologisti, tanto che subito, per Ultima Generazione, ne sono discese incriminazioni per associazione a delinquere. Assistiamo all’attacco diretto al diritto di sciopero, con l’uso sistematico della precettazione persino in occasione della proclamazione di uno sciopero generale, fatto senza precedenti nella storia repubblicana. Lo scorso 25 aprile, in una lettera al “Corriere della Sera”, la presidente del Consiglio fece riferimento alle «persecuzioni anti ebraiche» senza mai nominare le gravissime responsabilità del fascismo. Quelle responsabilità che Liliana Segre – deportata all’età di tredici anni, sopravvissuta alla prigionia nel campo di concentramento e sterminio di Auschwitz-Birkenau e alla “marcia della morte”, tra i 25 bambini ebrei, su 776, che in tutta Italia poterono far ritorno alle proprie case – ha chiamato “il filo nero”, descrivendo il percorso che dalle leggi razziali fasciste portò ad Auschwitz. «C’è un filo ideale», mi disse in un’intervista, «un filo nero, un filo dell’abiezione umana che parte pian piano da quelle leggi razziali, che prima sottovoce, poi con firme molto importanti, hanno sancito l’esistenza di una “questione ebraica” in Italia. Quelle leggi hanno fatto sì che un quarto della popolazione italiana di religione ebraica sia finita nei campi. E se ancora oggi, dopo tanti anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, ancora se ne parla, non se ne parla abbastanza. Non è sufficientemente chiara, né sufficientemente insegnata nelle scuole, la colpa del governo italiano fascista di allora, e di tutti quegli italiani che, con indifferenza, hanno voltato la faccia dall’altra parte». Perché è importante parlarne oggi, nel giorno della Liberazione? Perché è sempre stato più facile parlare di Shoah guardando al nazismo, quando invece la persecuzione ebraica nel nostro paese è stata anche, grandemente, un delitto italiano, attivamente perpetrato dalla Repubblica Sociale, lo stato collaborazionista del nazismo fondato da Mussolini dopo l’8 settembre 1943 nella parte d’Italia ancora occupata dai tedeschi. Quando, lo scorso 25 aprile, la presidente del Consiglio ha asserito di voler «prendere le distanze» dal fascismo, non ha citato la Repubblica di Salò, né lo ha fatto in seguito. Così come non ha espresso un giudizio sulla violenza del regime fascista, sulla soppressione dei suoi oppositori, né sui crimini coloniali commessi in Africa, quando il fascismo andò alla conquista di un impero sorretto dalla grottesca invenzione della superiorità della «stirpe italica». Pur nominando la «vergogna delle leggi razziali del 1938», lo scorso 27 gennaio non ha parlato, né lo hanno fatto gli esponenti del suo partito, di come queste nascessero da una teorizzazione e una pratica di superiorità gerarchica sulle vite assunta come diritto “di natura” e principio politico. Allo stesso modo, non è stato oggetto di riflessione e assunzione di responsabilità il fatto che il fascismo sia nato in Italia e che, come un cancro, si sia diffuso – preso a modello dai regimi totalitari che si affermarono in Germania, Spagna, Portogallo, e via via in altri paesi europei – per poi interrarsi nella storia come un fiume carsico, tornando a riemergere in molte parti del mondo, come in Argentina, con il golpe militare del 1976 che causò trentamila desaparecidos. Sappiamo che della Repubblica di Salò fu esponente, con l’incarico di capo di gabinetto del ministero della Cultura popolare, Giorgio Almirante, fondatore del Movimento sociale italiano, partito in cui la presidente del Consiglio militò fin da giovane e la cui fiamma tricolore è stata traghettata nel simbolo di Fratelli d’Italia, strenuamente difesa anche di fronte alle richieste di Liliana Segre di ripensare al significato divisivo di quel simbolo per il nostro paese. Nel libro autobiografico pubblicato nel 2021, la cofondatrice di Fratelli d’Italia non ha esitato a esprimere l’emozione provata nell’assumere, con la presidenza del partito, la «responsabilità di una storia lunga settant’anni» sedendo nell’ufficio che era stato «di Gianfranco Fini, e prima di lui di Pino Rauti e Giorgio Almirante». Come Almirante, Rauti aveva aderito alla Repubblica sociale italiana. Sono questi i conti che chiede il 25 aprile. È di questa responsabilità che parliamo, oggi. Non basta dichiarare «incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo», serve consapevole condanna, se non si vuole ingannare, insieme agli italiani, lo spirito stesso della nostra Costituzione repubblicana e antifascista. Mostrare una generica avversione per i totalitarismi, equiparare le vittime, procedere nella volontà di deformare l’impianto costituzionale e il bilanciamento dei poteri che rappresentano l’eredità della Resistenza mortificando il ruolo del Parlamento, del Presidente della Repubblica e dei partiti, sono tutte facce di un comportamento politico che, soglia dopo soglia, porta al revisionismo storico e all’affermazione di un autoritarismo che sfigura la nostra democrazia. Democrazia che si vorrebbe trasformare in “decidente”, con un ossimoro che insinua il falso mito della governabilità e della stabilità, della mancanza di conflitto e infine, inevitabilmente, della compressione delle libertà di espressione e di manifestazione. Sappiamo che questo è il modo in cui un passo dopo l’altro si lede lo stato di diritto e si arriva all’instaurazione dei regimi. Nell’ottobre del 1952, Piero Calamandrei, nel numero monografico della rivista “Il Ponte”, sentì la necessità di avvertire del pericolo del ritorno non del regime fascista ma di una subcultura non ancora estirpata: «Bisogna fare di tutto perché quella intossicazione vischiosa non ci riafferri: bisogna tenerla d’occhio, imparare a riconoscerla in tutti i suoi travestimenti. In quel ventennio c’è ancora il nostro specchio: un aspetto deformante che dà a chi vi si guarda un aspetto mostruoso di caricatura. Ma i tratti essenziali sono quelli: non dimentichiamoli… Insistere per avere una chiara dichiarazione antifascista da chi ha avuto cento occasioni per farla e non l’ha fatta è utile? Fascismo e antifascismo non sono due sfumature politiche: sono visioni che dividono la concezione del mondo in due (due Weltanschauungen, nel lessico fascista tedesco). L’una contraddice l’altra nell’essenziale, e non c’è spazio per una terza. È una autentica dicotomia: ciò che sta in una parte non può stare nell’altra. Non si può essere in entrambe per convinzione, ma solo per opportunismo. Ma non si può neanche stare in nessuna delle due, se non per ignavia, ignoranza, passività, indifferenza. L’opportunismo è una colpa grave, ma ancor più grave è l’ignavia. Superfluo citare l’antinferno dantesco. Poiché non osiamo neppure pensare che i governanti che non si pronunciano siano degli ignavi, resta l’opportunismo: il fascismo è cosa d’altri tempi; i problemi degli italiani sono diversi; antifascista a modo proprio; fascismo e antifascismo sono fatti miei; il fascismo ha fatto cose brutte ma anche belle; la resistenza, e non solo il fascismo, si è macchiata di crimini. Tante scappatoie, la più ignobile delle quali, di fronte a un conflitto storico che non solo ha generato grandi contrasti ideali ma ha provocato immani sofferenze con milioni di morti, è un gioco di parole: a-fascismo e a-antifascismo. Non c’è modo per costringere gli svincolanti che da ultimo hanno inventato la furba e, al tempo stesso, sciocca domanda retorica: tu che mi chiedi, tu sei anticomunista? Allora, si continui a pungolare, ma non ci si aspetti altro che vuote parole. È già chiaro: quando l’alternativa è netta – o di qua o di là – e non stai con chiarezza da una parte, ciò significa che stai dall’altra, anche se non vuoi o non puoi dirlo. Tutti hanno capito, dunque basta. Liliana Segre, prende la parola in Senato per: una netta bocciatura del Premierato, la Senatrice a vita nel suo intervento porta una dura critica al “dominio assoluto del Capo del Governo” e all’abnorme lesione della rappresentatività del parlamento. Signor Presidente, Care Colleghe, Cari Colleghi, continuo a ritenere che riformare la Costituzione non sia una vera necessità del nostro Paese. E le drastiche bocciature che gli elettori espressero nei referendum costituzionali del 2006 e del 2016 lasciano supporre che il mio convincimento non sia poi così singolare. Continuo anche a ritenere che occorrerebbe impegnarsi per attuare la Costituzione esistente. E innanzitutto per rispettarla. Confesso, ad esempio, che mi stupisce che gli eletti dal popolo – di ogni colore – non reagiscano al sistematico e inveterato abuso della potestà legislativa da parte dei Governi, in casi che non hanno nulla di straordinariamente necessario e urgente. Ed a maggior ragione mi colpisce il fatto che oggi, di fronte alla palese mortificazione del potere legislativo, si proponga invece di riformare la Carta per rafforzare il già debordante potere esecutivo. In ogni caso, se proprio si vuole riformare, occorre farlo con estrema attenzione. Il legislatore che si fa costituente è chiamato a cimentarsi in un’impresa ardua: elevarsi, librarsi al di sopra di tutto ciò che – per usare le parole del Leopardi – “dall’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Sollevarsi dunque idealmente tanto in alto da perdere di vista l’equilibrio politico dell’oggi, le convenienze, le discipline di partito, tutto ciò che sta nella realtà contingente, per tentare di scrutare quell’“Infinito” nel quale devono collocarsi le Costituzioni. Solo da quest’altezza si potrà vedere come meglio garantire una convivenza libera e sicura ai cittadini di domani, anche in scenari ignoti e imprevedibili. Dunque, occorrono, non prove di forza o sperimentazioni temerarie, ma generosità, lungimiranza, grande cultura costituzionale e rispetto scrupoloso del principio di precauzione. Non dubito delle buone intenzioni dell’amica Elisabetta Casellati, alla quale posso solo esprimere gratitudine per la vicinanza che mi ha sempre dimostrato. Poiché però, a mio giudizio, il disegno di riforma costituzionale proposto dal governo presenta vari aspetti allarmanti, non posso e non voglio tacere. Il tentativo di forzare un sistema di democrazia parlamentare introducendo l’elezione diretta del capo del governo, che è tipica dei sistemi presidenziali, comporta, a mio avviso, due rischi opposti. Il primo è quello di produrre una stabilità fittizia, nella quale un presidente del consiglio cementato dall’elezione diretta deve convivere con un parlamento riottoso, in un clima di conflittualità istituzionale senza uscita. Il secondo è il rischio di produrre un’abnorme lesione della rappresentatività del parlamento, ove si pretenda di creare a qualunque costo una maggioranza al servizio del Presidente eletto, attraverso artifici maggioritari tali da stravolgere al di là di ogni ragionevolezza le libere scelte del corpo elettorale. La proposta governativa è tale da non scongiurare il primo rischio (penso a coalizioni eterogenee messe insieme pur di prevalere) e da esporci con altissima probabilità al secondo. Infatti, l’inedito inserimento in Costituzione della prescrizione di una legge elettorale che deve tassativamente garantire, sempre, mediante un premio, una maggioranza dei seggi a sostegno del capo del governo, fa sì che nessuna legge ordinaria potrà mai prevedere una soglia minima al di sotto della quale il premio non venga assegnato. Paradossalmente, con una simile previsione la legge Acerbo del 1923 sarebbe risultata incostituzionale perché troppo democratica, visto che l’attribuzione del premio non scattava qualora nessuno avesse raggiunto la soglia del 25%. Trattando questa materia è inevitabile ricordare l’Avvocato Felice Besostri, scomparso all’inizio di quest’anno, che fece della difesa del diritto degli elettori di poter votare secondo Costituzione la battaglia della vita. Per ben due volte la Corte costituzionale gli ha dato ragione, cassando prima il Porcellum e poi l’Italicum perché lesivi del principio dell’uguaglianza del voto, scolpito nell’art. 48 della Costituzione. E dunque, mi chiedo, come è possibile perseverare nell’errore, creando per la terza volta una legge elettorale destinata a produrre quella stessa “illimitata compressione parlamentare” della rappresentatività dell’assemblea? Ulteriore motivo di allarme è provocato dal drastico declassamento che la riforma produce a danno del Presidente della Repubblica. Il Capo dello Stato, infatti, non solo viene privato di alcune fondamentali prerogative, ma sarebbe fatalmente costretto a guardare dal basso in alto un Presidente del Consiglio forte di una diretta investitura popolare. E la preoccupazione aumenta per il fatto che anche la carica di Presidente della Repubblica può rientrare nel bottino che il partito o la coalizione che vince le elezioni politiche ottiene, in un colpo solo, grazie al premio di maggioranza. Anzi, è addirittura verosimile che, in caso di scadenza del settennato posteriore alla competizione elettorale, le coalizioni possano essere indotte a presentare un ticket, con il n ° 1 candidato a fare il capo del governo ed il n° 2 candidato a insediarsi al Quirinale, avendo la certezza matematica che – sia pure dopo il sesto scrutinio (stando all’emendamento del Sen. Borghi) – la maggioranza avrà i numeri per conquistare successivamente anche il Colle più alto. Ciò significa che il partito o la coalizione vincente – che come si è visto potrebbe essere espressione di una porzione anche assai ridotta dell’elettorato (nel caso in cui competessero tre o quattro coalizioni, come è già avvenuto in un recente passato) – sarebbe in grado di conquistare in un unico appuntamento elettorale il Presidente del Consiglio e il governo, la maggioranza assoluta dei senatori e dei deputati, il Presidente della Repubblica e, di conseguenza, anche il controllo della Corte Costituzionale e degli altri organismi di garanzia. Il tutto sotto il dominio assoluto di un capo del governo dotato di fatto di un potere di vita e di morte sul Parlamento. Nessun sistema presidenziale o semipresidenziale consentirebbe una siffatta concentrazione del potere; anzi, l’autonomia del Parlamento in quei modelli è tutelata al massimo grado. Non è dunque possibile ravvisare nella deviazione dal programma elettorale della coalizione di governo – che proponeva il presidenzialismo – un gesto di buona volontà verso una più ampia condivisione. Al contrario, siamo di fronte ad uno stravolgimento ancora più profondo e che ci espone a pericoli ancora maggiori. Aggiungo che il motivo ispiratore di questa scelta avventurosa non è facilmente comprensibile, perché sia l’obiettivo di aumentare la stabilità dei governi sia quello di far eleggere direttamente l’esecutivo si potevano perseguire adottando strumenti e modelli ampiamente sperimentati nelle democrazie occidentali , che non ci esporrebbero a regressioni e squilibri paragonabili a quelli connessi al cosiddetto “premierato”. Non tutto può essere sacrificato in nome dello slogan “scegliete voi il capo del governo!” Anche le tribù della preistoria avevano un capo, ma solo le democrazie costituzionali hanno separazione dei poteri, controlli e bilanciamenti, cioè gli argini per evitare di ricadere in quelle autocrazie contro le quali tutte le Costituzioni sono nate.
E’ sempre tempo di Coaching!
Se hai domande o riflessioni da fare ti invito a lasciare un commento a questo post: riceverai una risposta oppure prendi appuntamento per una sessione di coaching gratuita
17
MAG
MAG
0