La vincitrice delle elezioni è chiusa da giorni nel suo ufficio di Montecitorio per preparare la lista dei ministri, ma ormai circola il sospetto che non riuscirà a fare neanche quel poco che ha promesso. Giorgia Meloni ormai a due settimane dal voto comincia a trasmette ansia. In questi giorni, poiché evidentemente li vive sulla sua pelle («Non dormo la notte»), sta comunicando al Paese nervosismo, inquietudine, tensione. Aveva pensato bene di rinchiudersi a lavorare a Montecitorio per evitare gaffe e scatti di nervi invece di godersi almeno un po’ di quella luna di miele che al vincitore non si nega mai: macché, silenzio assordante mentre gli italiani vorrebbero capire cosa ha in mente. È talmente nervosa da non tenere per sé l’ira per una scivolata di Laurence Boone, nuova ministra per gli Affari europei del governo francese, che a Repubblica aveva osato affermare, sia pure con una formula inelegante, che Parigi «vigilerà su rispetto diritti e libertà». Si è offesa, Meloni, aprendo per la prima volta le ostilità con un Paese amico intimando una smentita. Ci avrebbe pensato, come poi è avvenuto, il Capo dello Stato: “L’Italia sa badare a sé stessa nel rispetto della Costituzione e dei valori dell’Unione europea”. Non c’era bisogno che la non ancora Presidente del Consiglio si facesse riconoscere. Il fatto è che non tollera di essere considerata una vigilata speciale, è l’orgoglio personale oltre che quello nazionale a essere ferito, e da questi francesi poi, eterni antipatici, «sanno tutto loro» come dicono i romani: ed è una prima applicazione, sotto forma di incidente diplomatico, della «pacchia è finita», lo slogan che verosimilmente lei applicherà a qualunque cosa non collimi con l’armamentario nazionalista con una posa non dico da ducetta ma da Capo fazione. Non un bell’inizio. Forse i nervi sono il problema. All’estero si chiedono chi sia e cosa voglia questa giovane leader venuta dalla pancia del Paese, mentre da noi ci si chiede se sarà una conservatrice o una reazionaria o più probabilmente un mix tra le due cose: una borbonica in quanto a cultura e valori, una neo-dorotea in quanto a tattica di governo? In ogni caso è un fatto che ha preso a circolare il sospetto che non riuscirà a fare quello che ha promesso di fare (che poi a pensarci bene, ma che ha promesso?) ed è per questo che cominciano a dirle dei no, come ha raccontato Salvatore Merlo sul Foglio non sta trovando nemmeno il portavoce oltre al ministro dell’Economia, quando mai ci si nega se ti chiama il Principe o la Principessa? Parlare non può perché sicuramente finirebbe con l’irritare Salvini o Silvio o entrambi; infatti, non rilascia alcuna intervista perché le chiederebbero subito quale sarà il suo primo provvedimento: e lei non saprebbe rispondere, qualunque cosa proponesse quei due chiederebbero: e la flat tax? E l’autonomia differenziata? Lei comincia a sentire di avere le mani legate. Dall’Europa, ma soprattutto da quei due, gli alleati che prima o poi la faranno cadere e che ora ringhiano per le poltrone così che i conti non tornano mai, ogni giorno Salvini, ferito a morte dal voto, ne inventa una nuova, adesso vuole un ministero per la natalità a misura di leghista; e non si capisce ancora chi subentrerà a Daniele Franco e Roberto Cingolani, due tecnici coi fiocchi, anzi sembra che anche Cingolani gli abbia detto di no, né si è trovato un osso da dare in pasto al leader leghista. Se l’inizio è questo figuriamoci dopo. E dunque forse i vaticini di Carlo Calenda («Durano sei mesi») e Enrico Letta («È già in difficoltà») non sono solo propaganda ma l’annusamento di un’arietta sgradevole che comincia ad alzarsi. L’altro giorno nel bunker di via della Scrofa, sede di Msi-An-FdI, per la prima volta da quando ha l’Italia in mano Giorgia ha visto le facce dei suoi dirigenti intimandogli di parlare poco, anzi di non parlare affatto dato che qualche ingenuo aveva spifferato la critica meloniana a Mario Draghi sul Pnrr inattuato: un richiamo che la auto relega nella solitudine ansiosa e ansiogena di una Capa che si muove su un terreno incerto e sconosciuto, quello del potere, le sabbie mobili della politica nelle quali finirono ingoiati tanti ben più esperti di lei… E ieri l’allarme la Meloni l’ha portato ad Arcore dove si è incontrata con Salvini e Berlusconi: “Facciamo in fretta o arrivano altri no”. D’altronde sono giorni che si odono le voci di uno scontro tra La Russa e Calderoli per il Senato. Si inanellano ipotesi di Casellati alla Giustizia e Piantedosi all’Interno. E la Meloni dice: “Se non troviamo in fretta soluzioni, ci mostriamo deboli. E se diamo l’impressione di essere deboli, otterremo altri no”. Facendo sfoggio di allarmato pragmatismo, nel salone della villa di Arcore. Il senso dei suoi ragionamenti condensa l’assenza ancora di un patto tra alleati. Niente accordo sulla Presidenza del Senato. Un duro scontro sul ruolo di Licia Ronzulli nell’esecutivo. Tensioni con Silvio Berlusconi, che sente di non contare abbastanza. Gelo con Matteo Salvini, che non vuole tecnici leghisti nel governo. Ansia per l’assenza di un ministro dell’Economia di peso che garantisca in Europa e sui mercati. E tutto ciò a quattro giorni dall’avvio della legislatura, il vertice in Brianza certifica soltanto l’esistenza di uno stallo. A un certo punto di un summit inconcludente, Meloni guarda in faccia gli alleati: “Avete idea di quello che stiamo per affrontare?”. Preoccupatissima, come ormai da giorni, indica loro l’iceberg a tutta dritta: “Abbiamo poco tempo”, è il senso dei suoi ragionamenti. Il governo, fa sapere nel frattempo Fabio Rampelli, “nascerà tra il 21 e il 25 ottobre”, dopo il Consiglio europeo sull’energia a cui parteciperà Mario Draghi. La leader spiega che i rifiuti registrati finora – quello più fragoroso è ovviamente di Fabio Panetta – sono una pessima notizia per tutti. Senza una squadra autorevole, l’esecutivo partirebbe “indebolito”. Il primo nodo che la Presidente di FdI mette sul tavolo è proprio quello dell’Economia. Il piano di mobilitare il Quirinale per convincere Panetta ha poche chance, perché il diretto interessato continua a opporre una strenua resistenza. L’obiettivo è trovare una figura spendibile al Tesoro, il pass per alcuni mondi che contano. Circola l’ipotesi di Domenico Siniscalco e quella di Vittorio Grilli, ma l’incastro ancora non prende forma. Sarà comunque un tecnico, come per gli Esteri e per gli Interni. Prima, però, c’è un’urgenza ancora più stringente: le Presidenze delle Camere. Si inizia a votare giovedì, Meloni non vuole neanche immaginare l’opzione di arrivare in Aula senza un accordo. Al tavolo c’è anche Ignazio La Russa, il nome che la prossima premier preferisce per Palazzo Madama. Nei giorni scorsi, Berlusconi l’aveva rassicurata: “Ignazio per noi va bene”. Salvini però si mette di traverso, vuole alzare il prezzo sui ministeri. Pretende il Senato per Roberto Calderoli, Meloni è disposta a concedergli la guida di Montecitorio. I nomi sono quelli di Riccardo Molinari e Giancarlo Giorgetti (in alternativa, per FdI, Rampelli e Francesco Lollobrigida). I due leader duellano, senza arrivare a una sintesi. Ci sarà bisogno di un nuovo summit – forse già lunedì, stavolta però a Roma con Berlusconi video collegato per avvicinare i contendenti. L’altro no, sonante, Meloni lo pronuncia (sarebbe meglio dire: lo ribadisce) a Salvini sul fronte del ministero dell’Interno. Il leader giura di non aver avanzato pretese per sé stesso. Al Viminale, in ogni caso, andrà un tecnico. E cresce il nome del prefetto di Roma Matteo Piantedosi, già capo di gabinetto del leghista ai tempi degli Interni. Per Antonio Tajani potrebbero aprirsi le porte della Difesa o dello Sviluppo economico. Evidente che per Salvini questo schema è penalizzante. Può aspirare per il suo partito alle Infrastrutture, forse con un mezzo miracolo alla Giustizia (dove però si fa spazio anche l’azzurra Maria Elisabetta Casellati). E per sé stesso? L’Agricoltura o le Riforme. Pochino, per questo punta fermamente all’incarico di vicepremier. Il problema è che Meloni preferirebbe non farsi affiancare da numeri due. Da qui l’inquietudine, che a un certo punto lo porta a sostenere: “Noi abbiamo nomi leghisti all’altezza per l’esecutivo e non proporremo neanche un tecnico”. E non è finita qui. Perché Meloni registra ostacoli soprattutto mentre ragiona con Berlusconi. Il Cavaliere vuole dentro a tutti i costi Licia Ronzulli. Spinge per la Salute o, in alternativa, Infrastrutture e Agricoltura. È una condizione “irremovibile”. La leader frena, Salvini media. Il compromesso potrebbe essere un ministero di seconda fascia. Nulla, insomma, è ancora a posto. Non a caso, a fine vertice trapelano soltanto due concetti. Il primo, frutto di una nota congiunta, promette “un governo forte e capace di rispondere alle urgenze del Paese”, assicurando “passi avanti” per arrivare “il più speditamente possibile” a un esecutivo. Il secondo è affidato a un commento ufficioso del Carroccio, e si intravedono i problemi: “La Lega ha chiara la propria squadra di governo ed è pronta, ai massimi livelli”. Non solo. Salvini chiede un intervento immediato sull’energia, lasciando intendere che andrà fatto senza consultare l’Europa. E magari anche con uno scostamento di bilancio: “Serve un decreto ferma-bollette che, visti i ritardi europei, non può più essere rinviato”. Diciamolo chiaramente l’incontro di Arcore non sorride affatto a Giorgia Meloni, almeno non oggi…
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