Il governo del paese sembra diventato una scuola per demagoghi bisognosi di ripetizioni sul principio di realtà… Il cinismo con cui prima si accreditano e poi si dimenticano tutte le narrazioni più deliranti (sull’immigrazione, l’euro, le banche, i vaccini) finisce per alimentarle anche quando si illude di addomesticarle. Giorgia Meloni rivendica come un grande successo le decisioni dell’ultimo Consiglio europeo sull’immigrazione e al tempo stesso dice di comprendere perfettamente la posizione di Ungheria e Polonia che a quelle decisioni si oppongono strenuamente, pensando di cavarsela con giochi di parole («Siamo d’accordo di non essere d’accordo») e frasi fatte che dovrebbero dare una generica impressione di coerenza e fermezza, pur non avendo alcun nesso logico con il contesto, come ad esempio: «La loro rigidità è comprensibile e io ho sempre grande rispetto per chi difende i propri interessi nazionali». Il punto è che i capi di governo di Ungheria e Polonia, come tutti i sovranisti, contestano la possibilità stessa di una soluzione europea fondata sulla solidarietà tra i diversi paesi e proprio in questo senso intendono la difesa del proprio interesse nazionale, o se preferite della propria «sovranità» (altrimenti, che sovranisti sarebbero?). Mentre Meloni da un lato, ora che al governo c’è lei, non può rifiutare un accordo fondato sui ricollocamenti che è con ogni evidenza nel nostro interesse, e dunque lo sottoscrive ed esalta come un suo personale successo; dall’altro, per non rimangiarsi tutto quello che ha detto fino a ieri, sottoscrive di fatto anche le critiche dei suoi alleati e compagni di strada nazional-populisti, provando a conciliare l’inconciliabile con la retorica sul cambio del «punto di vista» e l’importanza di concentrarsi sulle «frontiere esterne». Lo stesso surreale spettacolo, cambiando il pochissimo che c’è da cambiare, va in scena nel frattempo sul Meccanismo europeo di stabilità, e praticamente su ogni altra scelta politica di qualche rilevanza. Anche riguardo alla crisi Ucraina, infatti, occorre ricordare che Meloni e Fratelli d’Italia, dopo l’occupazione russa della Crimea e lo scatenamento della guerra sporca nel Donbas da parte del regime di Vladimir Putin, sono stati tra i massimi sostenitori e propalatori della sua propaganda, chiedendo a gran voce la revoca delle sanzioni contro Mosca e organizzando persino manifestazioni di piazza in suo favore, praticamente fino alla vigilia dell’invasione del 24 febbraio. La tragedia è che nessuno può chiedere conto di niente, perché è esattamente lo stesso percorso compiuto a suo tempo dal Movimento 5 stelle nel passaggio dall’opposizione al governo (e poi, a ritroso, dal governo all’opposizione, in particolare proprio sulla questione russo-ucraina). Ragion per cui di fatto deve tacere anche il Partito democratico, che dal secondo governo di Giuseppe Conte in poi ha deciso di sacrificare ogni coerenza programmatica e di principio all’alleanza con i populisti grillini, e non può dunque rimproverare a Meloni quello che non rimprovera a Conte. In tutto questo, lo so, non c’è assolutamente niente di nuovo: è il desolante spettacolo offerto dalla politica italiana stritolata nella morsa del bipopulismo, almeno dal 2018 in avanti. Non mi convince però la diffusa convinzione che in fondo proprio in questa dinamica autocontraddittoria si nasconderebbe la forza, la capacità di autocorreggersi e persino una sorta di virtù pedagogica del sistema. Non solo perché penso che il governo del paese non possa diventare una specie di scuola per populisti bisognosi di ripetizioni sul principio di realtà, peraltro con risultati come minimo controversi, e di sicuro assai costosi per il bilancio pubblico. Luigi Di Maio oggi è fuori dal Parlamento e magari un domani, esauriti gli incarichi europei, dovrà anche trovarsi un lavoro, ma di sicuro la sua parabola non ha insegnato e non insegnerà niente a nessuno di coloro che lo avevano votato quando proponeva di uscire dall’euro o definiva il Pd un partito di ladri e torturatori di bambini. Poiché nessuno viene mai chiamato a rendere conto delle assurdità che diceva all’opposizione, perché c’è sempre un governo o almeno una campagna elettorale per le regionali da fare insieme, anche quando è costretto a rimangiarsele una volta arrivato al governo (come capita sistematicamente) la conclusione che ne traggono i suoi sostenitori è che il sistema ha corrotto anche lui, che si è venduto, che ha tradito o nella migliore delle ipotesi che è dovuto scendere a compromessi con il potere. In questo modo i truffatori cambiano ma la stessa truffa può continuare a funzionare come e meglio di prima. La strategia politica del «si fa ma non si dice», per quanto certamente non estranea a una certa tradizione nazionale, non mi pare dunque lungimirante, né mi persuade l’idea che lo spettacolo desolante delle ultime due legislature possa apparirci come un modo magari contorto ma tutto sommato efficace di far funzionare le cose, ridurre ogni estremismo alla ragionevolezza, smussare e addomesticare ogni spinta autodistruttiva. L’idea che questo sia un po’ il massimo che possiamo permetterci, una sorta di riformismo reale, continua ad apparirmi non solo cinica e interessata, ma anche miope…
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