Politica: la crisi delle democrazie occidentali e l’Italia, cinque sono le riforme necessarie…

Le democrazie occidentali, un tempo considerate il modello di governo ideale per il progresso e la prosperità dei popoli, stanno affrontando una crisi senza precedenti. Nel corso degli ultimi anni, fenomeni politici e sociali come la globalizzazione, il covid, l’immigrazione e la diffusione della povertà relativa, hanno minato la stabilità e la fiducia nei sistemi democratici occidentali, mettendo in discussione la loro capacità di affrontare le sfide del XXI secolo. Le cause della crisi sono molte, ma possono essere riassunte nella pessima qualità della classe politica e dirigente che ha avuto la responsabilità di gestire il Paese negli ultimi quarant’anni. La classe dirigente non ha saputo affrontare e risolvere problemi come la crescente disuguaglianza economica, la perdita di centralità economica e reddituale delle economie occidentali rispetto ai Paesi emergenti, in particolare la Cina, l’invecchiamento della popolazione, la mancanza di investimenti, la perdita della produttività del lavoro a causa del ridotto valore aggiunto delle produzioni nostrane, la gestione dei flussi migratori. Nei Paesi occidentali l’aumento delle disuguaglianze ha portato ad una percezione diffusa di ingiustizia sociale, creando tensioni e divisioni nella società e rovesci elettorali per i partiti tradizionali (vedi le recentissime elezioni europee). Il Caso Italia – Negli ultimi decenni, l’Italia si è distinta, tra le economie avanzate, come quella che ha registrato i risultati peggiori. Alcuni dati che confermano questa situazione: negli ultimi quarant’anni, gli stipendi medi in Italia hanno mostrato un andamento piatto se confrontati con quelli di altri paesi sviluppati. Tra il 1990 e il 2020, i salari medi annuali italiani sono diminuiti del 2,9%. Questa stagnazione è confermata dal rapporto Inapp 2023, che sottolinea come in Italia, tra il 1991 e il 2022, i salari siano aumentati solo dell’1%, mentre in media nei paesi OCSE l’incremento è stato del 32,5% (HRnews). L’andamento del PIL pro capite italiano rispetto ai Paesi europei di riferimento: Germania, Francia e Spagna è stato il peggiore:

(Fonte Eurostat)

Disastroso è stato l’andamento del Pil per ora lavorate:

(Fonte Altervista)

Gli anni ’70 sono stati il punto di svolta negativo del nostro Paese. Siamo passati da un’economia florida, in forte crescita, con redditi crescenti e benessere diffuso ad un’economia dei bonus e del debito, che è servita a garantire i voti di chi aveva il potere: bonus fiscali per categoria, pensioni baby, aumenti salariali non collegati all’aumento della produttività, aziende ed imprenditori che non hanno più investito in tecnologia e formazione quanto fosse necessario per competere con la nascente globalizzazione, creazione di una burocrazia pubblica inefficiente. Nei primi anni ’90, con il disfacimento della Prima Repubblica, crollata sotto il peso di un debito crescente e di un sistema corruttivo diffuso, scoperchiato dalla magistratura, abbiamo visto l’avvento di un nuovo modo di far politica. I voti non erano più controllati da veri partiti, ma da contenitori liquidi in cui gli iscritti e gli elettori si sono affidati a leader che promettevano di risolvere problemi molto complessi con soluzioni semplici e nella sostanza inattuabili: il fenomeno che viene definito con un termine appropriato populismo. Il populismo ha minato il dialogo democratico e promosso una politica basata sull’emozione, sulla paura e sulle promesse impossibili da attuare. I leader populisti hanno capitalizzato il malcontento sociale sfruttando le paure delle persone per ottenere consenso politico. Il controllo dei mezzi d’informazione, TV, giornali e la manipolazione dei social media hanno fatto il resto. Il senso di tutto ciò è sempre più chiaro: bisogna prendere atto del fatto che il consenso per le democrazie occidentali nato dopo la Seconda Guerra Mondiale sta finendo se già non è finito. Ora cresce nel Mondo una coalizione di stati autocratici, non necessariamente rappresentativi dell’intero Globo, ma che l’ordine globale basato su regole condivise non lo vuole più e punta a demolirlo. L’Onu in questi giorni è lo specchio di queste tensioni tutte vere, forse stavolta riuscirà ancora a mediare una soluzione. Ma bisogna sapere che questa però è la sfida di lungo termine, che si ripeterà sempre e su tutto, e sarà impossibile non prendere una posizione chiara: ho si è per la democrazia o per l’autocrazia. In Italia, il moderno populismo è stato sdoganato con l’avvento del primo Governo Berlusconi, fenomeno via via cresciuto con i suoi cloni, fino all’attuale situazione del Governo Meloni che potremmo definire, con rispetto ma in concreto “un Governo da ultima spiaggia”. Per quale ragione definisco così il Governo Meloni? Ma perché l’elettore, ondivago, dopo aver votato tutto l’arco costituzionale: PDL, PD, Lega, M5S, senza alcuna soddisfazione, ha scelto l’unico partito che era rimasto all’opposizione. Spaventa pensare quello che verrà dopo, e che in parte i risultati delle elezioni europee stanno evidenziando con il terremoto politico avvenuto in Francia e Germania; terremoto che ha già avuto conseguenze sul Governo Europeo e sull’Italia, che dai risultati sembra essere (ingannevolmente) l’unico Paese stabile politicamente. La Situazione attuale e le Sfide Future – A causa del crescente populismo e della diffidenza verso i politici, molti cittadini hanno perso fiducia nel Governo e nelle Istituzioni democratiche, disinteressandosi della cosa pubblica, basta osservare il grafico sottostante da cui si evince che il partito del non voto in Italia è in costante crescita ed è nettamente il primo partito:

(Fonte Openpolis)

L’ultimo dato disponibile, quello delle recentissime elezioni europee, conferma la tendenza crescente del non voto: per la prima volta nella storia del Paese ha votato una percentuale degli aventi diritto inferiore al 50%. Quindi il partito di gran lunga maggioritario è quello di chi ha rinunciato a votare: le tre forze che compongono la maggioranza di Governo hanno raccolto l’8 e 9 giugno scorsi circa 11 milioni di voti (Fonte Milano Finanza) contro gli oltre 23 milioni di chi non è andato a votare. Alle precedenti elezioni europee del 2019, quando non erano come ora tutti e tre insieme al governo, i loro consensi risultarono pari a circa 13,2 milioni. Hanno dunque perso, nel confronto con la precedente consultazione continentale, 2,2 milioni di voti. Il rischio di questa situazione di sfiducia dell’elettorato, esacerbata da una situazione economica che peggiora da quarant’anni e dalle guerre che si combattono, anche alle porte dell’Europa, speriamo non si risolva come già evidenziato nella nascita di Governi autoritari (autocrazie), che potrebbero cercare di consolidare il loro potere a danno dei diritti faticosamente raggiunti nel secolo scorso dall’occidente. L’erosione dei diritti civili conseguente potrebbe minacciare la vita democratica e le libertà individuali. Non sono un caso il seguito che personaggi come Trump, Putin e Xi, hanno non solo in Patria ma anche tra le fila dell’Occidente libero e democratico. L’Italia e l’Europa intera, nonostante le bugie sparse a piene mani, stanno perdendo influenza internazionale, politica, sociale ed economica. Le sfide e le possibili soluzioni – La prima riforma dovrebbe passare attraverso una revisione dei Trattati europei che possa abolire i principi dell’unanimità e il diritto di veto, che impediscono alle Istituzioni Europee di legiferare a maggioranza, dovendo, tutte le volte, passare per estenuanti trattative, che comunque ogni singolo Paese può bloccare all’infinito. Un esempio in tal senso è il blocco degli aiuti all’Ucraina perpetrato recentemente da Orban per cui nonostante 26 stati su 27 volessero varare questo provvedimento la sola Ungheria ha potuto bloccare la sua attuazione per molto tempo. La seconda riforma dovrebbe individuare un nuovo criterio di selezione della classe dirigente, soprattutto politica, che non possa prescindere dal merito, quello vero. Non è possibile che persone senza una preparazione specifica importante assumano ruoli decisivi per l’indirizzo del Paese. Prendereste un aereo pilotato da una persona eletta con una votazione democratica che non abbia però un brevetto di volo e non abbia alle spalle una solida esperienza di volo per un certo numero di anni? Vi fareste operare di appendicite da una persona indicata dai partiti che non sia laureato in medicina, che non abbia una specializzazione in chirurgia e non abbia già alle spalle un certo numero d’interventi? Perché allora accettiamo che i ruoli apicali in politica, come Viceministri, Ministri, Presidenti del consiglio e Presidenti della Repubblica siano indicati dai partiti e spesso abbiano un curriculum che al massimo consentirebbe loro di lavorare in call center? In questo senso abbiamo una storia corposa di leader politici di tutti gli schieramenti che hanno avuto percorsi scolastici limitati e soprattutto non hanno mai lavorato, il cui unico merito è stato frequentare i circoli dei partiti e trovarsi al posto giusto nel momento giusto. L’accesso a ruoli politici importanti dovrebbe essere riservato a chiunque abbia le qualità per emergere; in questo senso si dovrebbe fare una selezione feroce di chi possa e debba occuparsi della cosa pubblica, consentendo a tutti di potervi accedere, ma non potendo prescindere da curriculum, concorsi, scuole specifiche di politica, come per esempio esistono da sempre in Francia, anche se i risultati sembrano modesti. Fare politica non dovrebbe essere una “professione” ma un “servizio”. È accettabile che personaggi di dubbia moralità e soprattutto professionalità, con curriculum ridicoli, possano vivere di politica tutta una vita? Fare il parlamentare ed in generale acquisire incarichi politici importanti dovrebbe avere una durata limitata: due o tre mandati al massimo e poi a casa, ritornando a fare il “mestiere” che l’eletto faceva prima di far politica. Oggi invece assistiamo a carriere politiche che, tra alti e bassi, durano una vita, senza che questi “politicanti” abbiano mai prodotto qualcosa di significativo per il Paese. La terza riforma dovrebbe essere quella della giustizia. Riforma in corso di attuazione nel Parlamento italiano. Oggi la proposta del Governo prevede la separazione delle carriere, l’introduzione di ridicoli test psicoattitudinali per i magistrati, la riduzione del numero dei reati (vedi l’abolizione dell’abuso d’ufficio), impedire la pubblicazione delle notizie di reato e ridurre le intercettazioni. Riformare la giustizia dovrebbe passare necessariamente per una forte riduzione dei tempi dei processi, opzione già prevista dal Pnrr e dai desiderata del Ministro della Giustizia Nordio, ma un conto sono i propositi altra cosa sono i risultati. È inaccettabile che in un Paese civile prima di arrivare ad una sentenza di primo grado in materia civile ci vogliano 532 giorni. Il Pnrr si è posto l’obiettivo di ridurre i tempi dei processi, anche di quelli arretrati che hanno superato i limiti di «ragionevole durata» fissati dalla legge: tre anni in tribunale e due in corte d’appello. Credo però che il risultato di ridurre in modo significativo la durata dei processi possa essere ottenuto solo aumentando il numero dei magistrati, dei cancellieri e del personale amministrativo che opera nei Tribunali Italiani, oltre ad una riduzione dei gradi di giudizio: in Italia i processi prima di essere chiusi con una sentenza definitiva spesso passano attraverso 3 o 4 gradi di giudizio; una riforma logica dovrebbe prevedere un primo grado ed eventualmente, solo in caso di condanna, un appello, entrambe da tenersi in un arco di tempo non superiore a due anni. Sono d’accordo sulla proposta di nominare una quota dei membri del Csm per estrazione, limitando il potere delle correnti. La quarta riforma dovrebbe essere quella della riduzione della burocrazia e delle articolazioni dello Stato. È del tutto anacronistico che in Italia ci siano 7.896 Comuni, migliaia dei quali amministrano un territorio in cui risiedono poche centinaia di persone, ed in molti casi addirittura poche decine. Non siamo più agli inizi del 900 quando spostarsi da Coli (Pc) a Bobbio (Pc) voleva dire intraprendere un viaggio di ore con costi elevatissimi, oggi la tecnologia digitale consente collegamenti immediati a costo zero. Ridurre il numero dei Comuni rafforzandone la dimensione media dovrebbe aumentare le risorse disponibili, migliorare i servizi, ridurre le spese, aumentare gli investimenti, risolvendo problemi come la carenza di personale, problema endemico soprattutto nei piccoli e nei medi Comuni, che pur varando concorsi non trovano il personale specializzato per rispondere alle crescenti funzioni loro delegate. In questo senso, l’autonomia differenziata varata recentemente dal Governo, rischia di essere un boomerang per il Paese se invece di migliorare la qualità dei servizi, anche nelle regioni del Sud, si risolverà come spesso accade nel nostro Paese in un semplice aumento dei centri di spesa con ricadute disastrose sul deficit e sul debito pubblico. La quinta riforma dovrebbe essere quella fiscale. Accantonando per un attimo l’evasione fiscale, problema risolvibile se vi fosse un’autentica volontà politica, (ricordo che gli evasori sono tanti e votano) una seria riforma possibile dovrebbe essere quella di introdurre un fisco più semplice e soprattutto più equo, nel rispetto del principio costituzionale (art 53 della Costituzione) della progressività dell’imposta, in cui tutti i redditi: di lavoro, d’impresa, di capitale, ecc. siano trattati allo stesso modo: stesso reddito imponibile uguali imposte, eliminando le centinaia di provvedimenti che negli ultimi quarant’anni hanno privilegiato una categoria o l’altra, alla ricerca del facile consenso, consentendo a molti, ma non alla maggioranza di chi conta poco, di sfuggire al principio della progressività dell’imposta sancito dalla Costituzione. Questa semplice riforma avrebbe il pregio di essere a costo zero per le casse dello Stato, ed anzi consentirebbe un gettito aggiuntivo importante, proveniente da chi le tasse è abituato a non pagarle perché esonerato, o a pagarle in misura ridotta perché oggetto di bonus e agevolazioni varie. Valga come esempio per tutti la recente querelle sulle tasse agli agricoltori: prima reintrodotte dal Governo e subito dopo cancellate pensando alle imminenti elezioni europee. Perché un agricoltore che guadagna diciamo 100.000 euro all’anno, già agevolato da una normativa che gli consentirebbe di pagare un’Irpef ridicola calcolata con un sistema forfettario catastale (reddito agrario) oggi deve essere del tutto esonerato dall’irpef? Qualcuno obietterà che gli agricoltori, in larga misura, sono persone che faticano dalla sera alla mattina per coltivare il loro terreno spesso con risultati negativi. Bene è ora di sfatare questa storiella! Molte aziende agricole oggi sono imprese, con investimenti, personale, capitale e spesso con risultati economici interessanti. Introdurre anche per loro il principio che le tasse si pagano sul reddito reale non penalizzerebbe in alcun modo i piccoli agricoltori che, come dicevo prima, coltivano con tenacia e sudore della fronte il loro piccolo fondo. Qualcuno è in grado di giustificare il fatto che oltre due milioni di partite iva in regime forfettario pagano tra il 15% e il 5%; irpef calcolata oltretutto non sul reddito reale ma su una base imponibile ridotta di costi forfettizzati spesso non sostenuti realmente? È poi accettabile che gli stessi contribuenti siano esonerati dalle addizionali comunali e regionali con cui i cittadini normali contribuiscono a finanziare i servizi comunali e regionali (sanità, rifiuti, ecc.) o non versino l’iva sul valore aggiunto, creando una concorrenza sleale verso quei professionisti che non sono in regime forfetario e che devono addebitare l’iva anche ai clienti privati? Il gettito aggiuntivo derivante dell’applicazione del principio costituzionale mai applicato che tutti i redditi sono tassati nello stesso modo, potrebbe essere utilizzato per ridurre le tasse a chi oggi già le paga. Finalmente sarebbe garantito il principio che non solo tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge ma anche per il fisco; principio che nessun Governo negli ultimi quarant’anni ha rispettato. Speriamo che il Paese e l’Europa possano trovare la strada per uscire da questa difficile situazione e costruire un futuro più stabile e prospero, ma, come credo si sia capito, non sono fiducioso.

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