Politica: La metamorfosi del lavoro. Morti sul lavoro, restiamo silenti di fronte a un’ecatombe. Lavoro povero, com’è possibile che vi siamo più occupati e sempre più bassi salari?

L’ampio processo di ristrutturazione del capitale, intervenuto su scala globale agli inizi degli anni settanta, ha avuto un carattere multiforme: da un lato tendenze all’intellettualizzazione della forza lavoro, specialmente nelle cosiddette tecnologie dell’informazione e della comunicazione, dall’altro accentua, su scala globale, i livelli di precarizzazione e informalità dei lavoratori e delle lavoratrici. L’analisi del capitalismo nell’era della sua mondializzazione e finanziarizzazione ci obbliga a comprendere che la valorizzazione del valore porta a nuovi meccanismi generatori di plus lavoro, nello stesso tempo in cui espellono dalla produzione un’infinità di lavoratori che diventano eccedenti, scartabili e disoccupati. E questo processo ha una chiara funzionalità per il capitale, giacché permette l’ampliamento, su larga scala, della massa dei disoccupati, il che riduce ancora di più la remunerazione della forza lavoro su scala globale, attraverso la contrazione dei salari delle donne e degli uomini occupati. Nel pieno dell’esplosione della più recente crisi globale, che ha il suo epicentro nei paesi del Nord, questo quadro si amplia a dismisura e ci presenta un enorme “spreco” di forza di lavoro umana ed una corrosione ancora maggiore del lavoro contrattato e regolamentato di matrice taylorista-fordista, che è stato dominante nel corso del ventesimo secolo”, come scrive Riccardo Antunes, nel suo libro: “Addio al lavoro? La metamorfosi e la centralità del lavoro nell’era della globalizzazione”. Importante sul tema, un altro autore André Gorz che nel suo libro “Addio al lavoro”, aveva previsto tutto: il dilagare incontenibile del precariato, la mancanza di regole contrattuali e la fine della società basata sul lavoro retribuito. Con sguardo lungimirante, ci invita a non temere il cambiamento e, nei tumulti di un mondo in trasformazione, a ripensare radicalmente la società in modo che ogni individuo possa esprimere le proprie capacità lavorative e autorealizzarsi. Suggerisce dunque, a tal scopo, di introdurre un reddito minimo garantito, e scorge, dietro le tendenze contraddittorie del nostro tempo, le possibilità latenti per costruire un’altra civiltà. Gorz è convinto che occorra tentare l’esodo dalla società del lavoro salariato per rimettere al centro la persona e che lo strumento, che permette d’innescare questa transizione è un reddito di base per i periodi d’inattività. In altre parole, Non si tratta di alimentare la società del consumo con misure di emergenza. Occorre pensare a un nuovo modello di relazione sociale in cui il tempo liberato dal lavoro è sostenuto economicamente per essere trasformato in tempo di crescita umana e sociale. Le teorie della ricaduta favorevole e del benessere da gocciolamento, alla fine non sono altro che miti prodotti dal pensiero neoliberale, mentre la cruda realtà è ben diversa: molto potere in poche mani, crescita delle diseguaglianze, instabilità economica e sociale. Il tentativo di dare vita a un ‘capitalismo dal volto umano’ non solo sembra naufragare nella logica del profitto ad ogni costo, ma è altresì una contraddizione in termini. Secondo Gorz: «a cadere a pezzi è la società basata sul lavoro salariato; a estinguersi è il contratto sociale di tipo socialdemocratico o cristiano-sociale, che credeva di addomesticare il capitalismo e di poter conciliare lavoro e capitale». Oggi la società in cui viviamo espelle dal lavoro molte più persone di quelle a cui riesce a garantire lavoro di qualità e diritti. È così che nei “perdenti” nasce una frustrazione che si esprime in eccessi di rabbia e di odio, in atti di rifiuto di estrema destra della società, della politica e dei politici a vantaggio di un’”ideologia populista”. Inoltre, la discontinuità lavorativa sempre più accentuata, non permette di dare avvio a progettualità alternative perché viene messa in crisi l’esistenza stessa del lavoratore… Scrive su Repubblica Ezio Mauro: «Bastano ormai pochi giorni dopo una tragedia del lavoro con sette morti per trasportare uno scandalo pubblico della democrazia nella dimensione privata del lutto familiare, spegnendo insieme i riflettori della televisione, che dalle prime ore hanno illuminato la scena drammatica, e l’indignazione del Paese. Resta la compassione, naturalmente, un sentimento di pietà per quelle vittime uccise dal loro sapere e dal loro dovere, che insieme le avevano portate a 40 metri sotto l’acqua del lago, a Suviana, per provare l’accensione di una turbina in manutenzione da un anno. Guasto meccanico, problema elettrico, o errore umano, sarà la magistratura ad accertare le responsabilità: ma la formula neutra dell’“incidente” sta già calando sulla vicenda e la derubrica nella casualità tecnica, disarmando la pubblica opinione dallo scomodo dovere di domandarsi che cos’è il lavoro oggi, quale realtà si sta trasformando dietro quella parola, e qual è il suo posto nella società contemporanea: l’unico modo di non rendere inutili quelle sette morti». Anche in quest’ultimo caso, come ogni volta, verifichiamo la dimensione incivile del fenomeno, con quasi centomila infortuni nei soli due primi mesi dell’anno e 119 morti, con un aumento del 20 per cento, nonostante gli impegni dei diversi governi, le promesse, la patente a punti per le imprese, con la triste tariffa dei 20 punti sottratti per ogni morto, una misura che evidentemente non è sufficiente per imporre procedure di maggior sicurezza nelle fabbriche e nei cantieri. E alla fine, assistiamo silenti, giorno dopo giorno ad un’ecatombe… Ed eccoci, alla questione occupazionale e salariale nel nostro Paese. Si stima che gli stipendi in Italia, hanno perso un ulteriore 10% del loro potere d’acquisto rispetto a 5 anni fa. Così che l’altra faccia della medaglia della crescita dell’occupazione negli ultimi anni è la diminuzione dei salari. Contrariamente a quanto avvenuto negli Stati Uniti e in molti altri paesi europei, in Italia i salari negli ultimi anni non hanno tenuto il passo dell’inflazione e hanno perso il 10% del loro potere d’acquisto rispetto a 5 anni fa. A farne le spese sono stati soprattutto gli operai e i lavoratori con salari più bassi mentre i dirigenti sono in gran parte riusciti a salvaguardare il valore reale delle loro retribuzioni. Il contrario di quanto avvenne negli anni ’70 quando meccanismi come la scala mobile proteggevano più gli operai che i dirigenti dagli aumenti dei prezzi. Oggi la scala mobile non c’è più, ed è un bene, ma non c’è più neanche un paracadute che protegga i redditi più bassi dall’aumento dei prezzi. È quindi doppiamente sorprendente che molti nel sindacato ancora si oppongano all’introduzione di un salario minimo, pienamente indicizzato all’inflazione. A sua volta il Governo ha derubricato la questione salario minimo affidandola al Cnel. Questi ha concluso che il salario minimo è inutile perché “la contrattazione collettiva, al netto dei comparti del lavoro agricolo e domestico, copre oltre il 95% dei lavoratori del settore privato” e fissa già dei minimi salariali mensili a livello settoriale “superiori più o meno ampiamente alle soglie retributive” determinate dal salario minimo. Peccato che il lavoro agricolo e quello domestico riguardino quasi tre milioni di persone in Italia, che non si vede perché non dovrebbero essere tutelate. Peccato che i contratti per i lavoratori “coperti dalla contrattazione collettiva” vengano rinnovati con ritardi di due o tre anni, lasciando molti lavoratori disarmati di fronte all’aumento dei prezzi. Peccato che tra il 15% e il 30% dei lavoratori teoricamente coperti da questi contratti nazionali alla prova dei fatti ricevano retribuzioni inferiori a quelle fissate dal contratto nazionale. Peccato che esistano i contratti cosiddetti pirata, che praticano riduzioni fino al 40% dei minimi tabellari fissati dai sindacati confederali in settori certo non marginali come il metalmeccanico, l’installazione d’impianti e l’odontotecnico. Si dirà che questi contratti pirata riguardano solo un’esigua minoranza dei lavoratori, ma il solo fatto che esistano trascina al ribasso l’intera struttura delle retribuzioni. E quei sindacati che continuano a mettere la testa sotto la sabbia rivendicando a sé stessi il ruolo di fissare i minimi salariali farebbero bene a riconoscere quali sono i veri numeri della sindacalizzazione in Italia. Le indagini campionarie mostrano che la percentuale di lavoratori iscritti al sindacato è un terzo di quella dichiarata. Un altro fattore che tiene bassi i salari in Italia sono clausole inserite nei contratti di lavoro senza che spesso i lavoratori ne siano consapevoli e che limitano la loro possibilità di cambiare datore di lavoro. se ritengono di essere pagati troppo poco. Diverse indagini ci dicono che queste clausole riguardano quasi un quinto del lavoro alle dipendenze; spesso sono applicate a lavoratori con qualifiche e retribuzioni basse, non per impedire che svelino segreti aziendali (cui non hanno accesso) o che vanifichino gli investimenti in formazione (assenti nel loro caso), ma solo per tenere bassi i loro salari. Una settimana fa la Federal Trade Commission (FTC) americana, l’autorità antitrust negli Stati Uniti, ha deciso di bandire i patti di non concorrenza nei contratti di lavoro. In Italia i patti di non concorrenza sono regolati dal Codice civile che impone che le clausole abbiano un ambito settoriale e geografico ben definito e che sia prevista una compensazione per il lavoratore. Tra metà e due terzi dei patti in Italia non sembra rispettare questi requisiti. Difendere i salari in Italia significa perciò anche far applicare la legge e informare i lavoratori sui limiti legali cui sono soggette queste clausole. Ma la contrattazione collettiva non dice nulla al riguardo e, almeno a giudicare dalla casistica e dalla giurisprudenza, sono pressoché inesistenti i controlli degli ispettori del lavoro. I salari possono essere difesi anche riducendo il prelievo fiscale sul lavoro, come sembra intenzionato a fare il governo. Ma se prendiamo alla lettera gli impegni presi con l’Europa con il Documento di Economia e Finanza e teniamo conto delle nuove regole del Patto di Stabilità e Crescita, sull’approvazione del quale, dopo averne vantato la necessità concordata tra i Paesi UE, alla fine il Governo Meloni, negando sé stesso, si è astenuto unico in Europa (?) ci fa pensare che il taglio alle tasse introdotto per un solo anno dall’ultima Legge di Bilancio non verrà rinnovato nel 2025. L’altro ieri è stato varato un decreto che introduce un bonus di 100 euro che verrà erogato a gennaio 2025, perché non si sono trovate le coperture. Si tratta, una volta di più, di misure limitate ed estemporanee introdotte alla vigilia di nuove elezioni. Alla luce dei vincoli di bilancio, di cui per troppo tempo ci siamo dimenticati, il modo più efficace di difendere nel tempo i salari è attraverso strumenti che riducano l’eccessivo potere di alcuni datori di lavoro nei confronti dei loro dipendenti. Il ‘salario minimo’ e il controllo sulle clausole di non concorrenza hanno questa funzione. È una strategia che non ha costi per le casse dello Stato e anzi, se attuata con i dovuti accorgimenti (senza fissare salari minimi troppo alti che finirebbero per distruggere posti di lavoro), può portare ad un aumento delle entrate contributive e fiscali dello Stato…

E’ sempre tempo di Coaching! 

Se hai domande o riflessioni da fare ti invito a lasciare un commento a questo post: riceverai una risposta oppure prendi appuntamento per una  sessione di coaching gratuita

0

Aggiungi un commento