Politica: Lavoro, il governo contro i giovani e le donne. Il mercato del lavoro va in una direzione, il decreto Meloni si muove nel senso opposto. Aumentano le diseguaglianze e aumentano le distanze. Proteste e manifestazioni sindacali…

Diciamolo chiaramente che stando hai dati ufficiali, è del tutto inutile l’intervento contenuto nel decreto del Primo Maggio che crea maggiore flessibilità per i contratti a termine: in un anno i rapporti a tempo indeterminato sono stati ben 367mila in più, quelli a tempo determinato sono diminuiti di 85mila unità. Il rischio è che a pagare saranno ancora gli under 35 e che, per di più, torneranno ad aumentare i contenziosi in tribunale come in passato. Il mercato del lavoro va in una direzione. Il decreto lavoro del governo Meloni – o almeno la bozza – si muove in quella opposta. Tant’è che i sindacati Cgil, Cisl e Uil nella manifestazione nazionale a Potenza: dichiarano che: “Dal governo risposte insufficienti sul lavoro”. Secondo il segretario generale della Cgil Maurizio Landini, che ha altresì giudicato “irrispettosa” la decisione di riunire l’esecutivo proprio il 1 maggio, sottolinea che: “Oggi l’Italia non è più, come recita la Costituzione, una Repubblica fondata sul lavoro, ma “una Repubblica fondata sullo sfruttamento, sulla precarietà, sulla povertà e sul fatto che si può essere poveri anche lavorando”. Il governo “sta mettendo delle toppe ma serve una strategia. Non si può andare avanti a colpi di propaganda. Oggi è il momento di rilanciare con forza la mobilitazione. Le ragioni ci sono tutte e rimangono. Bisogna cambiare le politiche economiche e sociali del governo che sono sbagliate!”. Questa la sfida dei sindacati e le previste prossime manifestazioni di Bologna, Milano e Napoli servono a preparare l’appuntamento vero in autunno quando ci sarà l’ennesima manovra di bilancio. Ma il problema è più grande del governo Meloni ed è l’occasione per tornare a fare i conti col tema del popolo e con la sconfitta sindacale di questi ultimi 20anni. La piazza di Bologna, e non è un caso che si parta da lì, comunque è una sicurezza, per quel che è, nonostante tutto, e grazie a quel che era. E poi Milano e Napoli. Queste piazze sono una sfida, certo, al governo. Ma anche a se stessi, sia per il sindacato che per la sinistra… una sfida a ritrovare una ragione sociale e una missione politica, nell’età della grande sconfitta sul lavoro e i suoi cambiamenti (che è avvenuta ben prima della vittoria elettorale di Giorgia Meloni). Ma vediamo qualche numero. A marzo 2023, stando ai dati Istat, prosegue il lieve aumento dell’occupazione (+0,1 per cento) e continua la crescita delle stabilizzazioni con i contratti a tempo indeterminato, che sono 78mila in più rispetto agli ultimi tre mesi del 2022, 367mila in più in un anno, raggiungendo il numero più alto da quando esistono le serie storiche. Mentre i contratti a termine, quelli sui quali il governo è intervenuto rendendo più flessibili le regole sulle casuali per rinnovi e proroghe dopo i dodici mesi, nel primo trimestre dell’anno sono tremila in meno, in un anno ottantacinquemila in meno. Quindi un intervento inutile, quello del governo, a guardare i numeri. Nel 2022, le trasformazioni dei contratti di lavoro da temporanei a tempo indeterminato sono cresciute del quarantaquattro per cento, anche in assenza di forti incentivi sulla decontribuzione. Rispetto a marzo 2022, i rapporti di lavoro stabili sono cresciuti del 2,4 per cento, arrivando al record di oltre 15,3 milioni. Le tre nuove causali volute dalla ministra del Lavoro Marina Calderone, il tredicesimo cambio di regole sui contratti a termine dal 2000, in questo scenario sembrano quindi avere il solo obiettivo politico di voler depennare una volta per tutte i paletti rigidi del decreto dignità voluto dai Cinquestelle ai tempi del governo con la Lega, oggi alleata di Meloni. La stessa ministra del Lavoro Marina Calderone, d’altronde, ha detto che solo il tre per cento dei contratti a termine supera i dodici mesi. Ma le nuove norme rischiano anche di essere dannose, in un momento in cui la crescita dell’occupazione non è più quella del rimbalzo post Covid. Soprattutto tra i giovani. A un anno dall’inizio della guerra russa in Ucraina, infatti, a marzo 2023 l’occupazione è cresciuta solo di ventiduemila unità. L’aumento è spalmato un po’ su tutta la forza lavoro, fatta eccezione dei 25-34enni, ovvero la fascia tradizionalmente di primo ingresso, per i quali si registra invece una perdita di 26mila posti a fronte ventisettemila disoccupati in più. Crescono invece gli occupati tra i 35-49enni (+30mila) e tra gli over 50 (+11mila). In questi numeri conta l’invecchiamento della popolazione, ma a guardare i dati depurati dalla componente demografica si vede che, sebbene i giovani under 35 stiano trainando ancora la crescita del mercato del lavoro con un +2,7 per cento annuo, la spinta del rimbalzo post Covid sta nettamente diminuendo. Parallelamente calano i disoccupati: il tasso di disoccupazione totale scende al 7,8 per cento, quello giovanile al 22,3 per cento. Gli inattivi, quelli che un lavoro non ce l’hanno e non lo cercano, sono però mille in più in un mese, con il tasso di inattività fermo al 33,8 per cento: ancora molto alto. A marzo, crescono più o meno alla pari sia i contratti a tempo determinato (+10mila) sia quelli a termine (+13mila), mentre annaspano ancora gli autonomi (mille in meno). In un momento di scarsità di manodopera per diversi tipi di profili, da quelli più qualificati a quelli meno qualificati, oltre che di crescita delle dimissioni, è evidente che i datori di lavoro offrano più di prima i contratti a tempo indeterminato come elemento di attrattività di nuovi candidati. E le stabilizzazioni interne dei dipendenti che hanno un contratto a termine servono a non perdere lavoratori con competenze già formate, evitando che vadano da qualche altra parte. Il rischio è che ora, per effetto della maggiore flessibilità voluta dal duo Calderone-Meloni, questa tendenza possa invertirsi, colpendo ancora una volta i più giovani e le donne. Con l’aggravio che le nuove causali potrebbero di nuovo far aumentare i contenziosi in tribunale come accadeva in passato, quando bastava un errore formale per presentarsi davanti al giudice. Sembra che questo governo sia nostalgico, anche delle vecchie liti in tribunale. Il problema principale del nostro mercato del lavoro (ma non solo, anche altri Paesi Ocse hanno gli stessi problemi) continua ad essere l’ aumento delle diseguaglianze che aumentano altresì le distanze retributive e peggiorano drammaticamente le condizioni di lavoro. I dati parlano chiaro. Siamo un Paese con pochi occupati e una peggiore qualità dell’impiego, sia in termini di precarietà che di part time involontario. E la penalizzazione per le donne e i giovani è più elevata. “Il Primo Maggio è la festa della dignità del lavoro”, fondamento della nostra Repubblica, secondo la Costituzione, ci ha ricordato il presidente Mattarella. Ma proprio su quantità e qualità del lavoro siamo la retroguardia nel G7, in Europa e nell’Ocse. Solo il 60,7% della popolazione fino a 64 anni lavora. Siamo ultimi nel G7, penultimi in Europa e tra i Paesi Ocse insieme con il Costarica, dopo di noi solo la Turchia. E siamo sotto non di poco, di ben 12 punti, rispetto alla media del G7 e di 9 rispetto all’Ocse. E non è dovuto solo al nostro basso tasso di occupazione femminile. La distanza dalla media G7, in questo caso, è più alta, 16 punti, e più di 10 dall’Ocse. Ma il nostro tasso di occupazione maschile è il peggiore dei Paesi Ocse, insieme alla Spagna, siamo gli unici due Paesi che non raggiungono il 70%. Sopra di noi Turchia, Colombia e Cile. E l’occupazione giovanile? La situazione è ancora peggiore. Il tasso di occupazione dei giovani fino a 24 anni è al 20%. Ultimi nel G7, penultimi tra i Paesi Ocse. La distanza dagli altri è enorme, 27 punti sotto la media G7 e 23 punti sotto quella Ocse. Negli Usa i giovani lavorano nel 51% dei casi, nel Regno Unito nel 54%, in Australia nel 66%. E vediamo due aspetti della qualità del lavoro. La percentuale di part time, 17%, è simile a quella di G7 e Ocse, tranne per le donne. In questo caso è più alta di 5 punti percentuali, causa di più bassi salari. Ma il part time non è, nel nostro caso, strumento di armonizzazione dei tempi di vita, perché per il 61,7% è involontario, non voluto da chi lo usa, contro il 17% dell’Ocse. Siamo tristemente al top della classifica. Quanto al lavoro a tempo determinato, siamo al 16,4%, 5 punti sopra all’Ocse, ma tra i giovani arriviamo al 61,7%, 37 punti sopra, e 42 per le giovani, dietro di noi solo Spagna e Slovenia. Il Mezzogiorno presenta criticità su tutti i punti, tasso di occupazione più basso, 47,1%, ancora di più per donne e giovani, precarietà più alta e part time involontario. I dati parlano chiaro. Noi, concentriamo tutte le criticità. Come detto siamo un Paese con pochi occupati e peggiore qualità del lavoro, sia in termini di precarietà che di part time involontario. Dove 4 milioni di lavoratori guadagnano meno di 12 mila euro lordi l’anno. Un Paese dove la penalizzazione per donne e giovani è più elevata. E, il dato positivo dello 0,5% di crescita del Pil non deve farci dimenticare questa situazione. Per questo alcuni interrogativi sono d’obbligo sulle misure che si stanno adottando. Se abbiamo il tasso di occupazione più basso di tutti i Paesi G7, europei e Ocse, possiamo rinunciare anche a un solo euro del Pnrr? Se abbiamo un livello di occupazione così basso può essere colpa dei cittadini che non si danno da fare? E, soprattutto, è corretto rivedere al ribasso le misure di contrasto alla povertà, con il ridimensionamento del reddito di cittadinanza? Se abbiamo una precarietà già alta, specie per giovani, donne e Sud, possiamo accentuarla con i voucher e il rischio di eliminazione de facto del lavoro stagionale? Se abbiamo una spaccatura così grave tra Nord e Sud, possiamo procedere con l’autonomia differenziata? Certo, con la maggioranza parlamentare tutto si può fare. Ma dobbiamo fare i conti con la realtà documentata dai numeri. E il governo Meloni non lo sta facendo, non sta imboccando la strada per sviluppare il lavoro con dignità. Se continuiamo così, aumenteranno ulteriormente le diseguaglianze e diminuirà ancora la coesione sociale. Basta pensare ai nidi. Già l’obiettivo di bimbi al nido previsto dal Pnrr era basso, perché doveva raggiungere il 33% dei bimbi. Figuriamoci se lo ridimensioniamo o lo rinviamo “all’anno del mai”, come tutte le politiche che dovrebbero mettere al centro l’occupazione femminile. Con buona pace delle misure per incrementare la natalità… Vale chiedersi ma la Premier e il suo governo che idea del Lavoro hanno in mente? E ancora, il governo sa cos’è la dignità del lavoro o meglio dei lavoratori?

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