Politica: lo stile minoritario della politica italiana e le contraddizioni tra gli schieramenti, rendono impossibile l’alternativa al populismo che trasversalmente colpisce tutte le forze politiche italiane. Nonostante la Meloni non sia attrezzata a governare, con gli alleati imbarazzanti, che si ritrova, un tentativo è in corso…

5 Stelle e Terzo polo cercano un risultato elettorale nelle prossime elezioni regionali di Lazio e Lombardia per acquisire una leadership a spese del Pd e di Forza Italia, considerate ormai forze politiche in via di estinzione.  Calenda, Renzi e Conte non hanno interesse a contrastare la destra. Vogliono comandare al Centro e a Sinistra impedendosi  vicendevolmente la ricostruzione di uno schieramento di centrosinistra. Campioni nel dividersi. Il Paese è allo stremo e la destra di F.d’I. acquisisce consensi e credibilità per mancanza di una vera opposizione… 

Giorgia Meloni prova a governare, ma non ha una classe dirigente adeguata alla complessità del compito, e del resto non può averla perché è diventata la leader del primo partito italiano proprio perché in questi anni si è guardata bene dal proporre agli elettori cose sensate, realizzabili e meno che strampalate. Meloni ha fatto l’opposizione a Mario Draghi, alle operazioni europee di salvataggio del nostro paese e al piano di ripresa nazionale finanziato da Bruxelles, un triplete da irriducibile leader antitaliano più che sovranista. I suoi alleati poi sono alla frutta, chissà come si scrive “frutta” in cirillico, ed è inutile soffermarcisi se non per ribadire che sia la Lega sia Forza Italia sono un motivo di imbarazzo nazionale senza precedenti e per questo meritevoli di rimanere ai margini del consesso civile. Il centro liberal democratico di Carlo Calenda e Matteo Renzi è ancora da costruire ( e sul fate presto, non si può contare!) e i Cinquestelle sono i Cinquestelle, ovvero una fiction sudamericana trasmessa in streaming dentro una fabbrica di bot foggiani e associati. Sia i Cinquestelle sia Renzi e Calenda stanno provando a scalare il Partito democratico, ovvero l’unico partito costituzionale e repubblicano del paese, senza il quale negli ultimi dieci anni l’Italia sarebbe affondata nei debiti e nel ridicolo. Che qualcuno oggi stia pensando di mangiarsi a colazione il Pd non è la misura della mitomania della politica italiana, semmai è la stravagante gestione del Pd post renziano. Il Pd di Renzi ha preso sia il 40 per cento sia il 18 per cento dei voti degli italiani e ha governato da solo per cinque anni. Piaceva o no, quel Pd aveva l’idea precisa, mutuata dal New Labour blairiano e dal progressismo democratico obamiano, di cavalcare l’innovazione tecnologica e di gestire i cambiamenti conseguenti sociali, probabilmente sottovalutandone la portata, con l’obiettivo di conciliare meriti e bisogni al fine di ottenere una società più affluente e più giusta. Una visione criticabile quanto si vuole, ma capace di individuare un orizzonte politico. Contro il progetto di Renzi si è schierata la cosiddetta “ditta” del Pd, il gruppo dirigente romanocentrico che ha solleticato quegli antichi istinti della base che erano stati sacrificati all’idea fondativa del Pd. Appellarsi agli istinti della natura post-comunista, è stato un modo per fomentare una grande mobilitazione militante e facilitare la cacciata dell’usurpatore fiorentino (il quale nel frattempo aveva fatto di tutto e anche di più per meritarsi l’imperituro risentimento dei suoi ex compagni). Il problema della “ditta” è stato quello di non aver offerto una visione alternativa a quella renziana, oltre a quella tattica e precisa di sbarazzarsi di Renzi. Bene e la sinistra oggi che fa? Intanto non è chiaro cos’è la sinistra italiana oggi. Neppure questa destra arrembante con il suo estremismo la definisce, almeno per differenza. Le categorie centenarie non aiutano: il massimalismo storico si è ridotto a un antioccidentalismo residuale che vede l’imperialismo solo a Washington e non a Mosca; il riformismo è stato velocemente sostituito dall’opportunismo tattico, con il Terzo Polo interessato soltanto a trovare uno spazio per giocare tra le linee, sfuggendo alla logica dei campi e a un’identità certa. Riconquistato il Pd in nome dell’orgoglio della sinistra-sinistra – che è un altro modo per definire i nostalgici del Pci con tutto l’arrugginito armamentario anticapitalista, antioccidentale e antiamericano dei bei tempi andati – la narrazione “nativa democratica” del Pd e la strategia veltroniana della “vocazione maggioritaria” non sono state più credibili né spendibili né utilizzabili. L’idea originaria del Pd non è stata sostituita neanche da una specie di neo-rifondazionismo pidiessino che perlomeno sarebbe stato coerente, sebbene fuori sincrono con la storia, ma invece si è tentato di tenere insieme tutto e il contrario di tutto col risultato di perdere l’anima e smarrire l’identità. Niente di tutto ciò, per quanto deprecabile e masochista, è però paragonabile alla sciagurata e offensiva decisione presa da Zingaretti e confermata da Letta, sempre in funzione anti Renzi, di sottomettersi all’egemonia subculturale di Giuseppe Conte e dei populisti grillini. Una tragicommedia che nel finale ha visto l’interruzione temporanea dell’alleanza con i Cinquestelle poco prima delle elezioni, riservandosi di riattivarla dopo la sconfitta elettorale, e si è perfezionata con il taglio dei rapporti con la sponda liberal dell’area anti sovranista e con la celebrazione dell’avversaria Meloni quale unica interlocutrice degna di questo nome, salvo poi definirla un pericolo letale per la democrazia senza però aver costruito il fronte antifascista per fermarla, perché in fondo l’obiettivo politico primario di queste elezioni era quello di far fuori Renzi e i riformisti (soprattutto quelli del Pd) e di mantenere per quanto possibile quel piccolo o grande potere che consente di scegliere chi va in Parlamento, chi piazzare nelle municipalizzate, chi far gestire la Festa del Cinema. Questo capolavoro del Pd sarà studiato nelle scuole di formazione politica di tutto il mondo, forse anche dagli studenti di Science Po, ma prima di immortalarlo nei manuali universitari c’è ancora da assistere all’epilogo. A febbraio, infatti, ci saranno le primarie per la guida del Pd e le elezioni in Lombardia, la regione locomotiva del paese. La sfida interna è tra una candidata non iscritta al Pd, ma sostenuta dalla ditta e dall’ala sinistra, Elly Schlein, e un dirigente di partito come Stefano Bonaccini che al momento non sembra ancora pronto a scegliere la strada da proporre ai suoi elettori, anche perché per vincere le primarie il suo naturale riformismo emiliano dovrà diluirsi nel populismo meridionale di Michele Emiliano e di Vincenzo De Luca col rischio di non apparire credibile. Una vittoria di Bonaccini rischia quindi solo di allungare l’attuale agonia del partito senza più anima. La proposta da collettivo studentesco contro il «mantra neoliberista della disintermediazione “di un eventuale Pd di Elly Schlein, di Peppe Provenzano e di Brando Benifei, ma anche di Pierfrancesco Majorino, candidato alla presidenza della Lombardia e al terzo posto in classifica, è destinata invece a conquistare molti cuori su Twitter e il collegio di Instagram ma inesorabilmente anche a consegnarsi al populismo di Conte e a perdere l’unico blocco sociale rimasto fedele al Pd, cioè quello composto dalla nuova borghesia cittadina e dalle classi affluenti che vivono nelle zone a traffico limitato. Col Pd guidato da chi dileggia i suoi elettori («ztl», «Milano non restituisce»), quelli come Calenda, Renzi e tutti gli altri che si candidano ad offrire agli elettori un’alternativa al bipopulismo hanno finalmente l’occasione unica di costruire un vero partito liberal e progressista, repubblicano e atlantico, popolare ed europeo. Un’alternativa vera e seria al bipopulismo che accelererà l’irreversibile involuzione del Pd da splendido partito a vocazione maggioritaria ad alleato strategico dei Cinquestelle, giù giù fino a trasformarlo in una tenace e combattiva corrente di minoranza del populismo di Conte… Dopo dieci anni, è ora che la Lombardia torni a crescere, dice Letizia Moratti. La candidata governatrice della Regione rivendica il suo profilo da tecnico e racconta lo sgomento per una «destra-centro» in cui non si riconosce più. La proposta di un’autonomia con governance intermedie e lo sguardo all’Europa, l’approccio «one health» per rilanciare la sanità. «Sono Letizia Moratti, risolvo problemi ». In un dialogo con Sergio Scalpelli, l’ex sindaca di Milano rivendica l’«onestà intellettuale» alla base della sua candidatura come governatrice della Lombardia. Racconta la delusione per la metamorfosi della «destra-centro» in cui non si riconosce più, ma anche l’incapacità del Pd di abbandonare le «logiche di appartenenza» e dialogare, perché sono «schieramenti superati». Moratti, da tecnica, è più interessata al futuro della «sfida più grande» e cioè «avvicinare mondi complementari». La coerenza, «importantissima», è quella dei valori: riformisti, popolari, liberali, della dottrina sociale della Chiesa. «Ritengo di essere coerente, mi sono trovata in un quadro completamente mutato – spiega –. Non rinnego nulla della mia presenza come tecnico in governi di centrodestra. Per la verità, ero stata chiamata anche da un esecutivo di centrosinistra, non ho accettato per motivi personali. Sono stata chiamata per risolvere problemi, come spesso capita a noi donne». Il centrodestra? «Non è più centrodestra. È una destra con un po’ di centro, molto poco. A volte si ritrova su posizioni filo-Putin o troppo vicina a un’Europa sovranista. In quella “destra-centro” io non mi ritrovo. Sono felice di aver scelto di candidarmi con una lista civica, appoggiata dal terzo polo». Moratti cita il trentasette per cento di astensione dei sondaggi: il Pirellone è contendibile. Lo sarebbe di più se il Pd locale non fosse rimasto ancorato a logiche del passato, al ricordo della vittoria di Pisapia alle Comunali. «Mai sarò nel Pd, sarebbe contrario alla mia storia, ma che ci possano essere convergenze con un Pd riformista credo sia necessario per il bene del Paese». Prima dell’estate, dice, aveva cercato di stabilire un dialogo con i dem su temi «identitari per loro» come ambiente, lavoro, sanità. Niente da fare, si rammarica. Moratti difende il suo lavoro come assessore regionale, chiamata a salvare il Welfare dopo la stagione di Giulio Gallera (ricordate l’indice Rt a 0,5 e le due persone nella stessa stanza necessaria per un contagio?). Da fixer, Moratti ha creato una mappatura delle liste d’attesa dove non esisteva, i resoconti quotidiani della sua task force. «Per i ricoveri chirurgici oncologici, il rispetto dei tempi target era del sessanta per cento. Una situazione vergognosa. Quaranta persone su cento erano operate fuori tempo massimo, questo vuol dire vita o morte». Alla fine del mandato, quella percentuale è salita all’ottanta per cento. Vuole riprendere da dove si è fermata, nel rilancio della sanità territoriale. «Con il governo Draghi –svela – era pronto un documento da portare in Cdm per rivedere la disciplina dei medici di medicina, dando diciotto ore aggiuntive alle Regioni, per indirizzarli là dove servono. Penso ai quartieri disagiati, alle periferie e ai Paesi isolati delle valli. Sarà una mia battaglia con questo governo per implementare un accordo che era già firmato dalle parti sociali». Per questo, sì al Mes, anche se in debito, perché «non ha senso non accedere a quelle risorse». Un approccio one health: salute della persona, del pianeta, e benessere animale. Regione Lombardia«Dobbiamo far tornare a crescere la Lombardia perché senza crescita è più difficile colmare le disuguaglianze. Da dieci anni non cresce, secondo molto indici». Lei cita digitalizzazione, ricerca e sviluppo. Va fermato il consumo di suolo, vanno date prospettive a 114 mila ragazzi neet, che non studiano né lavorano. L’autonomia va vista in modo innovativo. «Penso a un’autonomia che non sia solo tra governo e Regioni, ma passi ai territori. Una regione con dieci milioni di abitanti è come un medio Stato europeo, come Svezia o Portogallo, servono forme di governance intermedie. Le province avevano una loro logica di aggregazione di piccoli Comuni, che sono oggi in estrema difficoltà, non hanno un geometra per portare avanti i progetti del Pnrr». La delusione dei territori, su tutti quelli del fu Carroccio, dipende anche da questo. «La Lega ha degli ottimi amministratori locali, credo ci sia disagio da parte loro perché non sembrano aver trovato risposta alle loro problematiche. I sindaci sono persone molto concrete, non credo apprezzino una Lega che tratta tematiche lontane dalle loro necessità quotidiane». Infine, la Lombardia è ultima per investimenti in Cultura. «Torneremo anche lì a volare» promette Moratti, che di mestiere risolve problemi. Renzi, leader di Italia Viva spiega che la federazione con Azione dovrà essere aperta a tante realtà e non dare una sensazione di chiusura. E tra due anni: «Guardiamo al prossimo biennio con la prospettiva di essere primi nel Paese» «Il nostro obiettivo è fare bene con il Terzo Polo da qui alle elezioni europee, dove possiamo puntare a un grande risultato: possiamo essere i primi in Italia e tra i primi in Europa. Se facciamo tutto per bene o il governo Meloni si dà una mossa o salta in aria». Matteo Renzi indica la direzione che il Terzo Polo deve seguire nel prossimo biennio: «Nel 2023 avremo le nostre occasioni, tornerà la Leopolda, faremo iniziative con i più giovani, giocheremo le nostre partite sul territorio, ma sempre in vista delle europee del 2024». «Oggettivamente i risultati delle elezioni politiche sono negativi, ma dipingono un quadro nel quale Milano può giocare un ruolo strategico nei prossimi anni», dice Renzi. «Le città hanno un’anima e gli Stati nazione sono in crisi, la politica quindi passa dalle città, e prima o poi dovrà passare anche da Roma, e poi da Firenze e Venezia e da Napoli. Poi chiaramente Milano è la città in cui si giocherà la partita del 2024: se Milano fa Milano il governo Meloni va a casa». Guardando in casa Terzo Polo, la prospettiva della costruzione di una formazione politica unica, solida, riformista e liberale, deve essere la Stella Polare. Ma non si può sperare di creare un progetto di ampio respiro ragionando solo in termini di Azione e Italia Viva. Il 4 dicembre ci sarà l’assemblea che metterà in moto il progetto di federazione di Azione e Italia Viva, con l’idea di aprire anche a formazioni politiche diverse dai due partiti: «Io credo che se quest’area di cui stiamo parlando rimane la semplice somma di Azione e Italia Viva è un buon passo in avanti ma non basta. Per questo preferisco la federazione e non solo il partito. Perché questo è qualcosa di più, è un progetto europeo». Una sorta di Renew Italia, modellata sull’esempio di Renew Europe, in cui «deve starci anche altra gente, non abbiamo le porte chiuse, teniamo aperte porte e finestre, perché le persone possono entrare e starci da protagonisti. Non chiederemo da dove vengono, che è una visione molta angusta della politica: il ragionamento è dare uno spazio di crescita a un’area riformista che può essere molto forte e crescere fino a diventare maggioritaria da qui al 2024». Nel frattempo, si può fare l’opposizione in modo intelligente, non con una contestazione a oltranza e senza logica. «Al governo Meloni diamo e daremo tutto il rispetto istituzionale – spiega il fondatore di Italia Viva – solo che sta mostrando una preoccupante debolezza: non c’è un argomento sul quale non torna indietro. Prima erano i rave party, poi l’immigrazione, dopo ancora sulla legge di Bilancio. La sintesi è che la Meloni arriva al 2024 col fiato corto». Ma per sconfiggere il centrodestra politicamente e alle urne c’è bisogno soprattutto di un atteggiamento proattivo: «Dobbiamo proporre una nostra visione del mondo, di un nuovo mondo, di un Paese che punta sulla cultura, un Paese che sceglie chi innova, un Paese che guarda con preoccupazione agli emigranti e non con odio al barcone con trecento migranti mandato verso la Francia». Lo zenit a cui far riferimento è sempre l’Europa, Bruxelles, quindi guardare a un mondo in costante mutamento, partendo da quel che succede tra Stati Uniti e Cina, al Giappone, al Regno Unito, all’Indonesia, al post guerra in Ucraina, a come cresce l’Africa e che tipo di difficoltà vive l’America Latina. «La politica è globale, ditelo ai sovranisti che le partite si giocano molto più a Bruxelles che alla Garbatella. La nostra sfida è con Renew Europe e Emmanuel Macron: noi dobbiamo stare in questo scenario globale e poi giocare la nostra partita in Italia, con i temi che sono quelli della politica internazionale, a partire dal nucleare pulito, senza il quale non si fa la transizione energetica», dice Renzi. «La Moratti – spiega il leader di Italia Viva – si è staccata da chi mette in dubbio i vaccini e chi fa il populista, e questo era un enorme assist per tutti quelli che stanno all’opposizione, un assist degno di Garrincha, una palla che basta spingerla in porta ed è gol. nvece il Partito democratico ha scelto di non seguire questa strada. Ma se in Lombardia non vuoi prendere i voti del centrodestra significa che in Lombardia non vuoi vincere. Se tu vuoi impedire al centrodestra di vincere qui o impedisci agli elettori di votare, ma non dovrebbe essere costituzionalmente possibile, oppure devi andare a prendere dei voti dalla destra, ma non quelli di chi dice che la pacchia è finita con l’Europa, servono i voti dei riformisti che con i populisti si sentono a disagio». Se in Lombardia il Pd ha scelto di allearsi con i Cinquestelle, che sul territorio sono insignificanti, nel Lazio, dove il M5S è forte, il Pd ha scelto di stare alla larga dai Cinquestelle: «Loro non prendono la palla al balzo della Moratti ma si fanno emendare da Conte. Un partito che è una certezza: di fronte a un bivio prende la strada sbagliata. Un Tom Tom guasto della politica», ironizza Renzi. Aggiungendo: «Il libro il “Mostro” è servito per spiegare che quello strano non sono io. Quello che ho passato io e quello che hanno passato i miei genitori non è normale: la mia scommessa è stata aver dovuto fare quel libro lì, con dovuto aggiornamento, per non doverne più parlare». Francamente per dire quel che dice, senza farsi capire su quel che vuole, se non che qualsiasi sommovimento politico che lo vede presente, è un pezzo importante per un rinnovato dialogo non ideologico sulla politica… dove la diversità è che la politica è lui stesso, sciolto da qualsiasi vincolo di parte, per cui, se c’è lui, va tutto bene e anche la destra può dare un contributo al riformismo… mentre la sinistra assolutamente no, perché sempre lui non è disposto a governare con la Sinistra che non è mai riformista… è il solito vagheggiamento: “io esisto, io sono il più bravo, quelli che pensano di dire come la pensano loro su quel che penso io, non capiscono una minchia… io sono il figlio di… non avrai altro … all’infuori di me! Zitto e mosca non vedi l’aureola di santità che mi cinge la testa? Se non credi in ciò non mi meriti e io ti distruggerò… Pd va de retro, sei il “male assoluto” e io il “salvatore”… Rinchiudetelo, assieme a Calenda che anche lui è sempre più storto e sostiene che aiutare la Meloni a come governare, non è cambiare schieramento politico, ma è riformismo di governo. Hoo… mamma mia… ma siamo sicuri che stiano bene… i due gemelli diversi allattati dalla Lupa Littoria sono ubriachi di sé stessi. L’impressione è che la politica italiana sia ormai senza alcuna speranza… Povero Paese, povero popolo…

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