Politica: Media e Democrazia, quel virus fra informazione e politica. Perché, nell’età dell’incompetenza la Stampa, i Media e i Social, danno spazio a legioni di imbecilli?

Parte seconda…

La colpa della disinformazione non è come spesso si ritiene esclusivamente di internet. E ognuno di noi può combattere questa battaglia. Matteo Grandi, con il saggio: “La verità non ci piace abbastanza. Il virus della disinformazione fra bufale, web e giornali”, spiega che “difendersi realmente dalla disinformazione non potrà mai essere un’azione davvero collettiva, ma dovrà essere necessariamente un esercizio individuale”. Media, internet, politica. Oggi la disinformazione può nascondersi ovunque. E probabilmente se l’ambiente che viviamo è così inquinato le responsabilità sono molteplici e non esiste un unico colpevole. Neppure internet, che pur essendo lo strumento che meglio si presta a veicolare la disinformazione e quello sul quale è più facile (ed auto-assolutorio) scaricare le colpe, ma non è l’unico responsabile dell’uso distorto che ne viene fatto. D’altronde esiste anche un’altra faccia della medaglia: l’importanza della rete nel veicolare denunce, smascherare falsità, permettere di risalire direttamente alle fonti; senza contare l’enorme potenziale del web al di fuori degli aspetti strettamente legati all’informazione. E proprio per questi motivi proprio internet continua a essere anche uno strumento fondamentale nel contrasto alla disinformazione, la quale non è nata con la rete ma dalla rete è stata disvelata. Il web ha reso soltanto più visibile qualcosa che già c’era. Paradossalmente, prima dell’avvento dei social non solo avevamo meno consapevolezza del problema, ma anche meno strumenti per poterlo contrastare. È pertanto bene non farci suggestionare dall’effetto prospettico che, come nei più classici trompe-l’oeil, rischia di trarre in inganno la nostra percezione facendoci credere che la colpa sia di internet. La verità è che con la rete abbiamo semplicemente accesso a molte più informazioni, ivi comprese bufale e disinformazione. E al tempo stesso, grazie al web, abbiamo un maggior numero di strumenti per avvicinarci a un’informazione più affidabile. E questo probabilmente può aiutarci a superare anche i nostri stessi pregiudizi. Ed è pure il punto che ci fa approdare a un ultimo e decisivo concetto. Il sistema mediatico non ci tutela dalla disinformazione. È giusto immaginare una nuova forma di educazione digitale che sia in grado di offrire gli strumenti per orientarsi meglio in rete, per dubitare, per non cadere in trappola, per sapere come e cosa cercare quando si hanno dei dubbi sulle informazioni che ci vengono date. Ma altro non è possibile ottenere. Non certo una legge contro le fake news, che oltre a essere un pericoloso strumento di controllo nelle mani dello Stato, rischierebbe di stabilire un confine fra il vero e il falso andando nei fatti a ricostituire i tribunali della verità. E l’informazione è una materia troppo viva per essere divisa con un taglio netto, magari con una sentenza, tra vero e falso. Esiste anche l’incertezza, esistono le zone grigie, esiste un concetto meno filosofico e meno assoluto della verità ma sicuramente più rispondente a quelle che dovrebbero essere le nostre aspettative nei confronti di chi fa informazione: la veridicità. E sgombriamo subito il campo da un’illusione: da questa deriva non ci tutela neanche l’informazione tradizionale, sempre più proiettata verso forme di sensazionalismo e titoli clickbait che deformano spesso la verità sostanziale dei fatti, e che si stanno trasformando in una strategia mirata esclusivamente a “catturare” lettori e visite al sito, ma che nei fatti contribuiscono alla disinformazione generale. Il titolo clickbait è infatti un titolo esca, spesso fuorviante rispetto alla sostanza dell’articolo ma più che sufficiente ad alimentare il cortocircuito della disinformazione: basti pensare a quante persone si soffermano esclusivamente alla lettura dei titoli. Immaginate il danno se quei titoli non sono rispondenti al vero e si configurano come delle semplici esche. Ma c’è di più: il clickbait è una scorrettezza che, se da una parte contribuisce a disinformare, dall’altra tradisce il patto con il lettore, attirandolo in trappola con titolazioni che si rivelano poi molto distanti da quanto descritto all’interno del pezzo. E se il giornalismo perde di vista la sua funzione, che è quella di informare, in favore di una caccia senza regole alle visite al sito, l’informazione subisce un altro colpo da KO, e utenti e cittadini perdono quello che dovrebbe essere il primo presidio contro la disinformazione. Per questo motivo difendersi da questa deriva non può che essere un’azione individuale, una battaglia che dobbiamo affrontare da soli e per noi stessi. Magari acquisendo maggiore consapevolezza nell’uso virtuoso della rete come alleata in questa battaglia. Ovviamente questo non cancella il nostro diritto di pretendere affidabilità e credibilità da chi fa informazione, magari dei progetti mirati di educazione e interventi su algoritmi e bolle di filtraggio che rendano più trasparente il nostro rapporto con le notizie. Ma è utopistico pensare che le bufale possano sparire d’incanto solo perché c’è stata una presa di coscienza collettiva, o che con un’improvvisa presa di coscienza collettiva l’info-sfera si farà d’un tratto un luogo incantato di buona informazione. Difendersi realmente dalla disinformazione non potrà mai essere un’azione davvero collettiva, ma dovrà essere necessariamente un esercizio individuale. Su base collettiva ci può essere una presa di coscienza propedeutica a innescare una maggiore attenzione e azioni più concrete in difesa della buona informazione, ma se il nostro obiettivo è migliorare il nostro habitat informativo e contrastare quotidianamente la disinformazione questo non può che essere un impegno individuale. Attraverso conoscenza e consapevolezza, grazie alle verifiche, cercando di attingere al maggior numero di fonti, rivedendo i nostri pregiudizi, allargando i canali di informazione a cui siamo abituati. Non si tratta di uno sforzo da poco anche perché implica un ribaltamento assoluto del nostro approccio di fruitori passivi dell’informazione. Un approccio che oggi non basta più, e che deve farsi nuovo paradigma. Se vogliamo essere davvero informati dobbiamo diventare fruitori attivi: cercando, dubitando, verificando…                               (fine)

E’ sempre tempo di Coaching! 

Se hai domande o riflessioni da fare ti invito a lasciare un commento a questo post: riceverai una risposta oppure prendi appuntamento per una  sessione di coaching gratuita

0

Aggiungi un commento