Politica: Meloni il governo della rivalsa. Si mette la Storia in tasca e dimostra di volersi prendere il Paese più che governarlo. Cosa c’è dietro al voto degli italiani per Giorgia Meloni…

Da quando è diventata premier, la leader di Fratelli d’Italia si sente nel “momento pigliatutto”, vive con un certo fastidio le critiche e vede le opposizioni come un intralcio. Come da tradizione illiberale di estrema destra, dopo sei mesi dall’insediamento del governo, l’impressione è quella che Giorgia Meloni e i suoi ministri (di Fratelli d’Italia soprattutto) più che governare il Paese vogliano prendersi il Paese. Che sentano insomma di avere, per usare una formula che fu di Gramsci: «la Storia in tasca»; che interpretino il voto del 25 settembre non come una vittoria elettorale ma come una svolta storica, un girare d’angolo radicale, se non irreversibile, almeno di lunga durata. Questa sensazione non è data soltanto dalla bramosia di arraffare tutto l’arraffabile in termini di nomine come si è visto nelle scorse settimane – ma soprattutto dal postulato illiberale che la premier ha formulato sia in Parlamento, quando, rivolta alle opposizioni, le ha messe in guardia dall’attaccare troppo il governo perché così facendo si fa del male alla Patria. Vale altresì per il recente 25 aprile, che per Meloni non prevede la parola “antifascismo”. Nel suo lungo intervento sul Corriere della Sera la premier mette insieme alcuni capisaldi del revisionismo della destra erede del postfascismo ma non include quel lemma del vocabolario civile che è fondamento della Repubblica. In sostanza la presidente Meloni non ha ascoltato il consiglio che le aveva rivolto qualche giorno prima Gianfranco Fini, innovatore della destra postfascista: riconoscere “il valore storico dell’antifascismo come momento di ripristino delle libertà democratiche” (principio presente nelle Tesi di Fiuggi) e definire il fascismo come “male assoluto”. Nella riflessione di Giorgia Meloni questi due passaggi essenziali mancano e sembrano proprio non recuperabili. E arriviamo a queste ultime ore, riguardo al Sindacato e alle misure sul lavoro che il Governo ha emanato ieri nella giornata del 1° maggio. Lo schiaffo con cui ha sferzato il leader della Cgil poche ora prima del confronto con le Confederazioni sindacali CGIL, CISL e UIL di sabato sera. Lo scontro di Palazzo Chigi con i Sindacati Confederali dice molto del perché Giorgia Meloni tenga tanto al decreto del Primo Maggio . Una riforma che la premier ha fortissimamente voluto presentare nella data simbolica della Festa del Lavoro, per mostrare «concretamente» agli italiani che il tema del lavoro non è appannaggio solo dei Sindacati. Meloni ha ritenuto ingiusto l’attacco di Landini e lo ha detto forte, perché «non merito l’accusa di essere un’ipocrita». Poi si è chiusa nella sala Verde con uno Sbarra, Segretario Cisl già in versione «pompiere», con Bombardieri Segretario Uil, che ha fatto parlare una precaria di 36 anni e con il segretario della Cgil Landini. L’incontro inizia come sempre in un clima «cordiale» e si chiude due ore e mezzo dopo anche con parole concilianti della Premier, nel tentativo di spazzar via gli echi di un battibecco piuttosto animato. Landini ribadisce tutto il suo fastidio per la scelta di riunire il Consiglio dei ministri il Primo Maggio e la Premier Meloni, che gli interlocutori definiranno «puntuta», difende la posizione marcando gli accenti. Rivolta a Landini: «Per lei  approvare il decreto il 1° maggio è un affronto ai sindacati, per me invece è un modo di partecipare alla Festa dei Lavoratori con qualcosa di buono. Siamo su mondi diversi». È la coda del botta e risposta che aveva riscaldato il clima prima del vertice, con Landini che bocciava come «arrogante e offensiva» la riunione del governo nel dì della festa del lavoro e la premier che bollava come «incomprensibili» le parole del segretario generale. Finché, nel bel mezzo dell’incontro, Meloni si sfoga: «Non è una mancanza di rispetto un Cdm il primo maggio per tagliare il costo del lavoro. È un segnale, una mano tesa. E mi sarei aspettata un “bravi”! Perché sul taglio del cuneo credo che siamo d’accordo». Ma veniamo al dunque. Ora, è più evidente che mai, la coincidenza tra governo e Paese è tipica della concezione autoritaria e illiberale di estrema destra, e la Meloni non ha alcuna intenzione a riguardo di cambiare la sua postura. Purtroppo, pare che questo comportamento stia entrando nella testa degli italiani – come se il governo non fosse “parte” del gioco politico, essendo semmai il Parlamento la sede dell’unità nazionale rappresentata poi dal presidente della Repubblica che non a caso Meloni vorrebbe diventasse anch’egli una “parte” (Presidenzialismo) a seguito di un duello elettorale. Nel ragionamento della Presidente del Consiglio, dunque, chi attacca il Governo attacca il Paese: «Fermatevi un attimo prima»; ma che significa? E’ il caso del Def, nel giovedì nero del governo, quando sono mancati i numeri alla Camera dei Deputati per la sua approvazione, recuperata di corsa il giorno dopo. Siamo all’interno di una logica pugnace che vede l’Italia spesso contro altri Paesi, la ragione per cui è necessario che il governo abbia dietro di sé tendenzialmente tutti i cittadini. Quelli di loro (partiti d’opposizione – Sindacati – Associazionismo), che si rifiutano di sostenere l’Esecutivo sono pertanto tacciabili di «slealtà» (è il termine che ricorre nel suo fortunato libro “Io sono Giorgia”): quello che in tempo di guerra diventa  “tradimento”, insomma. Anche questo andirivieni implicito tra condizione di pace e stato di guerra è tipico del pensiero reazionario, giacché i veri liberali non si sognerebbero mai di mettere in guardia l’opposizione o i sindacati dal rischio di indebolire l’Italia con le loro critiche, perché per i liberali la dialettica democratica – anche aspra – è il lievito della democrazia. Da queste attitudini psicologiche e culturali discende il cipiglio arrogante della Meloni e dei suoi ministri che vivono le critiche con fastidio e la dialettica come un intralcio, le famose “strumentalizzazioni” anche quando si chiede ragione di una strage come quella di Curno ancora oggi, non spiegata. Non è il “lasciateci lavorare” del Berlusconi “uomo del fare” che faceva politica come nelle sue aziende e scambiava il Parlamento per il consiglio d’amministrazione della Fininvest: qui siamo davanti a una istintiva teorizzazione del primato assoluto dell’Esecutivo e alla tendenza a ridurre al silenzio chi la pensa diversamente, a una forse inconsapevole riscoperta dei teorici del governo forte dei primi del Novecento, da Gaetani Mosca a Roberto Michels. L’aggressività mostrata nei talk show dai politici di destra e dei giornalisti al seguito, sta lì a dimostrare un permanente rifiuto ad accogliere le posizioni altrui, mentre nel volto spesso corrucciato della Meloni (che nelle settimane scorse era sembrata più sorridente: ci saranno forse nuovi problemi?) si legge quella “voglia di rivalsa” dopo l’uscita da una storica condizione di minorità politica, quell’ansia di rivincita contro un destino sin qui cinico e baro, e quindi quella convinzione di essere nel «momento pigliatutto», come l’ha definito Flavia Perina (storica ex direttrice del Secolo d’Italia un quotidiano nazionale italiano, oggi on line, già quotidiano cartaceo. Nato nel 1952 a Roma come quotidiano vicino alla destra, nel 1963 divenne organo ufficiale del Movimento Sociale e dal 1995, successivamente alla svolta di Fiuggi, di Alleanza Nazionale), che poco concede agli alleati e nulla agli avversari… Nei fatti, da un lato si ostenta una sostanziale indifferenza per i discorsi altrui (si veda il pur abile discorso della premier al Congresso della Cgil), dall’altro una furia parlamentare degna di miglior causa (l’intemerata di Giovanni Donzelli contro il Partito democratico, l’atteggiamento di una Meloni urlante in Aula, il massacro di un provvedimento come quello del Partito democratico che avrebbe evitato ai bambini figli di detenute di stare dietro le sbarre. Il decreto Curno sull’immigrazione. La postura antieuropea («la pacchia è finita») con la non ratifica del Mes, il rinvio delle gare per i Balneari, l’atteggiamento sui tempi del Pnrr e nelle ultime giornate e preventivamente anche sul futuro nuovo patto di stabilità europeo ancora tutto da discutere… ma l’elenco sarebbe ancor più lungo. Se questo è il quadro politico e psicologico della nuova destra al potere bisogna chiedersi che fine abbiano fatto il liberalismo del centrodestra. Dove sono i garantisti? Dove sono quelli attenti ai diritti vecchi e nuovi? Che ne è dell’ala liberale che un tempo albergava in Forza Italia ma anche di un uomo come il Ministro della Giustizia Carlo Nordio? Tutti spariti, puf. Ridotti al silenzio. Non c’è spazio per altro che non sia la vera missione del melonismo: prendersi il Paese, più che governarlo. La convinzione della Meloni è che dietro di sé abbia l’Italia intera… ma è veramente così? Non c’è dubbio alcuno: al momento Meloni sta brillando come una stella, ma la sua luce potrebbe offuscarsi più o meno rapidamente… il motivo principale di questa luce è che Meloni ha a modo suo relativamente preso le distanze dal passato del suo partito. Ha dichiarato che il “fascismo è storia” e durante la campagna elettorale ha sospeso i membri del partito che continuavano a inneggiare ai leader fascisti (oggi sono già tutti tornati al loro posto). Meloni ha anche cercato di dimostrare che sarebbe una partner affidabile per gli alleati dell’Italia in Europa e Nordamerica. Per esempio, ha smussato un po’ le sue critiche contro l’Unione europea, sottolineando che vuole che il paese resti nell’eurozona. E, a differenza di molti altri leader di estrema destra in Europa, Meloni ha criticato apertamente Vladimir Putin e ha espresso sostegno all’Ucraina. Ma il motivo principale che fa dubitare che Meloni possa cambiare l’Italia più di tanto è semplicemente che non è poi né così popolare né così potente come si potrebbe pensare dalla sua vittoria elettorale. Ricordiamoci che alle precedenti elezioni politiche italiane, nel marzo del 2018, il Movimento 5 stelle ha sorpreso gli osservatori internazionali ottenendo quasi un terzo dei voti; Fratelli d’Italia di Meloni aveva preso solo il 4 per cento. Nei due anni successivi ben due governi sono caduti per via del caos e delle rivalità interne, rendendo praticamente impossibile per qualunque partito formare una maggioranza di governo unita. Tra tutte le opzioni, le principali fazioni del parlamento italiano si sono accordate nel febbraio del 2021 a formare un governo tecnocratico di unità nazionale sotto la guida di Mario Draghi, l’ex presidente della Banca centrale europea. Fratelli d’Italia è l’unico partito rimasto all’opposizione. Come hanno predetto molti all’epoca, quella scelta ha praticamente garantito il suo successo. Considerata la stagnazione economica e le difficoltà della pandemia che il paese ha subìto ultimamente, la rapida ascesa di Fratelli d’Italia alla fine non ha sorpreso nessuno. Questo suggerisce che la vittoria di Meloni non ha a che fare tanto con il passato fascista italiano quanto con la rabbia nuova che gli italiani hanno per il difficile presente del Paese. Ma con lo stesso meccanismo, la popolarità di Meloni potrebbe svanire quando dopo aver assunto la responsabilità di governo, sei mesi fa, nei prossimi mesi continui a tentare di dare risposte al Paese con dei semplici ‘pannicelli caldi’ e dalla direzione politica che punta l’indice contro il mondo del lavoro e lascia nelle ambasce occupazionali e/o economiche i lavoratori dipendenti. E così dopo avere tagliato i fondi ai pensionati e alla spesa sociale, ovvero a scuola e sanità, e dopo avere abolito l’unica misura a sostegno della povertà, cioè il reddito di cittadinanza, questo governo si accanisce contro i lavoratori che attendono contratti stabili e dignitosi, consegnandoli al precariato selvaggio in un paese con 4 milioni e mezzo di lavoratori poveri e con oltre 3 milioni di lavoratori precari che sono soprattutto giovani e donne”. In questo senso il destino dell’ultimo astro nascente della politica italiana è abbastanza indicativo: dopo il sorprendente successo del 2018, il Movimento 5 stelle ha perso metà dei suoi voti. Quindi anche la possibile lunga durata di un governo Meloni resta tutta da dimostrare. Per continuare a guidare la coalizione di maggioranza dovrà mantenere il sostegno di entrambi i suoi alleati: Salvini farà il possibile per tornare sotto i riflettori e probabilmente si scontrerà con Meloni sulla politica estera (lui, per esempio, è molto meno propenso a sostenere l’Ucraina), mentre Berlusconi (ormai infragilito dalle molte patologie che con l’età si sono palesate), dopo essere stato lui stesso premier per tre volte, il partito di Berlusconi si trova davanti un bivio: ritrovare la sua ragion d’essere nonostante la malattia del leader, o diventare la costola di Fratelli d’Italia… correndo il rischio di veder cannibalizzato quel che resta del partito, dentro il prevedibile conflitto tra i suoi assai più giovani alleati. Considerato quanto sono volatili queste personalità – e quanto in Italia si siano dimostrate instabili tutte le coalizioni in passato – la caduta di un governo Meloni tra uno o due anni  – non sarebbe affatto una sorpresa. La preoccupazione più imminente riguardo al nuovo governo italiano non è tanto la minaccia delle istituzioni democratiche né tantomeno un ritorno al fascismo. Preoccupa invece l’effetto che la politica di estrema destra avrà sui progressi comunque faticosamente raggiunti negli scorsi decenni sul piano dei diritti civili e sociali. Gli italiani del dopoguerra hanno vissuto e respirato politica come pochi altri. I principali partiti avevano milioni di iscritti. I comizi elettorali delle campagne elettorali attiravano folle oceaniche. Normalmente più del 90 per cento degli elettori si presentava alle urne. La posta in gioco politica sembrava esistenziale. Oggi, nonostante le apparenze, quei tempi sembrano proprio finiti. L’affluenza alle urne l’ultima volta il 25 settembre è stata inferiore al 70 per cento, il minimo di sempre. E nelle recenti Regionali (Lombardia -Lazio) la percentuale dei votanti è stata sotto il 50%. La maggior parte delle persone con cui parlo  personalmente non si aspetta un gran che dal governo Meloni e ormai, lo fa con una esausta tranquillità… meglio dire con serena rassegnazione. Una mia vicina di casa, una schietta settantenne che, ha sempre votato a sinistra, mi ha espresso il suo disgusto per Giorgia Meloni e la coalizione di destra al governo. Ma quando le ho chiesto se fosse preoccupata per quello che la leader di Fratelli d’Italia possa fare al paese, ha alzato le spalle e: “Alla fine questo governo non sarà poi così diverso da quelli precedenti”, mi ha detto. “Non riuscirà a risolvere granché. E poi cadrà”…

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