Politica: ragionamenti sulla crisi politica italiana e sul necessario rilancio di una cultura politica con al centro le questioni del lavoro e dell’ambiente per ritrovare una prospettiva ulteriore di sviluppo…

La discussione politica si accende sempre più attorno al fatto che c’è chi sostiene che “bisognerebbe garantire un reddito a prescindere dallo svolgere un lavoro”.  Personalmente e con tutta franchezza ritengo la questione un “non senso”. Chiediamoci cosa invece servirebbe per ridare dignità al lavoro creando nuove imprese e nuova occupazione?! Occorre ripensare il lavoro. E tre sono le considerazioni preliminari per tutti quelli che vorrebbero aiutare questa svolta politica oggi definibile come epocale o se preferite neokeynesiana si direbbe, dopo trent’anni di liberismo trionfante. Suggerisce uno che di queste cose se ne intende, l’ex Segretario Generale della CGIL Sergio Cofferati: “…che ripetere continuamente, come fosse un mantra, “Il lavoro al centro delle politiche, “Ripartire dal lavoro”, “Prima il lavoro, sono solo titoli che appaiono sempre più spesso sui giornali. E che i partiti, anche quelli non di sinistra, con le imprese e i sindacati sembrano tutti convergere sull’idea che, di fronte alle tante crisi che ci aspettano e alle emergenze in cui già viviamo: sanitaria, economica, inflattiva, energetica, ambientale, climatica, idrica; sia necessario fondare il baricentro di una economia più giusta e sostenibile su una nuova idea di lavoro”. A dire il vero c’è persino chi, dopo aver teorizzato e praticato la disintermediazione, ora dice che è necessario riscrivere un “Patto per l’Italia” tra le forze sociali come quello cui diede corso Aurelio Ciampi. Forse è il caso di dire: “ben caduto da cavallo sulla Via di Damasco!”. Personalmente condivido sia la necessità di ripensare il lavoro (e l’impresa) sia l’opportunità che le “parti sociali”, che conoscono meglio la materia, coinvolgano in questa riflessione politici e istituzioni, per evitare iniziative basate sull’idea, ormai tanto praticata quanto inefficace, degl’incentivi e dei “ristori”. La prima considerazione. È molto giusto e ragionevole quello che chiedono i sindacati in materia di lavoro, ma non basta. Ridurre le diseguaglianze, superare la precarietà, aumentare salari e diritti, cancellare la vergogna degli incidenti e delle morti sul lavoro, far crescere le competenze non sarà possibile, malgrado la loro buona volontà e l’impegno anche contrattuale, se non si riduce quell’ “esercito di riserva” (come direbbe Marx… mi scuso per la citazione, ma non ha nulla di vetero ed è alquanto attuale). Ovvero, se non cresce parallelamente la richiesta di lavoro e il numero delle persone occupate. Infatti, senza l’aumento degli occupati si accentuerà la concorrenza interna tra quelli che hanno un lavoro e tra chi un lavoro non ce l’ha (la riserva d’occupazione per l’appunto). Aumenterà ancora quindi il lavoro irregolare e il numero dei contratti “pirata” che legittimano quella concorrenza al ribasso, malgrado la buona volontà e le dichiarazioni di ciascuno. La sostanza è tutta qui, ed è persino banale: dar vita a un Piano del Lavoro che crei nuove imprese e nuova occupazione per i giovani e le donne è quindi il passaggio obbligato per restituire più dignità al lavoro, stesso anche a quello già esistente. Insomma, lo strumento principale per mettere il lavoro al centro di un nuovo sviluppo è una macro-politica economica che sostenga la domanda (soprattutto interna), favorisca gli investimenti pubblici e privati e crei nuove imprese e nuovo lavoro. Certo, è indispensabile anche una nuova spinta contrattuale e legislativa di tutela, ma è illusorio immaginare un ordine rovesciato delle cose: ricordiamoci che anche lo Statuto dei lavoratori è arrivato dopo decenni di crescita occupazionale e di lotte per il riscatto del lavoro, non prima. La seconda considerazione. Di che lavoro stiamo parlando? Abbiamo assistito negli ultimi decenni allo spostamento netto del peso tra industria e servizi sia in termini di occupazione che di Pil, a netto vantaggio dei servizi. Eppure, la cultura dominante a livello sociale sia sindacale, che imprenditoriale ed economica è rimasta centrata sul lavoro industriale, soprattutto su quello della grande industria manifatturiera. Non è su questo pur importante settore di attività che vanno indirizzate le politiche macroeconomiche di espansione di cui si accennava. Non manca solo “una nuova politica industriale”, bensì una ricostituzione, dopo anni di distrazione e abbandono, di un sistema allargato di Welfare per rispondere ai bisogni sempre più trascurati delle persone e del territorio in termini di presa in cura, prevenzione, assistenza, manutenzione, riduzione dei rischi. Quello del Welfare, val la pena ricordare, è un mercato economico enorme di cui l’Europa detiene da sempre una sorta di monopolio mondiale. Un mercato in cui si incontrano domanda e offerta di qualità, non un luogo di semplice assistenza pubblica del disagio. Parlare di Welfare non significa parlare esclusivamente di servizi universali gratuiti (finanziati attraverso il fisco) bensì di un sistema a regia pubblica in cui concorrano imprese pubbliche e private, non speculative e accreditate: con servizi erogati in gratuità, tariffa fissa, contributi legati al reddito, prezzi liberi, a seconda del tipo di servizio erogato. Durante il Covid e durante la crisi climatica la domanda di servizi alla persona e al territorio è cresciuta e sta crescendo esponenzialmente: ne può derivare, se ben gestita, una irripetibile occasione di sviluppo e di lavoro sostenibili non più orientati alla produzione prevalente di beni di consumo. Terza e ultima considerazione. Garantire una piena cittadinanza attraverso un reddito a prescindere è un non senso logico e politico insieme. Il reddito a prescindere si dovrebbe chiamare “di emergenza”, “di sussistenza” e non “di cittadinanza”. La nostra Repubblica non è (non dovrebbe essere) basata sui sussidi. La piena cittadinanza, per prevenire l’emarginazione sociale, è da sempre garantita da tre diritti fondamentali: la casa, la scuola, il lavoro. A prescindere dal certificato che ognuno ha in tasca. Ciò valeva per gli italiani che emigravano (ed emigrano) all’estero così come per coloro che vengono in Europa a cercare condizioni di vita più sicure e dignitose. Ci si è confrontati per anni, senza produrre soluzioni accettabili, sulle politiche dell’accoglienza. Sarebbe ora di dar vita sia a livello nazionale che europeo a serie politiche di integrazione attraverso la garanzia di quei 3 diritti fondamentali. Riscrivere una sorta di nuovo “Contratto Sociale”, senza del quale lo Stato viene percepito da tutti come lontano dai bisogni, indifferente o, peggio ancora, ostile. Non è solo questione di solidarietà e giustizia, è anche un percorso per contrastare le dinamiche demografiche nazionali ed europee che altrimenti finiranno per ridurre le condizioni di benessere della popolazione (residente e immigrata). In sintesi: se i cittadini e il territorio hanno bisogno di più cura e più lavoro, è necessario creare nuovo lavoro e nuovi servizi per corrispondere a quei bisogni. Uno dei tratti della crisi politica profonda che viviamo risiede anche nel fatto che siamo dentro un vuoto di cultura politica difficilmente riscontrabile nel passato. Intendiamoci: non è che manchino analisi, elaborazioni, giudizi dai più vari contorni, ma la cultura politica è altra cosa; non sono solo idee, bensì visioni culturali animate da un’intenzione, appunto, politica ed è sicuramente impensabile che, se mai stante il presente, sia possibile uscire positivamente dalla crisi, se questa non riconquista a sé stessa una vera e propria cultura politica. Siamo, cioè, di fronte a un soffocante paradosso: la Sinistra non c’è più perché ha abbandonato l’alveo storico della propria cultura, quella del movimento operaio, il che sia chiaro, non significa tornare al concetto della “classe operaia” come classe generale; ma semplicemente avere cognizione dei salariati, molti ormai anche senza un salario sufficiente; insomma, di coloro che vivono vendendo la loro forza lavoro. La mancanza di questa nel tempo ha affondato il concetto stesso di Sinistra assieme alla sua funzione storica… già da decenni non si guardava più alla “Rivoluzione” ma la contrapposizione della “Reazione” da parte della Destra era forte e profonda nell’idea di un capitalismo senza regole. Eppure, seppur negata, anche in Italia la Sinistra ha avuto la sua Bad Godesberg, anzi noi forse ne abbiamo avuta più d’una. Ricordo esemplificamente per averla vissuta personalmente l’Assemblea dell’EUR (1978). Gli anni Ottanta, in particolare, hanno coinciso con grandi processi di ristrutturazione produttiva che hanno investito i principali gruppi industriali del paese e hanno accompagnato una significativa frammentazione del mercato del lavoro. I sindacati confederali (CGIL,CISL e UIL) sono stati protagonisti di un assai difficile e tormentato passaggio da un ruolo conflittuale per acquisire potere e diritti nei luoghi di lavoro a un ruolo di ”soggetto politico”, promotore di grandi accordi nazionali concordati con governi e associazioni imprenditoriali. L’ambizione ad assumere tale accresciuto ruolo ha comportato un venir meno dell’iniziativa sindacale conflittuale sui temi dell’organizzazione del lavoro e, sovente, determinava anche un allentamento dei rapporti con il mondo del lavoro in senso lato. Ha pesato nel percorso intrapreso da CGIL, CISL e UIL anche la difficoltà a difendere la propria autonomia dall’ingerenza delle forze politiche di governo e di opposizione. Che consideravano il sindacato la loro “cinghia di trasmissione” nel mondo del lavoro.  Se parliamo di Sinistra, bisognerà sapere anche di quale sinistra stiamo parlando e, a mio modesto avviso, essa non può essere un’indistinta meteora definita semplicemente “democratica”, in modo alquanto “vago e indefinito”. Bensì una Sinistra identitaria e europeista, che sappia contrastare e controllare un capitalismo selvaggio e correggere le sue storture disintegranti la stessa dignità economica e sociale proprio di coloro, che vivono esclusivamente del loro lavoro. Occorre che la Politica rifletta e, quindi, rielabori sé stessa. Naturalmente per chi ne è convinto, un simile punto di vista deve caratterizzare una linea economica e sociale che tracci una strada di uscita dalla crisi in corso come si suole dire a sinistra… non certo facendo la “Rivoluzione”, ma sapendo dare risposte eque e solidali sul piano della produzione della ricchezza e della sua distribuzione, risposte che non siano ulteriormente divisive, ma che rafforzino l’unità della nostra società e la nostra democrazia nonché le nostre istituzioni…

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